martedì 12 marzo 2019

"MASUA" Una storia Vera


Nota: alla fine del racconto trovi la mappa e le fotografie del viaggio




IL VIAGGIO

Fa freddo, il cielo bianco non promette nulla di buono ed un vento gelido mi fa tenere i finestrini della macchina chiusi.
Il mare, increspato anche in porto, appare minaccioso e buio. 
Lo stomaco mi si contorce per l'agitazione, ho le mani fredde ed il cervello concentrato nel ripassare tutto il materiale che abbiamo preso a bordo: pezzi di ricambio, crick, ruote di scorta, taniche acqua e gasolio, coltelli, i pod, cellulare, attrezzi e chiavi inglesi, frigo, acqua, cibo e birra, macchine fotografiche, inverter e caricabatterie, soldi contanti nascosti davanti di dietro di sopra e di sotto e chissà dove, sacco a pelo, coperte e cuscino, vestiti, quaderni e penne, Mac e sigarette, tre paia di occhiali da sole, padelle, gas e pentole, telecamere e cavi, guide e libri, guanti e scarpe, calze, accetta... 
Sul tetto badile e cinghie, cavi ed ammortizzatori, e poi molle e santini, vergini di guadalupe e pacchi di riso, olio cipolle e sale, passata di pomodoro e spaghetti. 
Ganci, grilli e documenti: ecco ciò che di più prezioso abbiamo: i documenti! Assieme a soldi e Land Rover, sono tutto. 
Mettiamoci anche la salute, mentale e fisica. 
Libretto della macchina, originale e fotocopiato, falso e fotocopie del falso, passaporto nuovo e passaporti vecchi che ci serviranno da esempio alle frontiere, libretto giallo delle vaccinazioni, patente italiana ed internazionale, carnet de passage falso, fatto ad arte in casa per agevolare il passaggio di qualche frontiera con doganieri troppo zelanti. 
Prendo il CB e parlo a Diego:" cosa ci saremo dimenticati? Sicuramente ci siamo dimenticati qualcosa lo sai?"
"Certo" mi risponde Diego, "sicuramente, ma ormai è fatta, è troppo tardi..."
Così mi passa tutto dalla mente e guardo di nuovo il mare, e poi guardo Genova, grigia come un topo sotto al cielo bianco e freddo come la neve che abbiamo lasciato a casa.
A Pontinvrea e a Sassello le stufe nelle rispettive case bruciano e scaldano. 
Due metri di neve avvolgono tetti e prati. Cecilia dorme e Federica riposa proteggendo il bimbo di diego che nascerà tra tre mesi.
Giorgio veglia su di noi.
Vergine di Guadalupe e Nostra Signora d'Africa proteggeteci, Suor Franca aspettaci. Africa, se puoi, tra i tuoi tormenti e le tue foreste, tra i tuoi laghi ed i tuoi deserti, preparati a fare spazio ad altre due anime che scenderanno nel tuo ventre, decise e spaventate, convinte e spaurite; accoglile senza chiedere troppo in cambio.
Amen e fine delle trasmissioni.

"Andate fino in fondo a quelle transenne, girate a destra e poi a sinistra, l'Ouzoud parte per Tangeri fra tre ore."
Le macchine si muovono, Jambo uno davanti e Jambo due di dietro, siamo già in formazione serrata, qualcosa di militaresco si insinua nella struttura del nostro movimento.
Diego: "ci siamo di nuovo, non riesco a crederci, stiamo per farlo di nuovo, non stò più nella pelle..."
Luca: "Si vede che hai mangiato troppo..."
Diego: "Ha parlato l'acciuga, almeno io non peso novantaquattro chili..."
Luca: "Ok, ma sono alto quasi due metri..."
Diego: "Si e io ho i capelli..."

Auto chiuse a chiave in coda, tra marocchini e marocchini e solo quattro o cinque europei. Facciamo amicizia con un gruppo di uomini tedeschi provvisti di baffi, Land Rover super equipaggiati, birra e tende da tetto. 
Stanno andando a fare un tour del Marocco. 
Un gruppo di inglesi invece è pronto a scendere fino in Senegal, uno di loro è vestito da pagliaccio perchè, ci spiega, ha saputo che se alle frontiere fai lo scemo hai più possibilità di passare. Bene! Allora conosco molte persone che riuscirebbero ad attraversare le frontiere anche senza bisogno di un costume. 
Passaporti, timbri, sigarette, ed in venti minuti siamo sul ponte della nave che guardiamo Genova allontanarsi, l'aria limpida ed il cielo bianco rendono tutto piatto e lontano, il mare scuro si apre fuori dal porto come per inghiottirci, la nave trema, sbanda e si allontana diretta a sud, verso l'Africa.

Siamo partiti.


Due notti si trasformano in tre, due giorni in tre e mezzo. Il battello sul quale navighiamo è una vera e propria bagnarala; scassata, vecchia, rattoppata ed arrugginita, ma stà a galla egregiamente. 
Il mare è grosso e mosso e la nostra nave deve andare molto piano. Nel Golfo del Leone le onde arrivano a coprire i ponti inferiori e gli spruzzi giungono fino alla ciminiera. io come sempre ho paura, di morire, di affondare nel mare gelido, lontano da casa e da tutto ciò che conosco.
La cuccetta in cui dormiamo è grande come il cassone di un pick up ma il letto è comodo ed abbiamo anche un bagno tutto per noi. 
La seconda notte il mare è così mosso che si rischia di cadere dal letto. Fuori dall' oblò si vedono onde alte come colline, onde che sembrano in grado di inghiottirci in un sol boccone.
Durante le lunghe giornate sulla nave, giornate che davvero non finiscono mai, conosciamo gente, parliamo con Tino Rossi, ex campione del mondo di off Shore, e poi con Zac e suo fratello, due marocchini ormai italianizzati che vivono a Belluno e dai loro racconti pare che tutte le donne di Belluno si siano innamorate di loro e siano cadute vittime del loro fascino esotico.
Bene, cominciamo ad essere in Africa per davvero, le storie diventano esagerate ed inverosimili, assurde quanto vere.
Un cartello in corridoio dice "in caso di emergenza rivolgersi al personale ed eseguire le sue istruzioni", e la cosa mi tranquillizza molto visto che l'avviso è firmato "il Bordo", proprio così, "il Bordo".
Africa accogli i tuoi figli così come sono ed abbine pietà. Amen.
Vaghiamo per i corridoi, Diego ed io, come due anime in pena, ma i nostri pensieri non sono così profondi come ci si potrebbe aspettare, non stiamo rimuginando sul significato della vita e dei viaggi, ma ci stiamo semplicemente rodendo il fegato perchè siamo separati dalle nostre macchine.
Non vediamo l'ora di essere alla guida di Jambo uno e Jambo due; o si chiamano Spirit ed Opportunity? Non ricordo bene.

Il mare ci scrolla, ci rimbalza da un cavallone all'altro, la nave geme e si inclina, le seggiole si spostano ed i lampadari muovono. Il ritardo aumenta ed arriviamo a tangeri in piena notte, mille luci ma poche comunque in confronto a quelle di una città Europea. 
L'uscita dal ventre della nave è un inferno, nessun ordine, nessuna logica, auto che non partono, tutti i motori accesi, odore di ossido di carbonio e puzza di benzina. Per uscire impieghiamo più di un'ora.
Ma poi, fuori, forti delle passate esperienze, praticamente saltiamo tutti i controlli, una mancetta qui, una bustarella là ed in tre minuti sfiliamo accato alle altre mille auto, ci vengono aperti i cancelli e via, filiamo a cento allora nella notte marocchina superando grandi viali alberati che costeggiano file di banche, hotel e gradi distributori di benzina. 
Il marocco in soli tre anni pare aver fatto un salto avanti di venti, o per lo meno questa città.

I land Rover corrono rapidi nella notte diretti verso il centro della terra.

Scendiamo il Marocco veloci come il vento del deserto.    Corriamo come predoni lungo strade perfettamente asfaltate costeggiando l'oceano atlantico, maestoso e tranquillo.
Strade perfette, migliaia di case nuove, alberghi e strutture hanno cambiato il volto del marocco. 
Mhoammed VI, amato od odiato che sia ha lanciato questa nazione verso il futuro.
Passiamo la prima notte appena fuori Essaouira ed una visita al suo souq mi colpisce profondamente. Pare di essere per le vie di Saint Malo in Bretagna.
Negozietti di artigianato e raffinati ristorantini si affacciano su viuzze lastricate di ciotoli variopinti, palazzi e casette perfettamente  ristrutturati ospitano botteghe e negozietti degli immancabili cinesi, venditori di tutto e di niente.
Una superba cena di pesce ad un prezzo ridicolo ci spedisce a letto gonfi come otri.
Il temporale della notte scuote la tenda ed il caldo tepore del sacco a pelo mi fa raggomitolare come un feto e dormire come un neonato. Di tanto in tanto i tuoni mi svegliano e l'ultimo, il più forte, mi desta completamente, annunciando una mattina umida e grigia.
Riprendiamo la nostra discesa veloci come fulmini, alle sei siamo già in marcia, guidiamo tutta la mattina attraverso campi di medica e muretti di pietra, il panorama piovviginoso e verde, costellato da pecore che pascolano placidamente tra recinti di sasso, sembra non appartenere a questo continente. Pare di essere in Scozia o in Irlanda.
Il deserto però ci attende. Il sali e scendi di verdi colline si trasforma rapidamente in una brulla distesa di rilievi aguzzi come denti e scarpate aride e cotte dal sole.
A Tan Tan un posto di blocco ci ferma e Diego salta giù dalla macchina per chiacchierare con la polizia.
Problemi, sorgono i primi problemi.
La polizia studia la mappa del nostro percorso sulla portiera di "Jambo 1". Perdono la testa: perchè mai il Marocco nella nostra mappa risulta diviso in due?
Lo sappiamo o no che il marocco è uno ed uno solo?
Diego cerca di scusarsi dicendo che abbiamo scaricato la mappa da internet così com'era e poi apre la carta della Michelin e fa vedere che anche lì il marocco è diviso dal Sahara Spagnolo.
Evidentemente la comunità internazionale non ha mai riconosciuto al Marocco la sovranità di quell'area. Ma la realtà è un'altra.
I poliziotti si scaldano ed in un primo momento ci dicono che se proseguiamo con quelle mappe sulle porte qualcuno più a sud ci aggredirà. 
Poi, nell'impeto, si lasciano andare dicendo che se loro stessi non avessero addosso un'uniforme ci farebbero la macchina a pezzi, la prenderebbero a sassate; proprio così, a sassate.
"Voi che venite dall'Europa non sapete e non potete capire nulla di ciò che accade qui da noi e non dovreste permettervi di fare della politica nella nostra nazione" ci dicono con espressione cattiva.
Ci scusiamo, chiediamo perdono per la nostra ignoranza e promettiamo di modificare la cartina mettendoci sopra un adesivo.
Ripartiamo verso sud, verso il deserto, alla volta di Tarfaya.
Ormai il deserto ha preso il sopravvento, la terra bruciata a sinistra, piatta per decine e decine di chilometri e l'oceano a destra, cinquanta metri più in basso, ci accompagnano tutto il giorno. Corriamo accanto ad infinite file di pali della luce e cavi sospesi nel nulla.
Passiamo la notte nell'albergo di Paul il francese detto "Paul l'italiano".
 Ceniamo mangiando montone con le prugne e bevendo vino bianco e gin and tonic.
La mattina partiamo che l'alba ha ancora da venire.
Il deserto è grande e pare già non finire mai.

Le ruote rotolano, la trasmissione gira, i pistoni fanno su e giù, il Land Rover viaggia a centoventi all'ora.
Tutto quello che abbiamo attorno é nulla: il cielo bianco, la terra grigia e le rocce gialle. Sembra di vagare su marte, sembra di essere su un altro pianeta.
In effetti, rapidamente stiamo scendendo verso un pianeta diverso dal nostro, un pianeta dove la vegetazione ci è completamente aliena, dove la gente vive in modo così diverso da noi da non poterlo comprendere.
Stiamo scendendo su un pianeta dove le forme di vita sono così strane da fare paura, animali giganti e feroci popolavano queste terre, qualche superstite si aggira ancora laggiù, nel cuore nero di questa terra semi abbandonata.
Le persone si trasformano, divengono magre, forti e nere come la notte. Gli abiti cambiano, i sorrisi si allargano, le tuniche cadono e le donne civettano. I capelli si alzano verso il cielo in riccioli duri come il ferro e le treccine ricadono verso terra come liane sottilissime. I sandali si slacciano e scarpe con i tacchi e scarpe da ginnastica di marche inventate calpestano una terra sempre più rossa e sempre più pronta a trasformarsi in fango.
Finisce il Marocco con una sbarra ed una frontiera che ha la pretesa di essere seria. Voci di corridoio o meglio, voci di strada, ci dicono che da un anno è possibile scendere in Mali, a Bamako, in due giorni poichè la strada è larga, dritta, bella e soprattutto asfaltata.
Questa è una notizia buona, ci risolleva il morale.
Abbiamo fretta, tanta fretta, una fretta paradossale, una fretta che in questo continente non è nemmeno presa in considerazione.
Documenti, sorrisi e un doganiere che dopo tre anni ci riconosce senza esitazione.
I cofani bollenti, i cartelli che spiegano di fare attenzione alle mine. Tutto sembra immutato, solo qualche piccolo particolare, inconsistente, etereo, da l'idea che qualcosa sia cambiato. La strada, pulita dalla sabbia, scopata via dal vento e dagli uomini, è liscia e dritta e noi corriamo veloci verso Nouackchott.
Abbiamo fretta, una fretta maledetta, che ci spinge verso il Congo con la forza di una tempesta.
Oggi sappiamo quanta strada dobbiamo percorrere nei prossimi mesi, sappiamo che molto probabilmente anzi, quasi sicuramente, non riusciremo a passare la foresta, ma siamo comunque determinati a provarci.
La folle corsa continua fino a mezza notte, incrociamo e superiamo tir con un ritmo ipnotico, allucinante. Sudore e sonno fino alla capitale.
Una notte, un pasto, una birra e un milione di zanzare.
Nouackchott continua ad assomigliare ad un immenso accampamento nel deserto, calda, polverosa ed approssimativa come un dipinto mal riuscito ed abbandonato nella spazzatura.
Poi il deserto, con le dune ed i minareti a sovrastare migliaia di baracche che oggi hanno sostituito la paglia alle lamiere per proteggersi dalle intemperie.
Sabbia ovunque, sotto le unghie, tra i denti e nei serbatoi delle macchine.
Ad Aleg dormiamo nelle nostre tende accostati ad un casolare che fa finta di essere un albergo. Un bagno maleodorante e putrido ci aiuta a svuotarci del poco cibo ingerito durante la giornata. 
Accanto a noi un'enorme discarica corre a destra ed a sinistra a perdita d'occhio compiendo un giro intero attorno a tutta la cittadina, come un anello di detriti attorno ad un Saturno in rovina.
I bimbi,  a decine, alcuni fasciati come piccoli musulmani, altri seminudi come i neri della foresta, giocano in mezzo alla spazzatura e si avvicinano curiosi ed incauti, belli e sporchi, felici e malandati come vecchi barboni. 
In lontananza e poi sempre più vicino, i Muezzin lanciano le loro grida disordinate a cui nessuno pare far caso.
Passiamo una notte triste, spaventati da ciò che ci aspetta, terrorizzati dalle nostre personali visioni del Congo che è la nostra meta, la nostra direzione il nostro destino.
Diego è un automa, come e forse più di me, ne parla meno, si finge rilassato ma pare un robot da viaggio. 
Ci siamo trasformati in macchine, in congegni meccanici adatti ad affrontare rapidamente ogni situazione che cerca di farci perder tempo. 
Guidare, dormire, mangiare ed evacuare. Aprire le tende e richiuderle e poi di nuovo guidare, sbrigare pratiche doganali e guidare ancora.
Tutto ciò che facciamo lo facciamo in funzione di una sola cosa: arrivare in Congo. Poi si vedrà.
Tangeri Bamakò cinque giorni, una follia indispensabile.
Abbiamo tre mesi di tempo per arrivare in fondo ad un continente in cui il tempo è una barzelletta e la puntualità un concetto non ancora inventato.
Tangeri, Rabat, Casablanca, El Jadida, Safi, Essauira, Agadir, Tiznit, Ifni, Guelmim, Tan-Tan, Tarfaya, Laàyoune, El Marsa, Boujdour, Dakhla, Nouakchott, Aleg, Kiffa, Tintàne, Ayoùn el Atroùs, Nioro, Dièma, Kati, Bamako, Bougouni, Sikasso, Bobo-Diulasso, Ouagadougou, Zorgo, Kourpèla, Bitou, Dapaong, Mango, Kara, Sokodè, Aniè, Atakpamè, Tabligbo, Lomè, Anèho, Grand Popo, Ouidah, Cotonou, Porto Novo, Saketè.
Nomi e facce che scorrono come in un film girato da un pazzo visionario che vuole interpretare la vita attraverso la quantità e non la qualità dei modi di vivere e dei mondi da abitare.
Strade che scorrono, costeggiano noi e fiumi, che scappano, tra valli e guadi, che scorrono tra agavi e campi di cotone. 
Strade che scivolano verso pozze di nulla spaventose solo a pensarle, che stringono il cuore a guardarle, abitate da bimbi che giocano con una bottiglia di plastica vecchia di dieci anni.
Ad ogni sosta i bimbi spuntano come folletti dalla sterpaglia, escono dalla terra come funghi magici destinati a crescere e divenire uomini sconfitti e donne caparbie.
Piedi neri e bianchi di polvere si accalcano attorno al bianco che fa la pipì, gironzolano attorno alle macchine alla ricerca di qualunque cosa non sia polvere e spine.
E poi gambette che corrono all'inseguimento dei Land Rover che inesorabilmente decollano e lasciano per sempre il loro pianeta.
Lentamente il deserto si disgrega in particelle di vegetazione, si scioglie in pozze d'acqua calda sempre più frequenti, si anima di bestie pigre e persone sempre più sorridenti e si innalza verso l'alto non più in nubi di polvere grigia ma in verdi fronde di Baobab e fiori arancioni che colorano cielo e terra.
Casa è sempre più lontana e per assurdo anche il Congo sembra allontanarsi giorno dopo giorno.
Passiamo la notte a Nioro in un accampamento improvvisato nel cortile di una casa perduta nel labirinto di stradine e bassi edifici di fango secco. 
Patate fritte e carne di pecora fanno da contorno a quattro birre fredde consumate in compagnia di due motociclisti tedeschi diretti a Bamakò.
Poca gente europea percorre queste strde, pochissima, e sempre meno sarà nei prossimi giorni. cerco di godermi i racconti di quei pochi che incontriamo perchè so già che mano a mano che scenderemo incontreremo sempre meno viaggiatori, fino al Benin forse, più in là sarà quasi impossibile e poi... poi il Congo.
Mamadou, undici anni, bello come il sole, scuro come la notte ed impolverato come una casa nel deserto ci ricorda che siamo a Nioro, mica in mezzo al nulla, "Qui c'è la dogana, l'assicurazione ed il campeggio, e questo è già molto".
Parole che ti fanno pensare, pensare molto ed alla fine, continuando a viaggiare e ripensare ti accorgi che sono parole giuste, parole sagge, parole di un bimbo vecchio come la terra che percorriamo. Parole che vengono ricompensate con una Coca Cola e carne in scatola mauritana, parole che hanno un solo triplice scopo, spiegare, capire e sopravvivere.
Benzinai poveri e disperati si trasformano in truffatori impacciati e sempliciotti che si fanno scoprire con le mani nel sacco. 
Diego, sempre attento al livello del gasolio scopre le truffe senza un battito di cilia, insulta, spiega, cerca di far comprendere e poi si arrende, paga il dovuto ed il rubato perchè in fondo lasciare qui dieci dollari in più è una forma di valorizzazione del denaro che da noi è impensabile, un mese di cibo invece che due pacchetti di sigarette, questo è il rapporto che genera l'immensa differenza tra noi e gli abitanti di questo grande pianeta.
Tre notti e due giorni a Bamakò sono sufficienti per fare il pieno di visti per i prossimi giorni. Quattro ambasciate due visti.
Roba da non credere, l'ambasciata nigeriana, nelle vesti di una splendida ragazza che parla e si muove come una principessa, ci rilascia un visto valido due mesi, economico e veloce.
Ci dirigiamo veloci verso il Burkina Faso, troppo veloci per godere della savana che ci circonda.

Un'aquila si libra in volo, spicca il primo balzo con in bocca la sua preda, scarta verso sinistra e dà un battito d'ali per prendere quota; stà per innalzarsi in cielo, settanta centimetri, un metro e poi lo schianto, feroce, improvviso, definitivo.

Diego, a centoventi allora colpisce il rapace in pieno, lo sbatte oltre il tetto, morto, spiumato, scomposto.
Dieci giorni prima Cecilia mi aveva raccontato un sogno: un aquila grande ed imponente dalla testa bianca entra dalla finestra spalancata di un'aula dove mi trovavo a chiacchierare, tutti fuggono tranne me, l'aquila lancia un urlo e poi si posa tra le mie braccia e si accoccola come un bimbo. Io l'accarezzo.
Quando Cecila mi raccontò questo sogno sentii che era un buon segno, un cenno mandato dall'ignoto per augurarmi buona fortuna.
Oggi, qui, lungo questa strada bollente ed infinita, vedo il sogno che si infrange contro al muso del Land Rover.
Diego sbanda, derapa, riprende il controllo ed inchioda. 
Con tutti gli uccelli che ha fotografato, ammazzare un aquila che vola libera nella savana è l'ultima cosa che vorrebbe che accadesse.
L'aquila è morta, l'auto intatta e la strada ancora lunga.
Bobo Dyulasso. Una cena piena di zanzare ed una notte calda ci rimettono in forze per l'indomani.
Il Burkina Faso è piatto come un biliardo e la sua capitale non è da meno. 
Credo che la Mauritania ed il Burkina si possano giocare il titolo mondiale di "stati inventati e con meno attrattive". L'unica attrattiva di questi posti pare essere la totale mancanza di ogni cosa.
Le persone sono gentili e cordiali e si respira un'aria di tranquillità e sicurezza.
Vaghiamo quattro ore per Ouagadougou in cerca di una banca che ci faccia usare le carte di credito. la troviamo e ritiriamo un pò di banconote.
La strada continua e quel robot che è diventato Diego apre la via verso sud. Io seguo, programmato per guidare senza sentire lo stress e la fatica.
Foreste e colline trasformano Sahara e Sahel in colline e foreste.
Il Togo è Africa tropicale, capanne di fango e paglia, uomini Neri e donne color dell'ebano, poliziotti confusionari e leggi tanto elastiche quanto fantasiose ed inventate.
La polizia ci insegue e ci ferma. Troppa velocità, un sorpasso azzardato e mille altri problemi fanno in modo di farci rischiare la prigione. Due sorrisi ed un pacchetto di sigarette trasformano il tutto in un pranzetto tra amici improvvisato al bordo della strada.
I due poliziotti mandano a chiamare una donna, poi la spediscono a prendere dell'igname, un pò crudo ed un pò cotto. Mangiamo seduti sulle moto della polizia  e ripartiamo con tre chili di igname dono della polizia del Burkina.
La sera siamo nella confusione di Lomè, sul mare, lontani anni luce dal deserto e dalle solitudini dei giorni precedenti.

L'albergo-bar-ristorante dove ci fermiamo è un incrocio tra un Bistrò bohemien, un locale jazz, una topaia, un bordello, un ristorante di lusso per consoli ed una taverna per viaggiatori smarriti.
Qui potresti incontrare chiunque, dalla reliquia nazista fuggita dalla Germania alla fine della guerra a Jack Keruak ...............che ingurgita pillole ascoltando il più fantastico trio di jazz che abbia mai sentito. 
Seduto al bancone puoi trovare il console dell'Inghilterra che beve una birra con un minatore sudafricano mentre la sua famiglia seduta al tavolo mangia carne e pesce bevendo vino rosso francese.
Io invece incontro un bretone, che vive a Corlay e conosce la famiglia del mio amico Pierre-Yves, con il quale bevo birra fino all'una di notte mentre Diego si ubriaca ascoltando quel trio jazz che farebbe scrivere dieci pagine mistiche a Kerouak se non fosse così fatto da non stare in piedi.

Ma non abbiamo tempo per nulla, forse nemmeno per pensare e la mattina dopo all'alba corriamo lungo la costa, vero est, entriamo in Benin a fatica, centinaia di chilometri nel traffico più assurdo costeggiando lagune ed immensi festival dedicati al Voo Doo.
Siamo in piena festa Voo Doo, giorno di caos ed allegria, magia e gioia.
Filiamo verso Porto Novo e troviamo un albergo appena fuori citta,  enorme e deserto ci accoglie con una sala da pranzo grande come una sala conferenze e camere piccole come gusci di noci.
Mangiamo sulla veranda infestata di zanzare, la vista sul delta del fiume è impagabile e due gabbie a livello del pavimento ospitano coccodrilli e tartarughe.
Il cameriere ci vuole vendere antiche statue che solo a guardarle mettono paura e due zanne di elefante di più di dieci chili l'una. Perchè non  anche un Kalshnikov e magari un pò di uranio?
Andiamo a dormire imbottiti di birra e patatine con pollo.
Ci mettiamo a letto ma la paura per il giorno dopo non da spazio al sonno. 
Domani dobbiamo entrare in Nigeria e tutti, ma proprio tutti, ci dicono che è una pazzia, che lo è sempre stata ma in questo periodo è addirittura impensabile andare in  quel paese, troppo pericoloso, troppi banditi di notte e troppa polizia fuorilegge di giorno. 
Terra di morte ed assassinio, di omicidi e stupri, contrasti sociali e massacri religiosi.
Notte di incubi e paure, fantasmi e demoni.
L'aria e calda ed appiccicosa, le zanzare insistenti e fastidiose.
Dalla finestra entrano sbuffi di calore ed i ritmi delle feste Voo Doo che continueranno per tutta la notte.
Mi sento circondato da demoni in maschera e da uomini e donne impossessati, da spiriti forti e malvagi, da serpenti e mostri appartenenti ad una mitologia tanto estranea quanto terrificante.
E questo non è un bel dormire.
La notte inquieta porta riposo quanto una maratona e la mattina ci svegliamo sudati e più stanchi di prima. 
Diego è uno straccio ed io non voglio nemmeno guardarmi allo specchio.
Caffè e sigaretta e poi via verso la Nigeria.
Settanta chilometri a nord e poi ad est, su una pista sterrata e scassata che attraverso la foresta ci conduce dritti al confine.
Villaggi di donne in costume, cristiani in abiti bianchi che sembrano uscire per le vie per ripulire il mondo dai residui della notte precedente ed in mezzo a loro una ragazza rasata, nuda e magra, coperta di polvere, vaga come un anima dannata, occhi spalancati e mani penzoloni come uno zombie di Romero; il passo rigido ed incerto la conduce barcollante in ogni direzione meno che in quella della via.
La visione passa, la paura resta e la frontiera arriva.
Uscire dal Benin è facile. Sorrisi e venti dollari sono un cocktail impagabile.
Adesso si parla inglese e si gesticola meno perchè le mani sono ingombre di armi. 

La frontiera Nigeriana è corrotta fino nel midollo, la corruzione è palpabile, corrotti sono i registri, i muri e le scrivanie, le penne e le porte, le chiavi delle celle e le motorette dei doganieri, i mitra e le pistole, le tuniche le magliette e gli occhiali da sole. Gli uomini invece sono solo uomini, che vivono di ciò che li circonda.
Qui c'è più cultura, più rabbia e più cattiveria. Il nostro solito modo di fare, bonaccione e razzista non funziona. Il funzionario in capo ci fa sapere che ci farà smettere lui di ridere e dice qualcosa ai suoi sottoposti armati.
Ci si gela il sangue nelle vene ed il sudore sulla fronte e sulle pance.
Tutto termina nella distribuzione di spicciolame e sigarette ed anche la Nigeria cede al denaro dell'uomo bianco.
E' solo la fretta che spesso ci porta a pagare piccole tangenti e minuscole bustarelle, quando avremo più tempo e voglia di farlo ci fermeremo a discutere sulla follia della corruzione ed insegneremo a tutto il continente come si vive in modo civile e sano, noi che di virtù viviamo.

Ikeja, Shagamou, Ljebu Ode, Benin City, Asaba, Onitsha, Enugu, Abakaliki, Ikom, Ekok, Calabar, ancora Ekok, Mamfè, Nguti, Kumba, Fako, Douala, Edèa, Yaundè, Ayos, Abong Mbang, Bertoua, Garoua Boulai, Baboua, Bouar, Baoro, Bossentèlè, Bossembèlè, Boali, Bangui e poi il cuore di tenebra.

Non ricordo di aver visto od incontrato un solo bianco o, se preferite, un solo "occidentale" durante tutto l'attraversamento della Nigeria.
Certo in Nigeria vivono dei bianchi, ma credo che non girino molto per strada, anche perchè al di fuori di qualche mercato non  ho visto molto che possa attirare fuori da casa.
Qui l'esercito e la polizia vivono in uno stato di corruzione cronica, la società stessa sembra basata sul concetto di corruzione.


La polizia ti punta addosso fucili, mitra e pistole,sguardi truci e divise pulite.
Posti di blocco ogni quaranta cinquanta chilometri. Soldi, soldi soldi, tutto ciò che vogliono sono soldi e per averli sono disposti a tutto, anche a metterti dentro, forse anche a sparare. Chissà.
Così sotto un caldo asfissiante e tenebroso ci ritroviamo a cambiare una gomma al Defender di Diego coadiuvati dal capo della pattuglia che ci ha fermati. Riusciamo anche a fare delle riprese, forse sganciando qualche dollaro, forse no, non saprei. Troppo caldo.
L'asfalto è scassato e caldo, in alcuni tratti addirittura morbido, cedevole. I villaggi che si susseguono quasi più numerosi dei posti di blocco sono sempre più grandi fino a trasformarsi in un'unica striscia di abitato che serpeggia assieme alla strada attraverso il continente Nigeria.
Fucili, militari, caldo, paura, periferia di Lagos.
Svoltiamo a nord est per evitare il caos della megalopoli. Sei ore in coda, schiacciati da cammion urlanti e clacson lamentosi. Non si può avere idea di cosa siano lo smog ed un ingorgo se non venendo qui. 
Credo, e lo dico senza ironia, che spesso in ingorghi come questo, in questa parte di mondo, muoia della gente, disidratata, schiacciata, investita, assassinata. Niente di più facile. Cinquanta gradi fuori. In macchina non voglio nemmeno saperlo.
Due corsie per senso di marcia, in tutto quattro, divise da uno sparti traffico divelto, demolito, ferito ed intermittente.
 Le macchine si muovono scorrendo veloci come lumache morte, ogni direzione può essere quella buona. 
Dalle quattro corsie della strada ne nascono otto, anche se volessi non potrei aprire la portiera della macchina, sfioro cammion e pulmini, moto e carretti, auto e suv.
Urla, calore, pianti e sopportazione.
Scene di isterismo. Un gruppo di ragazzi salta giù da un pulmino e a forza di braccia butta fuori strada, nella cunetta stracolma di spazzatura, un Grand Cherokee che gli ha tagliato la strada. Il conducente terrorizzato resta in macchina, sballottato e sudato.
Si intravedono armi. Un gruppo di banditi simula un incidente e poi attua la sua bella rapina in mezzo a tutti. E poi urla e risse.
Tutto attorno una città senza nome che è un coacervo di baracche e spiazzi sterrati ricoperti di spazzatura e persone. 
Gli automobilisti più avventurosi escono di strada e percorrono prati e vicoli di polvere, passano tra le case e nei cortili.
La strada sembra un fiume in piena che ormai ha straripato. Rigagnoli si insinuano tra gli argini e scivolano a valle seguendo qualunque strada.

Un centimetro alla volta ci muoviamo verso est. Più volte tocchiamo altri veicoli ed uno contro l'altro avanziamo. Caldo caldo caldo. Il sudore che mi cola giù dalla fronte mi finisce negli occhi e quello che scende dal petto mi bagna i pantaloni.
Finiamo in un mercato invaso da una folla urlante, la macchina si sposta tra la gente sospinta di qua e di là, a volte qualcuno si appende e scrolla, qualcuno tenta di aprire il portellone posteriore, qualcuno le portiere.
Leggono le mappe del nostro percorso sulle portiere e ci urlano addosso complimenti misti a terribili insulti. Sorrisi e sguardi truci e odio si amalgamano a spirale fino a raggiungere un centro immaginario che pulsa e da l'idea possa esplodere da un momento all'altro.
Dai finestrini entrano odori nauseanti di pesci marci misti a gas di scarico, mentre marmitte giganti ruttano sbuffi grigi addosso a gambe nere e teste rasate fino all'osso.
Occhi bianchi come perle incastonate in un guscio scuro come la notte ci guardano divertiti nascondendo un odio che fa paura.
Il sole lontano ma non quanto basta, la strada lunga ma lenta e la gente pronta a tutto ma non ancora pronta ad incontrarci, si contendono il primato del terrore in una terra violenta quanto bella.
Lentamente usciamo dall'ingorgo, dalla rotonda folle che crea un gorgo di auto e di pensieri.
In sei ore siamo liberi e corriamo veloci tra posti di blocco e cadaveri.
La notte viene presto, le tenebre no.
Alle cinque bisogna essere in "sicurezza", chiusi tra muri e fili spinati e protetti da guardie armate. Alle cinque la polizia si ritira o cambia ruolo e la zona è in mano a chi ha più forza, coraggio, determinazione o disperazione.
Al mattino, si trovano i resti di una notte violenta. sangue e morti. Morti nelle cunette, morti in centro strada.
Dormiamo davanti all'ingresso di un mega hotel che vorrebbe essere di lusso ma non ci riesce. Nessun cliente in vista ma almeno dieci camerieri pronti ad assecondare ogni nostro bisogno. Pollo patatine e birra e niente più. Affittiamo una camera solo per poterci lavare e poi dormiamo nelle nostre tende. Lontani colpi di fucile rimbombano nei miei sogni attutiti dal caldo della notte.
Higway enormi abbandonate da trent'anni corrono attraverso la foresta ed il senso di marcia è un'invenzione del momento. Ogni corsia è buona, ognuna può essere quella fatale.
Incidenti continui e talmente folli da parere finti. Tir in fiamme sovrastano auto contorte, donne che piangono accanto a rottami fumanti. 
Scatto foto e riesco a rubare le immagini di "solo" qualche decina di incidenti. Non ha senso, carcasse ai bordi delle strade, carcasse in mezzo alla strada. Auto in fiamme che nessuno spegne e colonne di fumo nero. chiazze di sangue e principi di incendi.
Diego, lanciato a cento all'ora contro mano scansa per miracolo un cadavere accasciato in mezzo alla strada, Io ci passo a fianco sfiorandolo ed osservando la sua testa schiacciata sull'asfalto ed il suo corpo morto, per sempre abbandonato.
Miseria, morte e disperazione per migliaia di chilometri.
Un'altra notte in sicurezza, ma credo che il peggio sia passato, almeno così pare.
Un albergo caro con tv in camera e piscina con bbq ci fa rilassare tre ore prima di dormire con l'aria condizionata al massimo.
La Nigeria pare proprio questo: paura, morte, disperazione e miseria e poi la sera albergo con aria condizionata. 
Forza del petrolio potenza del denaro.

Puntiamo Ekok, confine con il Cameroon, guidiamo sin dall'alba e per la prima volta incontriamo uno sterrato degno di questo nome. Buchi e voragini, rive scivolose e fanghi e polveri. Si guida attraverso mandrie di vacche e pastori. La terra rossa e la vegetazione verde ci circondano.
Cinquanta chilometri dal confine la nostra gioia di uscire dalla nigeria si spegne con un inseguimento da parte della polizia. Ci fermano, ci arrestano, ci vogliono arrestare. Non ci siamo fermati al posto di blocco, e senza visti non si entra in Cameroon o meglio non si esce dalla Nigeria.
Corruzione nostra che sei nei cieli...
Venti dollari e si riparte, verso sud, verso Calabar, splendida città sul mare.
Un visto, un albergo una cena dai libanesi e poi di nuovo a nord verso Ekok.
Visti, documenti e timbri. Si attraversa un ponte, si fanno cinque chilometri si rifanno documenti e timbri e poi finalmente siamo in Cameroon.
Foresta che avvolge una strada scassata e serpeggiante.
Eccoci qui, di nuovo su strade che se non hai un fuoristrada non puoi percorrere.
Carri armati e ruspe rovesciati ai bordi del sentiero, buche profonde come piscine e tanta polvere che non me la ricordavo più.
Venti chilometri all'ora è la media. La notte la passiamo a Mamfè, agglomerato di capanne e vecchi edifici cadenti. La stanza che prendiamo è una latrina ed il bagno ancora peggio. Mangiamo spiedini e dormiamo caldi e appiccicosi.
Direzione sud verso Douala. Qualche centinaio di chilometri richiedono tantissime ore di guida. Si parte con il buio e si arriva con il buio. Asfalto rotto e voragini spalancate lasciano il posto ad una strada di terra e fango che sembra un percorso da montagne russe.
La foresta ci avvolge ed ogni tanto si apre su radure occupate da piccoli villaggi circondati da lussureggianti colline in fiore.
Panorami mozzafiato si alternano al buio della selva.
Mangiamo brochette di grasso e carne di capra cucinate sul fuoco e ci prepariamo al solito mal di pancia.
Stiamo dando un passaggio ad un signore che dice di essere una specie di dignitario, deve arrivare a Douala in giornata.
Nel villaggio dove mangiamo lui spiega alla gente che si raduna attorno a noi , che vedere due bianchi da quelle parti è un buon segno, perchè se arrivano dei bianchi è probabile che in breve tempo arrivi anche l'asfalto.
Mi spiace per loro ma noi non siamo bianchi. Per lo meno non siamo di quella razza di bianchi dopo i quali giunge l'asfalto. Ho paura che dopo di noi... il nulla, per ancora molto, molto tempo.
Douala, confusionaria e vivace, poi asfalto ottimo fino a Yaoundè.
Yaoundè, capitale dell'Africa, città enorme e bellissima che quasi riesce ad essere bella come una città centroamericana. Vivace e quasi fresca la sera, caotica nei mercati e quieta nei quartieri residenziali. Se Yaoundè non fosse in mezzo all' Africa si potrebbe quasi dire che sia avviata verso un futuro di sviluppo, verso un futuro più roseo, ma tutto attorno e nelle viscere della città scorre il sangue della foresta, il sangue dell'Africa e questo vuole dire che tra un anno tutto potrebbe di nuovo essere in rovina.
Riusciamo ad ottenere il visto per la repubblica Centroafricana ma non quello per il Congo Repubblica Democratica.
Passiamo due notti vicino all'Hotel de Ville, passeggiamo per il quartiere delle ambasciate e la sera usciamo a mangiare pesce e spiedini con il nostro tassista di fiducia.
I Land Rover riposano in un cortile ed i nostri vestiti asciugano al sole dopo essere stati lavati.
Il secondo giorno, verso sera, mentre camminiamo alla ricerca di una birra, mi rendo conto di non essere più in grado di comandare il movimento delle gambe, mi tremano, mi sento mancare.
Scendiamo in un locale a prendere una birra. Non ho nemmeno le forze per sollevare il bicchiere. Qualcosa non va.
Sul bancone c'è una zuccheriera ricolma di zollette, quando mi ci cade l'occhio sopra il mio fisico reagisce e trovo le forze per muovermi.
Mi trascino al banco, chiedo il permesso di farlo e poi comincio a mangiare zollette di zucchero come fossero caramelle. ne divoro almeno sette e tutto il mio corpo rinasce, si scuote e rivive come sotto l'effetto inebriante di una droga potentissima.
Sono di nuovo vivo.
Diego fa mente locale: non mandiamo giù un grammo di zucchero da almeno venticinque giorni, l'ultimo zucchero ingurgitato era nei caffè o nei thè sul battello per Tangeri.
Bravi stupidi.
Mi mangio ancora due zollette e poi mi scolo la mia birra.
Ripartiamo dopo tre giorni, all'alba come sempre, in direzione nord nord-est, alla volta di Garoua Boulay, pronti a percorrere la folle strada dei camion che percorremmo tre anni prima. Pronti a rimanere nella foresta due, tre giorni, tra polvere e pericoli mortali.
Yaoundè- Garoua Boulay via Abong Mbang sei ore di asfalto perfetto ed invitante e qualche sterrato talmente liscio da sembrare il fondo di una pista d'atletica.
Allora anche qui le cose possono cambiare?
Tre anni prima questo posto pareva un inferno, oggi un piccolo paradiso. La polvere è scomparsa e con lei il fango, le case e le capanne stanno riacquistando i loro colori, ridando terra alla terra pioggia dopo pioggia.
A Metà giornata ci fermiamo in un villaggio per mettere qualcosa sotto i denti. Mentre stò per scendere dalla macchina qualcosa mi cammina sul collo. Uno scarafaggio grosso come un bel biscotto. Come i biscotti, gli scarafaggi non sono mai da soli.
Chiudo bene la macchine e ci sparo dentro mezzo tubo di insetticida mauritano.
Per pranzo stufato di pecora e manioca. Diarrea assicurata.
Dio ritorno alla macchina si contano gli scarafaggi morti e si riparte verso nord.
Dormiamo nel cortile di una missione di Suore tedesche e ceniamo con pezzetti di carne grassa e amara in compagnia di un bimbo albino e di un pazzo ubriaco che spacca bottiglie con i denti e trangugia i pezzi di vetro masticati come fossero mentine.
"Cazzo, cazzo ma dove cazzo siamo".
Questo è il mio più alto pensiero quando scende la notte e mi sento solo e smarrito in questo immenso e buio continente.

L'RCA non è solamente una tipologia di assicurazione, è anche una nazione, una nazione immensa che vive e pulsa proprio in mezzo al continente africano, proprio tra deserto e foresta, tra Dio ed Allah. La Repubblica Centroafricana è povera, spaccata in due dalla religione e dalla geografia, sfruttata da americani, francesi e magari mettiamoci anche cinesi e nord africani.
622.436 chilometri quadrati ovvero il doppio del nostro bel paese, deserto, shael, foresta. 4.343.000 di abitanti anche se dubito fortemente, anzi sono assolutamente convinto che nessuno possa nemmeno immaginare il numero esatto di abitanti che fa una nazione come questa, non esistono gli strumenti socio-economici per contare la gente. 
Qualche anno fa lo stato ha chiesto alle popolazioni di trasferirsi sulle due strade principali per poter fare il censimento. Centinaia di migliaia di famiglie lo hanno fatto ed ora ci sono ammassi di baracche lungo le strade e villaggi abbandonati lontano dalle strade, oppure baracche abbandonate lungo le strade e villaggi sovraffollati perchè alla fine il censimento non è stato fatto e qualcuno è ritornato al villaggio, qualcuno no, qualcuno è rimasto sulla strada, molti sono scesi verso la capitale ed altri hanno cambiato villaggio. 
Però nonostante tutto, anche su un'autorevole fonte come l'atlante del Times troviamo scritto 4.343.000 di abitanti non mille in più non mille in meno. E' un nostro bisogno? Si, assolutamente, immaginiamo per un momento che ai nostri figli a scuola venisse insegnato qualcosa del tipo: abitanti della Repubblica Centrafricana? Non ne abbiamo idea.
La cosa incredibile è che veramente le cifre sono inventate.
Per quello che posso aver visto io quattro milioni di abitanti e forse più potrebbe farli anche solo la capitale.
Ma può la nostra cultura accettare di non sapere qualcosa? Di non avere delle spiegazioni e delle risposte? No non può, così insegniamo ai nostri figli delle cose inventate tanto per dargli ancora un pò più di sicurezza. Bene, bravi.
Così entriamo in una nazione della quale non si ha la più pallida idea di quanti abitanti faccia, ne di quanti musulmani o cattolici o protestanti vi risiedano. non sappiamo nemmeno quanto produca, quanto sia ricca o povera, quale sia il tasso di natalità o quello di mortalità, non si conosce nè l'età media della popolazione nè l'aspettativa di vita. Non si sa nulla. 

La frontiera tra Cameroon e RCA è la solita frontiera africana fatta di polvere, lamiere, commercianti e funzionari corrotti.
Alle sette siamo alla sbarra ma ci dicono che prima delle nove lo Chef de poste non si presenta.
Ritorniamo in centro a prendere un caffè seduti su sedie di plastica in un caffè-capanna arredato in stile "visto che non ho niente ci metto quello che ho".
Questo posto, vedo scritto su una parete, si chiama Ilton, si proprio Ilton.
Fiori di plastica sui tavoli sovrastano cerate consunte e multicolore. Le pareti sono completamente rivestite di poster di squadre di calcio europee.
Diego prende un te ed io un caffè. Tanto per fare un buon abbinamento ci spariamo anche due omelette di uova e pomodori.
Due ore dopo siamo nella baracca della police, lamiere ai muri e per soffitto, terra come pavimento. 
Una donna è stesa dietro alla scrivania dello chef, è lunga lunga, magra come un chiodo, sudata ed ha gli occhi gialli. E' bella in un modo che non saprei dire, le mosche si cibano del sangue e del pus che le si sono raggrumati sulle gambe.
A fatica si tira su e mi si avvicina chiedendomi un passaggio per Bangui.
Suda e trema e lo chef de poste, senza troppa gentilezza la rimette per terra dicendoci che è malata mentre con l'indice si picchietta sulla tempia.
La donna, mi guarda da laggiù, avvolta nel suo sudario di stracci si asciuga la fronte sudata di malaria e lascia che le mosche continuino il loro infernale banchetto.
Diego prende su una specie di giovane dottorino che, di ritorno dai suoi studi in Cameroon, è diretto a Bangui per portare la dote alla famiglia della donna che stà per sposare.
Dr. Njami Jean à Garuna è il suo nome e medico la sua professione. E' carico di bagagli fino all'inverosimile, sale sulla macchina di Diego con un misto di riverenza e di paura, ma si vede che è contento perchè si sente troppo fortunato per averci incontrato.
La strada verso Bangui è lunga e scassata, tronconi di asfalto divelto si alternano a sterrati duri e polverosi e tutto continua così, per tutto il giorno, senza soluzione di continuità.
Baboua, Bouar, Baoro, sono villaggi che fanno finta di essere  città, sono agglomerati di capanne che città non lo diventeranno mai.
La strada prosegue e proprio a Baoro andiamo alla ricerca di padre Carlo.
Da una missione all'altra, da una stanza d'attesa ad un corridoio ci spostiamo cercando e trovando sempre nuove notizie.
Alla fine di un lungo viale alberato troviamo padre Carlo.
Ci accoglie con un sorriso ed acqua fresca. 
Nel cortile della missione conosciamo anche Alberto ed Angela che qui mandano avanti una missione-asilo. Con noi c'è anche Davide, ragazzo Italiano che è qui a seguito dei preti per qualche mese.
Come al solito veniamo subito adottati, questa volta da Alberto e Angela che ci offrono ospitalità presso di loro.

Si riparte tutti assieme verso Bossentelè.
Posto di blocco, Diego pare fuori di se, non so se per la fretta, lo stress o il caldo. Mentre la solita discussione va avanti, doganieri che pretendono soldi e noi che pretendiamo di non tirare fuori nulla, Diego si scalda e strappa i nostri passaporti dalle mani del poliziotto urlandogli in faccia che non ne può più della corruzione e di questi posti di blocco inventati.
Scoppia un putiferio: militari arrivano di corsa e armati e ci intimano di restituire i passaporti, poi ci svuotano le auto e cominciano a controllare meticolosamente ogni nostro bagaglio ed io sono spaventato come un ragazzino che nasconde un pò di marijuana alla polizia.
Il sole ci schiaccia come insetti e Diego è sempre più nervoso ed agitato. 
Ancora non lo sappiamo ma Diego si è preso la malaria e la sua insofferenza è dovuta proprio a questo.
Dopo più di un'ora grazie all'intervento di Alberto riusciamo a ripartire e verso sera, dopo una visita alla missione di padre Carlo, siamo nella casa-asilo di Alberto e Angela.
In pochi minuti Diego è ridotto quasi come un cadavere, pallido, con occhiaie profonde e sdraiato in un lago di sudore. Vomito, Diarrea e tremiti incontrollabili.
Angela, come una mamma si prende cura di lui. Prima cosa: test. 
Seconda: diagnosi. Malaria. 
Terza fase, cura: una puntura di artesumate.
Diego è salvo ma di sicuro non in forma.
Io passo la serata con Alberto, Angela e Davide, mentre Diego resta nel letto a combattere con la malattia e la febbre.
Il giorno seguente vorremmo ripartire ma Diego non è ancora in grado di farlo, a stento stà in piedi.
Passiamo la giornata a visitare l'asilo di Alberto che è qulcosa di eccezzionale.
Alberto è un uomo di mezza età, un pò tarchiato e con le gambe muscolose. Ha passato la sua vita a camminare e ha percorso a piedi mezzo mondo ed ora pare essersi fermato qui, in mezzo alla Repubblica Centroafricana. 
Angela la sua compagna fuma una sigaretta dietro l'altra e passa il tempo cercando di curare i bimbi che versano in condizioni peggiori ed a fare da mamma a circa cinquecento nanerottoli. 
Fame, malattia ed ignoranza sono le tre piaghe che Alberto e Angela cercano di combattere, giorno dopo giorno, un minuto dopo l'altro.
Diego convalescente passa una giornata stanca ed attonita e si aggira, per questi posti poveri e polverosi, come se fosse uno zombie drogato. Altra puntura di Artesumate ed altro passo verso la guarigione.
Alberto mi fa visitare il loro orto, il deposito, la sala del generatore, le aule e la mensa. Tutto costruito con le sue mani.Certo è facile commuoversi, ma preferisco affezionarmi e così sono i saluti del giorno dopo che fanno piangere e che feriscono il cuore.
La sera la passiamo ospiti a cena di padre Carlo ed i suoi fratelli.
Durante la cena padre Nicola che ha solo "ottanta" anni ed è ancora qui che ci da dentro, mi mostra le stelle, perse nell'immenso Buio d'Africa.
Imparo a riconoscere Orione e la sua cintura, la brillante Sirio che la trovi più in basso a destra e poi Venere che, come un sole lontano sorge e tramonta. Imparo che le stelle brillano di luce intermittente mentre i pianeti di luce fissa e che la croce del sud non è ancora visibile.
Riprendiamo la nostra strada verso Bangui con nelle orecchie la raccomandazione di tutti a fare attenzione alla periferia perchè è pericolosissima. 
La strada è in discrete condizioni, quasi tutta in asfalto scassato ma si possono tenere delle buone medie, così nel primo pomeriggio siamo alle porte di Bangui.
Posti di blocco, sempre più irritanti ma, almeno all'apparenza non più pericolosi dei precedenti. 
Entriamo in Bangui che ci appare bella, ordinata e pulita, almeno per i canoni africani.
Proprio all'inizio della zona del centro un'enorme bandiera americana issata su un'asta di venti metri ci da il benvenuto.
Giriamo mezz'ora alla ricerca della cattedrale e qui attendiamo l'arrivo del buon padre Costantino, congolese trasferito qui e prete di prim ordine.
Costantino sembra un uomo buono come pochi e ci aiuta a muoverci tra i meandri della burocrazia congolese. Grazie a padre Costantin riusciamo, in tre giorni ad ottenere i visti per il Congo. per averli occorre l'intervento diretto del console che vuole assolutamente conoscerci.
La scrivania del console è grande e circondata da ventilatori e quest'uomo esageratamente grosso e nero fa di tutto per apparire gentile, fino al punto da indicarci le strade migliori da percorrere in Congo. Ci mostra una mappa risalente all'epoca di Mobutu e ci dice che allora le strade erano buone ma che potrebbero essere cambiate poichè sono venticinque anni che non vengono aggiustate. bene, cominciamo ad avere un'idea di quello che ci aspetta.
Su consiglio di Alberto e Angela cerchiamo la dottoressa Patrizia che dovrebbe fare le prossime punture a Diego ed allo stesso modo cerchiamo Paolo, proprietario del bar Tropicana, uomo, ci dicono, capace di organizzarci il passaggio del fiume Ubangui per arrivare in Congo.
Così finiamo per essere amalgamati nelle spire della comunità italiana di Bangui. Paolo, Ptrizia e suor Assunta ci accompagnano in questa avventura. Un gruppo di persone che sembrano gli ex membri di una rock band anni settanta, tre anime perdute in mezzo all'Africa, tre esseri umani che, a loro modo, si prendono cura di noi come genitori con i figli.
La vita di ognuno di questi tre splendidi personaggi, avrebbe bisogno di un libro a parte per essere raccontata.
Quelli a Bangui sono giorni confusionari e profiqui.
Paolo, tra birre e pene d'amore ci ospita nel suo locale dove la seconda sera si assiepa un'enorme folla accorsa a vedere alla tv l'ingresso di Obama alla Casa Bianca.
Decine di persone del posto occupano sedie di plastica ed indossano magliette del presidente, applaudono e sorridono nella speranza che da quell'immenso potere che stà passando nelle mani di un uomo di colore, possa uscirne qualcosa di buono anche per loro.
Passiamo le giornate dividendoci tra il consolato congolese e la disperata ricerca di un mezzo per superare i quattro chilometri di fiume che ci separano dal Congo.
Finiamo nella residenza di un greco che pare abbia una specie di chiatta a motore capace di portare in Congo i nostri Land Rover.
L'abitazione del greco è intasata di arte africana e cimeli di caccia, io, ospite sul suo divano mi accendo una sigaretta che lui mi leva di bocca e deposita , accesa, nelle mani a coppa di un suo servitore. "Nella mia vita ho fumato e sniffato di tutto" mi dice, "ed ora le sigarette mi danno fastidio".
Il servitore corre via con le mani che scottano ed io resto lì a bocca aperta pronto a contrattare il prezzo del trasporto.
In dieci minuti il greco ci fa la sua offerta.
Le trattative vanno avanti mezza giornata, il prezzo è veramente troppo alto e l'ambiente non ci piace per niente.
Capelli lunghi, sguardo da duro, mille servitori e contabili che gli ronzano attorno, questo è un uomo che se non stiamo attenti ci rivolta come due calzini.
Paolo corre telefonicamente in nostro aiuto e dopo una lite con il greco decide che sarà lui ad organizzarci il viaggio oltre il fiume.
Nel pomeriggio, dopo un ottimo pranzo al Tropicana, Paolo ci spiega la sua idea: "prendiamo quattro o cinque piroghe, le facciamo legare assieme e poi via ci si sale sopra ed il gioco è fatto."
Padre Costantin e la dottoressa Patrizia ci dicono che secondo loro è troppo pericoloso ma ormai la guerra è cominciata.
Italia e neri africani contro grecia e libanesi.
Per due giorni vanno avanti le trattative con i pirogatori ed alla fine la zattera è approntata. Il costo è cinque volte inferiore a quello richiesto dal greco, così ci prepariamo anche per questa avventura.
La penultima sera la passiamo al Tropicana e dopo un ora mi ritrovo dietro al bancone a preparare mojitos coadiuvato dalle bariste, tanto carine e gentili quanto lente ed incapaci.
Finiamo la serata in una discoteca del posto dove, unici due bianchi, in mezzo a quel tappeto di pelle nera, risaltiamo come nei sul braccio di un norvegese.
Diego balla  con i ragazzi che ci hanno portato qui, io, che non ballo mai vado al bancone di ingresso a bere birra fino a svenire. Attorno a me decine di prostitute si assembrano per parlarmi ed altre decine di ragazze mi guardano e si avvicinano come se fossi una star.
Molto tardi, quando non potrei trangugiare più nemmeno un sorso di birra, Diego esce seguito da un codazzo di donne in delirio. Lo seguo e saltiamo su un taxi che fa fatica a partire a causa della folla di donne che lo circonda.
Sembra davvero di essere due star e quando il taxi riesce a farsi strada ed a lasciare la discoteca qualcuna ancora ci corre dietro urlante.
Mi addormento ancora prima di arrivare al nostro dormitorio e faccio sogni spaventosi dove pesci giganti mi mordono i piedi e sirene nere dai denti a sciabola mi morsicano il petto.
La mattina mi sveglio in un lago di sudore e la mia doccia dura quasi un'ora, un'ora in cui penso al posto in cui stiamo andando: in Congo e questa parola mi martella la mente come un mal di testa intenso.
la dottoressa Patrizia ci porta in giro per la città raccontandoci la sua vita e distribuendo cibo e spiccioli ai bimbi di strada.
L'ultima sera ceniamo con Patrizia all'ombra di un immenso baobab e lei si fa trascinare in una rissa da strada per difendere due bimbi da due ragazzetti che fanno i gradassi.
La mattina della partenza è un delirio.
Mentre aspettiamo che il gabbiotto della polizia fluviale apra, passa di li e viene a conoscerci un certo Patrick, colonnello dell'esercito francese di stanza a Bangui. Scambiamo quattro parole e poi mi lascia il suo biglietto da visita.
Passate tutte le formalità, compresa quella di spillarci più soldi possibile, scendiamo con i nostri Land Rover in spiaggia.
Le cinque piroghe sono state legate con corde e  liane.
Diego fa salire il suo Land Rover oper primo e tra urla, pianti e saluti lascia la Repubblica Centraficana diretto in Congo.
Mezz'ora dopo la sua macchina è ancora visibile dalla riva e poi scompare dietro una formazione di scogli lasciandomi solo.
Passa mezz'ora e vedo riapparire lo zatterone.
Poco dopo anch'io metto la macchina sulle piroghe.
Rombando e saltando, dalla costa, arrivano sulla spiaggia due fuoristrada dell'esercito carichi di uomini in assetto da battaglia, inchiodano vicino a me ed alla dottoressa, saltano giù e ci circondano.
"State violando la legge del nostro stato e quindi siete in arresto e dovete seguirci in caserma"
Sento il sangue che mi si gela nelle vene.
La psicologia perversa che impera in questi viaggi mi fa fare un ragionamento tanto folle quanto utile: "mi dispiace ma non posso seguirvi perche io sono in missione con la mia macchina e da questa non mi posso separare a meno che voi militari non vi assumiate la responsabilità del mio mezzo."
Il capitano entra in confusione e mi intima di aspettarlo li.
I militari ripartono in tutta fretta lasciando due guardie armate a sorvegliarci.
Anche la dottoressa è spaventata e mi dice di stare tranquillo e di non preoccuparmi, mi dice che quelli tornano e ci portano in prigione ma che al massimo in una settimana siamo fuori.
Una seconda volta sento il sangue gelarmisi nelle vene.
Diego  è in Congo che non sa niente.
Chiamo Paolo al telefono e lui si precipita li, ma ormai il caos è scoppiato, arriva anche il greco che sembra essere il manovratore della situazione.
Mi viene in mente il colonnello dell'esercito francese, lo chiamo e lui mi dice di restare calmo e se riesco di non allontanarmi da li che lui arriva appena può.
I militari ritornano con i loro baschi viola, gli scarponi e le armi spianate.
"Dovete seguirci in prigione per ora..."
Io tergiverso, Paolo si scalda e fa delle sfuriate che rischiano di finir male. I militari minacciano di morte i manovratori delle piroghe e tutto fa presupporre che le cose vadano a finire davvero male.
O talmente tanta paura che mi scappa la pipì.
In quel momento appare una Toyota blu nuova di zecca che si avvicina.
Dalla Toyota scende il colonnello Patrick, in uniforme, alto ed elegante come un signore d'altri tempi. 
Con calma e stile mi presenta la sua signora e sua figlia che stanno nella macchina al fresco del condizionatore.
Il colonnello parla con il capo dei militari, poi fa una telefonata e passa il telefono a quest'ultimo.
In cinque minuti torna da me e con infinita gentilezza mi saluta e mi dice che gli spiace ma non può trattenersi. Ci salutiamo con un abbraccio.
La Toyota si allontana seguita dai fuoristrada dell'esercito.
Dieci minuti dopo i militari ritornano e questa volta è un generale che si avvicinba a parlarmi, mi chiede scusa dell'imprevisto e mi prega di comprendere i suoi uomini che lavorano sempre per la pace e la sicurezza, mi dice che posso partire quando voglio e mi fa i suoi auguri di buon viaggio, poi si gira verso i pirogatori e gli dice"ora portatelo di la ma poi ritornate qui subito ed entro un ora siate tutti da me in caserma".
Africa uno Grecia zero.
Mi rilasso, saluto Paqolo, Patrizia e suor Assunte e finalmente dopo sei ore passate sotto il sole parto per il Congo.



Baboua, Bouar, Baoro, Bossentèlè, Bossembèlè, Boali, Bangui sono passate e non torneranno più.





DISCESA NEL CENTRO DELLA TERRA

Il Congo Repubblica Democratica ha una superficie di 2.345,410 chilometri quadrati. Per raggiungere una superficie pari a questa in Europa dovremmo unire alcuni stati, facciamo una prova: Francia : 543,965. Italia: 301'254. Spagna: 504,782. Portogallo: 88,940. Germania:357,022. Svizzera: 41,293. Belgio: 30,520. Olanda: 41,526. UK:243,609. Irlanda: 70,282. Austria: 83,855. Ecco fatto!
Adesso bisogna immaginare tutti questi stati completamente privi di rete stradale e quasi per intero coperti da una foresta primordiale. Poi mettiamoci in mezzo uno dei quattro fiumi più grandi del mondo senza un solo ponte che lo attraversi e più o meno possiamo capire quali possano essere le difficoltà per spostarsi e per comunicare in Congo. 
Dimenticavo: in Congo c'è la guerra.

Congo non è un posto che si possa conoscere, ne un posto che si possa visitare. In realtà Congo non è un posto, è uno stato d'animo, un concetto, una paura primordiale. Congo è un rumore di fondo che batte come un tamburo cupo, che pulsa come un cuore nero, è il cuore della Terra stessa, è il nocciolo da cui nasce l'albero. è il primordio da cui nasce tutto, è lo specchio che nessun uomo vuole incontrare.
Per la verità il Congo non esiste nemmeno marterialmente, o per lo meno sfiderei chiunque a mostrarmi i suoi confini, disegnati sulla carta ma nemmeno mai pensati nella realtà.
Dove non c'è un fiume non possono nemmeno esserci confini dice la foresta, dove non ci sono montagne non può esistere l'acqua risponde il fiume e così secondo dopo secondo il fiume e la foresta ritmano il pulsare della vita della terra senza smettere mai.
Congo è un fiume nero che non smette mai di scorrere è un posto da cui gli uomini se ne vanno per non farvi più ritorno, è un posto dove gli uomini vanno per farvi ritorno. 
La terra sembra non esistere, solo acqua e foresta, vegetazione e liquido. Cielo e verde.
Ed il fango è l'unica forma che qui assume la carne del nostro pianeta.


Il demone Pazuzu e tutta la sua schiatta, mangiatori di anime e distruttori di carni, usciti dalla terra come golem maledetti, respinti da ogni creatura e combattuti da ogni Dio, hanno strisciato nel fango e poi come sanguisughe si sono insinuati nei primi corpi e tramite di essi hanno infestato il pianeta primordiale. 
Gli uomini privi di Dio e di coscienza non li hanno attacati ma ne hanno avuto timore, ne divennero schiavi e vissero vite fameliche di carnivoro affamato. 
Poi venne una luce che da lontano e dal profondo nacque come una goccia di rugiada sulla foglia. La luce spianò il cammino e Dio tese le mani ad una nuova coscienza degli esseri che in migliaia di anni scacciarono Pazuzu ed i suoi demoni.
Ma Pazuzu non può morire, può al limite tornare a strisciare; così rientrò in se stesso e scivolò di nuovo nei primordi, in quel brodo di vegetazione ed acque marroni dove tutto ebbe origine. 
Dagli anfratti bui occhi gialli guardano verso la luce aspettando il momento in cui anime deboli si affaccino sull' oscurità. 
Da li verso il mondo che stà abbassando le armi il passo è breve.
Così la foresta resta chiusa a se stessa da decine di anni, come un contenitore troppo pieno e pericoloso da aprire.

Io era là, quella notte in cui udimmo passi di persone inesistenti, ero là, sudato e sveglio, nella branda mentre vedevo, alla luce della piccola lampadina, un oggetto, una bottiglia, tremare e spostarsi. Ero là quella notte in cui non certo Pazuzu ma sicuramente uno dei suoi immondi servitori, è strisciato accanto a me per vedere se poteva usarmi per rinascere a nuova e funesta vita.

Pazuzu non ha paura di Dio, ha solo paura di non riuscire ad usare i suoi figli. Pazuzu senza uomini non è che un pezzo di fango secco senza sostanza. 
Pazuzu è il demone degli uomini, il demone che trasforma l'uomo in bestia, è l'animale che per primo il fuoco ha allontanato dalle caverne e poi, lentamente si è allontanato dagli uomini per paura di impazzire.
Ma Pazuzu non muore mai e si rifugia in tane profonde come l'inferno ed inaccessibili come la morte e lì si nutre di corpi straziati e feti abbandonati al sole. 
Pazuzu crea l'uomo bestia e quando può lo fa agire come animale sanguinario o come cane bastonato.

Io ero proprio la in mezzo, ho sfiorato l'imbocco della sua tana, ho galleggiato su molti dei suoi molli corpi ed ho visto i cadaveri sogghignanti dei suoi schiavi uccisi come animali.
Ho dormito nel suo buio profondo, ho sudato nelle sue notti cupe come l'alito di un toro e mi sono svegliato nelle albe abbaglianti del Congo, uniche luci che Pazuzu non è in grado di estinguere.

Questo demone puzzolente è riuscito a scacciare dalla sua immensa tana fatta di fiumi e foreste, tutti gli angeli che gli davano la caccia, si è rintanato in profondità circondandosi di orrori e morte come serraglio contro ciò che è divino nell'uomo.
Dalle sue terre desolate e prive di civiltà, legge e religione,  Pazuzu si scarnifica le mani in attesa di balzare attorno e riportare l'animale nelle anime degli uomini. 
Pazuzu è riuscito a scacciare tutti dalle sue terre e chi è rimasto è troppo debole per resistergli o troppo forte per incrociare il suo cammino.

Io ero là, in quel cuore che pulsa nero e sprigiona un orrore talmente primordiale da farti dimenticare di essere uomo, da farti diventare bestia senza che tu capisca quale sia la differenza.

Durante la tempesta sulle acque del fiume, Pazuzu può uscire e divorarti, può scivolare fuori dalle acque ed insediarsi nel tuo cuore come un grumo che succhia l'anima come miele.
Pazuzu striscia a testa alta fino sotto alla croce e di fronte ad essa ti mette alla prova, al buio, lontano dall'uomo illuminato, lontano dalla tecnologia che lo rappresenta, Pazuzu cerca di entrare dentro di te quando non hai altra salvezza che quella che trovi nel tuo cuore.
Sotto la croce di Gesù, due volte Pazuzu è strisciato fino accanto al mio giacilio e non il mio coltello, non il mio randello ma la mia fede lo ha stordito e deluso.
La fede che è la forza di proseguire questo viaggio attraverso la tenebra, questo viaggio verso uno strano inferno ed il ritorno, lento, doloroso e mai definitivo, alla luce della ragione imperante, ignorante, salvifica.

Il viaggio nell'abisso, la discesa nella tenebra, la salita verso la croce comincia tra le urla dei dannati che si disperano e si  prostrano, scuotono anche, seni e machete, nella gioia dolorosa e nella rabbia divertita per la morte del capomastro del villaggio. 
Orde di persone indemoniate si aggirano per il villaggio, con gli occhi fuori dalla testa chiedendo una vendetta di sangue e morte.
C'è chi mischia il sangue con la polvere chiedendo al dio del male di fare vendetta, chi prega Dio perchè gli indichi la giusta strada e la indichi anche alle anime che lasceranno il mondo quella stessa notte.
Piedi scalzi danzano e scalpitano fino a trasformarsi in zoccoli e sederi neri ancheggiano fino ad allungarsi in code; unghie fremono diventando artigli ed occhi neri diventano gialli nel riflesso dei fuochi delle torce. 
Scende la notte.


Zongo è un posto come tanti altri in questa zona del mondo, è un posto fatto di poche case e molte baracche, di poche strade e molti sentieri, di poche luci e molte capanne, di pochi vecchi e molti bambini.
La nostra avventura sul fiume Ubanghi è finita nel migliore dei modi, adesso Diego ed io siamo di nuovo insieme e sulla riva giusta.
Suor assunta ci aveva lasciato una lettera indirizzata ad un doganiere congolese di nome... non ricordo.
La lettera funziona!
Il doganiere la legge e noi diventiamo i suoi pupilli.
Le pratiche di ingresso sono lunghe e macchinose come sempre, ma tra i meandri della finta burocrazia e della corruzione ci conduce il nostro Caronte nero.
Caronte è buono ma tagliente come una lama, ha zigomi alti ed un velo olivastro sotto la pelle nera come la notte, occhi accesi ed iniettati di bile come un serpente. Si sente un origine Tutsi lontana ma presente ed io sento che quest'uomo è capace di cose che noi occidentali non siamo nemmeno in grado di immaginare.
Altre quattro ore tra baracche di lamiera bollente e strade di polvere, cammino fino alla chiesa per cercare il capo della dogana per farmi firmare i documenti.
Il capo è introvabile, oggi è morto investito il Capomastro ed a secondo di come andranno le cose quella che stà per venire potrebbe essere una notte di fuoco e sangue.
Alla fine riusciamo a rintanarci nella missione di Padre Egidio che ci accoglie con calore ma senza fronzoli, ci da due stanzette con branda e ci prepara una cena frugale.
"Qui in Congo il sangue chiama sangue e questa è l'unica legge sicura, quindi questa notte, da qualche parte, state sicuri che verrà versato del sangue umano".
Mentre stiamo seduti al buio sotto la scalcinata veranda, passano camion carichi di invasati armati di bastoni, fiaccole e fucili, persone urlanti alla ricerca di un colpevole che paghi per la morte pomeridiana.
Io, seduto tra Diego ed il padre vorrei diventare invisibile e sentirmi al sicuro.
Le troppe zanzare ci obbligano a ritirarci nelle camere.
Una porta da dall'esterno ad un piccolo corridoio, sul corridoio si affacciano tre porte, una a sinistra, il bagno, una subito dopo, la mia stanzetta, una a destra, la stanza di Diego. il bagno è senza finestre, le camere hanno una finestra ciascuna chiuse da inferriate.
Entrando nel corridoio, sotto raccomandazione di padre Egidio, chiudiamo accuratamente i due chiavistelli.
Siamo chiusi dentro. Il generatore si spegne ed a noi rimangono solo le torce elettriche e due flebili lampadine alimentate da un piccolo pannello solare, lampadine che diminuiscono di intensità a vista d'occhio.
Ci chiudiamo nelle rispettive camere.
Durante la notte sia io che Diego sentiamo passi in corridoio e la porta del bagno aprirsi e chiudersi più volte, poi, alla luce della torcia, svegliato dal tremolio del mio letto, vedo la bottiglia dell'acqua che si sposta sul comodino, la poso per terra e questa continua a spostarsi, almeno di venti centimetri.
Il mattino dopo parlo di tutto ciò con Diego pensando che mi prenda per matto, e lui mi risponde se è per questo che ho gironzolato per il corridoio tutta la notte.
Così, visto che ne io ne Diego ci siamo mossi dai letti, viene da pensare che qualcuno o qualcosa si sia aggirato attorno a noi nella notte. 
io l'ho sentito, so che cosa è ma, alla luce del sole e di ritorno dagli abissi, non tutte le spiegazioni sono per tutti, così la mattina ci mettiamo in viaggio verso Gemena, distante seicento chilometri.
Le raccomandazioni di padre Egidio fanno quasi paura, parla di morti, di stragi e di banditi.
Meglio partire in fretta.
La foresta comincia bassa come un immensa radura, ma poi, a fasi alterne giganteggia su di noi proiettando la sua ombra sulla strada.
Ho scritto tanto sulle strade d'Africa ma da qui in poi potrei dire che non si parla nemmeno più di strade, il nostro percorso assomiglia di più al greto di un torrente.
Fossi in cui la macchina si inclina fino quasi a capovolgersi si alternano a sentieri silgle-track buoni solo per passarci a piedi ed in fila indiana.
In tutta la giornata un solo ponte vecchio e cadente in ferro, tutti gli altri fiumi si scavalcano passando sui tronchi, operazione alla quale non mi abituerò mai.
la giungla ci avvolge e ci rilascia come se respirasse, radure di alte erbe si alternano continuamente a zone di grandi alberi che chiudono la vista del cielo. temporale acqua e fango fanno il loro mestiere e la paura di perdersi fa il resto.
Guidiamo come dannati tutto il giorno, tra sassi e fango, sotto il sole e frustati dalla pioggia fino a quando, all'imbrunire giungiamo a Gemena.  
Padre Giuseppe ci ospita nel cortile della missione Santa Elisabetta, proprio in mezzo all'enorme villaggio fatto di vecchie abitazioni più che fatiscenti e baracche di lamiera e fango.
Gli ultimi chilometri li faccio senza freni ed il primo dei piaceri che ci farà padre Giuseppe è trovarci un ragazzo che sa qualcosa di meccanica.
La notte che scende ci trova sdraiati sotto la macchina completamente imbrattati di olio e grasso. 
Sostituiamo il tubo dei freni con un vecchio tubo che mi porto in giro per l'Africa da tre anni, non è in buone condizioni ma è senz'altro meglio che niente.
Mangiamo una buona cena a base di banane e manioca, padre giuseppe stappa anche due Primuss che io ingollo molto rapidamente.
Passiamo la serata sotto il porticato della missione, con noi il Vescovo dell'Equateur ed il suo tirapiedi. Sua Eminenza è in visita a Gemena, arrivato con un piccolo aereo non si capisce bene da dove, possibilmente da Lisala o kisangani o Mbandaka.
Si ride e si scherza con il vescovo ma non fino a tardi. Padre Giuseppe ci fa capire che è una personalità davvero importante ed il fatto che  sia venuto sin lì non è cosa da poco.
In piena notte un ragazzo del posto, Rossì, ci raggiunge dicendoci di averci trovato il gasolio per l'indomani. Partiamo subito. Guidati da Rossì percorriamo mille stradine nel labirinto di baracche che è Gemena, vicoli così stretti che si fa fatica a passarci con i Land Rover. una svolta dopo l'altra finiamo in un  cortile buio e tetro. Un gruppo di uomini ci circonda, ognuno con in testa una tanica da trenta litri.
la danza per versare il gasolio ha inizio. Unica luce la mia mag lite.
dapprima tentano di rovesciare il gasolio direttamente nel serbatoio facendo un disastro, poi con una canna salendo sul tetto con i bidoni.
Alla fine taglio in due una bottiglia ed usiamo quella. mentre versano faccio luce sul liquido che scende nel mio serbatoio: è un denso impasto di terra e gasolio. Li fermo immediatamente ed uso una maglietta come filtro. ma ormai il danno è fatto.
Il tutto dura più di un ora: buio, gasolio dappertutto e confusione.
Tornati alla missione ci laviamo via il gasolio con delle salviette profumate e ci infiliamo nelle tende che puzziamo come cisterne di petroliere.
La mattina facciamo un'ottima colazione a base di caffè e banane partiamo verso sud che il sole deve ancora sorgere.
Venti chilometri ed i freni mollano nuovamente.
Dietrofront.
Torniamo alla missione santa Elisabetta e con l'aiuto di Rossì ci sdraiamo di nuovo sotto alla macchina e tentiamo la riparazione.
Il tubo che porta l'olio al freno posteriore sinistro si è crepato e due pastiglie sono andate. Mettiamo le due pastiglie buone nella pinza di destra ed escludiamo l'impianto di sinistra. Ora funzionano solo tre pinze ma non sarà certo un problema.
Ormai è passata mezza mattinata e qui o si parte all'alba o non si parte per niente.
Passiamo la giornata a gironzolare per il villaggio, ci procuriamo qualche litro di acqua potabile per l'indomani e chiacchieriamo con padre Gianni.
Nel pomeriggio uno dei ragazzi della missione arriva sudato e concitato dicendo che la mattina è accaduta una tragedia: uno dei matti del villaggio, con il favore delle tenebre si è introdotto nella sagrestia della chiesa ed ha rubato i registri delle nascite, una parte li ha distrutti irrimediabilmente ed una parte li ha consegnati alla "concorrenza".
Padre Gianni non capisce e chiede delucidazioni su chi sarebbe la "Concorrenza".
Il ragazzo con tutta la naturalezza del mondo risponde:"ma ovviamente la chiesa protestante..."
Dopo un momento scoppiamo tutti a ridere anche se padre Gianni avrà il suo bel da fare per ricreare l'archivio delle nascite.
Verso le cinque andiamo al fiume con due ragazzi che hanno chiesto di lavarci le macchine.
La scena è surreale: i land Rover sono in mezzo all'acqua con cinque o sei ragazzi che si danno da fare a lavarli con acqua marrone e ciuffi d'erba usati come spugne, tutto attorno la vita del fiume continua. una donna lava il bimbo neonato, altre ragazze lavano i panni mentre un bambino piccolissimo batte i suoi jeans consunti su una roccia per strizzarli. Più a monte un vecchio con bastone defeca nel bagnasciuga indifferente alla nostra presenza. Altri si lavano ed orinano allo stesso tempo a pochi metri dalla macchina ed un gruppo di bambini ci osserva sorseggiando quella stessa acqua in cui tutti fanno tutto.
Cena frugale e notte insonne. zanzare e caldo insopportabile.
La mattina partiamo con il buio, un abbraccio a Padre Gianni e via verso Lisala.
I primi venti chilometri sono più che accettabili, poi comincia l'inferno: la strada si trasforma in un pantano continuo e comincia a salire e poi a scendere, ogni tanto scompare e si trasforma in un labile sentiero per poi ritornare un'idea di strada molti chilometri dopo.
Scendiamo per almeno un ora ed incontriamo un terrapieno distrutto sul quale ci muoviamo come sulla cresta di una collina.
Questa zona è chiaramente una zona che a seconda delle stagioni viene inondata dai fiumi.
Il terrapieno è il residuo di un altra epoca, a volte scompare e poi riappare. I Land Rover si infossano e si arrampicano, la strada è talmente brutta da far sorridere, sembrano delle montagne russe.
In tarda mattinata arriviamo al villaggio di Akula sulle sponde di un grande fiume senza nome.
Qui una chiatta, sulla quale è stato imbullonato un enorme motore diesel, fa bella mostra della sua ruggine.
Una specie di ufficio di dogana ci controlla i passaporti e ci fa sapere che se vogliamo proseguire dobbiamo usare la chiatta e se vogliamo usare la chiatta dobbiamo essere in possesso di olio motore, gasolio e batteria per metterla in moto.
Abbiamo tutto.
Consegnamo olio gasolio e batteria ad un sudicio meccanico ed in meno di un'ora siamo sull'altra sponda.
Alla domanda "Quanto costa il servizio" ci viene risposto che non costa niente perchè è un servizio pubblico.
Centinaia di persone accorse dai villaggi assistono alla partenza da una sponda ed all'arrivo sull'altra e decine fanno addirittura il viaggio con noi e poi se ne tornano indietro.
Sono Sedici anni che nessuno passa più di qui ci dicono e quindi la curiosità è più che giustificata.
I primi chilometri dopo Akula sono una vera prova per noi e le macchine. ci troviamo a superare fiumi profondi diversi metri e larghi come due macchine ma senza ponti.
Assoldiamo un gruppo di ragazzi del villaggio.
Ci procuriamo cinque o sei pali e poi cominciamo: si attraversa il primo baratro, prima Diego e poi io, poi si smonta il ponte posticcio, si trascinano i pali per centinaia di metri, si ricrea la passerella e si passa dall'altra parte, e così via per almeno sette otto volte.
Sudiamo come animali lavorando con lena a contatto con i ragazzi del villaggio che dopo due ore, all'ultimo guado scoppiano in un urlo di vittoria.
Dieci dollari sono la paga che si spartiranno almeno in venti.
La strada continua, sempre più folle, sempre più impraticabile. la foresta ormai crea una volta che impedisce alla luce di raggiungerci e spesso ci dobbiamo muovere nel fango tenendo le luci accese.
La strada scompare di nuovo e per almeno un ora guidiamo senza seguire alcun tracciato. Solo la vegetazione ci da la direzione, dove è meno fitta si passa, altrimenti si ritorna in dietro e si riprova da un altra parte.
Dopo duecento chilometri, come per incanto, appaiono dapprima dei filari alberi della gomma e poi di palme da olio, diversi chilometri dopo incontriamo una strada in buone condizioni e che migliora mano a mano che la percorriamo.
Siamo a Tonga, cittadina segnata su nessuna cartina al mondo, introvabile con Google Hearth, insomma, "ufficialmente non esistente".
Decine di vecchie case dell'epoca coloniale costeggiano la strada, larga e spianata, i giardini sono ben tenuti e le case in ottime condizioni. è tutto molto strano, chiediamo informazioni ma tutti restano sul vago. Palma da olio, albero della gomma e ananas.
Rimesse enormi con trattori e mezzi agricoli, scuola e chiesa impeccabile e gente pulita e con indosso le scarpe. 
Ci facciamo una nostra idea non troppo distante dalla realtà credo: Tonga è semplicemente una piantagione coloniale vecchia di settant'anni o giù di li che, grazie al suo isolamento a resistito al passare del tempo, al succedersi delle dittature ed all'imperversare delle guerre. Il Fiume Congo non deve essere poi troppo lontano da qui, probabilmente una strada carrabile lo raggiunge direttamente senza passare da Lisala e da li le merci possono prendere la lunghissima via per Kinshasa.
Comunque pochi chilometri dopo Tonga la strada scompare nuovamente perdendosi tra i filari di palmem
Diego guida veloce e sicuro e nel tentativo di superare un motorino stracarico fa spaventare il guidatore che cade e viene colpito dal defender.
Brutto incidente senza gravi conseguenze.
Sopraggiungono altre persone uscite dalla piantagione. Ha inizio una discussione che si trasforma in lite. Qui quasi nessuno parla francese, solo lingala.
La confusione aumenta, le urla e l'agitazione si moltiplicano.
Costo totale cento dollari, che Diego mette in mano al malcapitato e poi senza tanti giri di parole saltiamo in macchina e scappiamo.
Padre Egidio insegna :"Sangue chiama Sangue" ed il ragazzo in motorino aveva un bel taglio sulla gamba ed un bel sangue rosso che gocciolava nel fango, niente di grave ma quanto basta per surriscaldare gli animi.
Fuggiamo tra le urla arrabbiate dei tagliatori con in mano i machete.
Forse non sarebbe successo nulla, ma solo forse.
Per più di un'ora guidiamo più velocemente di quanto le condizioni della strada permettano, ci perdiamo tra le piantagioni ma alla fine ritroviamo la direzione di lisala che poi è soltanto una.
Villaggi, capanne, foresta e ponti di liane e tronchi sono quello che vediamo per tutta la giornata.
All'imbrunire, sotto un cielo così basso che sembra toccare le cime degli alberi e scatena un temporale da apocalisse, troviamo le prime case di fango ma intonacate e poi i primi passanti a piedi ed in bicicletta.
La strada migliora, tronchi e vegetazione si fanno da parte e, dopo seicento chilometri incontriamo la prima macchina, un vecchissimo Toyota che arranca davanti a noi.
Scopriremo nei giorni successivi che le poche macchine che ci sono a Lisala, si parla di una decina di mezzi in tutto, non si sono mai allontanate dalla città, almeno non negli ultimi vent'anni.
Mentre scende la sera siamo nell'immenso, polveroso e spoglio cortile della Paroisse Bakanza, al limite occidentale di Lisala dove Pere Gilbert Ebila ci ospita per la notte.
La nostra sistemazione questa volta è un tetto di lamiera sotto al quale apriamo le tende, un pozzo artificiale a pochi metri ed un gabbiotto di tavole che funziona da latrina, venti metri più in là.
Pere Gilbert ci assicura che l'idomani passerà sul fiume una chiatta diretta a Kisangani.


Pazuzu è un verme, un verme che scava profondo quanto vuole e l'uomo puo distruggere l'intera montagna senza trovarlo perchè Pazuzu vive così in profondità che nessuno lo può raggiungere.
Pazuzu è il gufo ed il ratto, il pesce gatto e l'uomo dagli occhi gialli.
pazuzu mangia scimmie nane ed acquile giganti e si ciba di cadaveri attraverso le bocche di soldati affamati ciechi alla luce del giorno ed assassini spietati nella notte. 
Pazuzu fa tremare il dito sul grilletto e fa colare il sudore negli occhi gialli dei cecchini.
Pazuzu agisce nella notte, nelle profondità e negli anfratti e si insinua sotto forma di verme sino nei letti bagnati di sudore ed infetta i pori della pelle dilatati allo spasimo.
Durante la malattia Pazuzu si ciba di dolore, sente la sofferenza come un odore smorzato ed il terrore come un soffio tra gli alberi.
Pazuzu accerchia e si insinua.
Pazuzu sputa in faccia alle suore e fa vibrare le lingue dei dementi, fa ruotare gli occhi dei malati e pulsare i cuori degli animali nascosti.
E' un demone indomito; codardo quanto feroce, vorace quanto denutrito.

Lisala è una cittadina o meglio era una cittadina adagiata sulle rive del fiume Congo, ha una struttura molto semplice, un porto che ormai di porto non ha neppure più la parvenza, una lunga scarpata scoscesa sulla quale sono sparsi i ruderi delle vecchie case coloniali belghe e l'interno, composto da un antico stradone di asfalto completamente demolito che attraversa l'abitato orientativamente da est ad ovest.
Quest'unica strada, un tempo asfaltata, collegava l'aereoporto alla residenza di Mobutu Sese Seko Kukumbendo Uasabanga, il dittatore più crudele, spregiudicato e ricco della storia.
Dell'aeroporto restano una pista in cemento completamente rovinata ed una costruzione ancora in piedi ma rappezzata con lamiere e materiali di recupero. Tre militari, più malconci della pista, stanno a guardia della struttura vivendo con le rispettive famiglie in un rudere  accanto, privo di tetto e finestre. 
La vecchia residenza di Mobutu invece è situata, ovviamente in una splendida posizione, su una bassa collina che domina il corso del grande fiume. Ormai, dopo anni di saccheggi ed atti vandalici la grande dimora assomiglia più allo scheletro di un immenso dinosauro piuttosto che ad una residenza presidenziale. porte, vetrate, finestre e tutto ciò che poteva essere rubato o divelto, compresi lampadari d'oro e rubinetterie in avorio, non esiste più.
Terrazze e balconi, grandi camere ed immensi saloni, colonnati e fontane, sono rimasti a testimoniare un' epoca scomparsa.
Oggi qualcuno usa la struttura come scuola improvvisata, ma lo fa contro il volere degli eredi di Mobutu i quali non vogliono che la loro antica dimora sia utilizzata in alcun modo.
Queste poche cose sono tutto ciò che esiste a Lisala , oltre la vecchia chiesa costruita dai belgi ed un infinità di baracche e di capanne di fango che sono poi la vera città.
Mobutu è cresciuto qui e la gente del posto ne è orgogliosa anche se lui è stato una dei maggiori artefici della rovina del Congo. L'aereo presidenziale si chiamava proprio Ville de Lisala.
Un centinaio di chilometri più a nord il presidente si era fatto costruire una pista di atterraggio abbastanza grande da fare atterrare il suo Concorde privato ed un buon asfalto collegava questo aeroporto alla città.
Oggi non esiste più nulla.
Arrivare a Lisala via terra è un'impresa quasi impossibile o per lo meno troppo rischiosa per poterla fare continuativamente e per commercio.
Raggiungere la città via fiume è possibile, ma solo con mesi di navigazione risalendo il fiume da Kinshasa, duemila chilometri più a sud-ovest. Pirati e malattie rendono anche questa via ben poco agevole.
Lisala è isolata dal resto del mondo.

La prima mattina che ci svegliamo a Lisala, sotto alle lamiere della tettoia della Paruasse Bakanza, dovrebbe essere la mattina in cui il battello, che qui chiamano Masua, attracca al porto.
Ci prepariamo, prepariamo le auto e scendiamo al porto.
il porto è semplicemente un argine scosceso che cade nel fiume ed una fila di vecchi edifici ormai ridotti a ruderi cadenti.Il molo consiste in una vecchia chiatta arrugginita e mezzo affondata che è stata legata ad un albero.
Facciamo la conoscenza di colui che pare abbia in mano le sorti del porto.
Chef lo chiamano "le blanc" ma solo perchè bianco è stato qualche suo antenato, visto che lui è scuro come l'avorio antico.
Chef parla poco ma chiaramente: "il masua non arriverà oggi, forse domani o dopodomani o forse tra tre giorni."
Diego ed io rientriamo scoraggiati alla Paruasse Bakanza.
Solo l'idea di passare tre giorni in quelle condizioni mi da la nausea.
Schiacciati dal sole e sfiniti dal caldo cerchiamo di far passare il tempo facendo delle faticosissime camminate per la città che in fine consiste solo in un unico stradone. I mercati sono semi deserti e le mercanzie quasi completamente assenti.
Giornate bollenti e notti insonni. Di giorno siamo circondati di bambini, donne e uomini che vengono in processione a stringerci la mano, a scambiare due parole ma più frequentemente solo a guardarci.
nei giorni successivi scopriremo che alcuni si sono sobbarcati anche dieci ore di cammino, giungendo dai villaggi vicini, solo per poterci guardare.

A Lisala sono atterrati gli extraterrestri... e noi non ce ne siamo nemmeno accorti.

Facciamo la conoscenza di Pere Donato, un uomo nero come il carbone e grosso come un Caterpillar, un prete che ha studiato in Francia ed in Italia, una creatura che alla fine ha deciso di ritornare qui come padre missionario.
Padre Donato ha creato l'università di Lisala, un progetto di coltivazione del grano e la Paroisse Bakanza.
Padre Donato è un santo, un santo che parla un impeccabile italiano e ci racconta qualche aneddoto sul Congo.
Storie di banditi e pirati, di santi ed eroi.
Molti anni fa i cinesi fecero una proposta al presidente Mobutu:"noi costruiamo una lunghissima ferrovia che attraversi tutto il Congo ed in cambio ci teniamo solo il materiale di risulta degli scavi." Mobutu rispose di no.
Ecco come funziona il Congo: è talmente ricco che pare basti portarsi a casa una carriola di terra per trovarci dentro ogni ben di Dio e talmente povero che un presidente può decidere di rifiutare una proposta del genere.

La processione di uomini donne e bambini continua all'infinito, per giorni e giorni e noi, giorno dopo giorno, sempre più, ci rassegnamo all'eventualità di tornare indietro, sempre che ci si riesca.

Terzo giorno di attesa.
Camminata fino al porto per avere notizie sul Masua. Chef non si fa vedere e le voci che girano sono pessime. Si parla dell'arrivo di un convoglio per la prossima settimana.
Lentamente rientriamo a Bakanza, afflitti ed affamati. la nostra cena è un risotto in busta.
Passa una notte fatta di tetri rumori e verso le tre uno sparo mi sveglia di soprassalto. Alle quattro un gallo si piazza sotto alle macchine e ci da il buon giorno.

Quarto giorno di attesa.
Un altro giorno di attesa. Camminiamo sino al porto, cinque chilometri che, sotto al sole cocente, sembrano dieci. Chiediamo notizie di Chef, è a casa e noi lo raggiungiamo li.
Niente da fare, il battello arriverà ma non si sa quando.
Rimaniamo seduti in silenzio sotto la veranda di Chef, non ci può offrire niente perchè non ha niente.
Osserviamo lo stanco passare della gente al di là dello steccato.
Rientriamo a Bakanza. Attraversare la città è una specie di sfilata, tutti gli occhi sono puntati verso di noi e lentamente, metro dopo metro si forma una processione che ci segue fino al nostro accampamento.
La nostra doccia è composta da un pozzo e da un secchio di plastica. l'acqua del pozzo è assolutamente non potabile e gelata. Ci insaponiamo e ci versiamo sulla testa il secchio di acqua gelata e dopo pochi minuti siamo già asciutti, pronti ad aspettare ancora.

Quinto giorno di attesa.
Giornata di mercato. Scendiamo al mercato a fare compere ma scopriamo che qui non c'è niente da comprare. A Lisala non si trova: sale, pasta, pomodori, birra, coca cola, cibo in scatola, riso, patate, cipolle e tutto quello che ti può venire in mente.
ma qualche sparuta bancarella c'è. 
A Lisala, se hai i soldi, puoi comprare: vecchia carne in scatola, sardine in scatola con la data di scadenza cancellata, manioca cotta al sole, pane superleggero.
Rientriamo a Bakanza e pranziamo con pane e sardine.
Il tempo, i gesti, le azioni, vanno centellinati, non bisogna sprecare niente, non un minuto, non una parola, non un movimento. Per non impazzire bisogna misurare la giornata e muoversi con lentezza e quasi con precisione.
Non lontano dai Land Rover c'è un gabbiotto di legno all'interno del quale è stata piazzata una tazza. Abbiamo anche un bagno. Non ci manca niente, ma in realtà ci manca tutto quello di cui siamo abituati a godere. gli infiniti e continui passatempi occidentali, compreso il lavoro, qui non esistono e senza quelli è facile credere che non esisti nemmeno tu.
Ho un libro che in queste lunghissime giornate leggo lentamente, molto lentamente, parola per parola, senza saltarne una virgola.

Sesto Giorno di attesa.
Passeggiata fino al porto e quattro chiacchiere con padre Donato.
Uno dei problemi più grossi che incontra a mandare avanti l'università è l'assenza di libri e quindi ci chiede se per caso abbiamo con noi libri in francese ma vanno anche benissimo giornali o riviste, vecchi o nuovi che siano.
Ci eravamo già accorti di questa fame di lettura nei giorni precedenti. Tutti coloro che passano le giornate a guardarci, gironzolano attorno alle macchine leggendo gli adesivi ad alta voce e poi leggono, sempre ad alta voce tutto ciò che c'è scritto sulle scatolette di cibo vuote che gettiamo e poi sul retro dello shampoo e sul flacone di schiuma da barba e così via.
Oggi piove e questo si dimostra un piacevole diversivo. Finalmente siamo soli sotto alla nostra tettoia, lontano una donna con un vestito rosso ed un secchio blu cammina come se la pioggia non esistesse, due bambini giocano a rincorrersi sotto ai goccioloni e lontane le palme si dissetano all'orizzonte. la chiesa si è trasformata in un rifugio per capre ed i tuoni si mischiano all'eco del belare di fronte all'altare.
Ma poi anche tutto questo finisce e ritorna il solito caldo accompagnato dalla solita noia.

Settimo giorno di attesa.
Notte insonne e rumori continui. Qualcuno ha avuto la bella idea di fare una messa cantata notturna. Alle tre hanno suonato il campanile accanto alle macchine. Il campanile consiste in quattro pali alti due metri ed un cerchione da cammion appeso a mo di campana; il batacchio è una vecchia chiave inglese che viene sbattuta con forza sul cerchione. Immagino sia un'attività divertente visto che conto almeno ottanta rintocchi.
La mattina passa calda e noiosa e verso l'ora di pranzo ci prepariamo a mangiare la solita pasta con le sardine.
Diego cucina per tre. Ormai, abbiamo un amico, anzi due: Michel. dodici anni è ormai sempre con noi, da mattina a sera.
Bateau, età indefinita, un cagnetto magro come un chiodo che vive sotto alla macchina di Diego ed esce solo per mangiare e farsi levare le zecche.
Siamo una famiglia.
Facciamo una passeggiata fino all'aeroporto solo per scoprire che è una rovina e che vi atterra, ogni qualche settimana, un aereo dell'ONU per ripartire il giorno stesso.
Quando la sera ci infiliamo in tenda qualcuno accende un generatore ad un metro da noi e, sotto alla tettoia, tiene una lezione di catechismo in lingala fino a mezza notte.
Non sopporto più niente e nessuno.

Ottavo giorno di attesa.
Sveglia alle cinque causa gallo che cerco di colpire con una scarpa.
Scendiamo al porto a casa di Chef. Solite notizie,il battello arriverà, non ci dobbiamo preoccupare e dobbiamo solo aspettare, del resto siamo in Congo e qui le cose vanno così.
Oggi Chef ha un regalo per noi, un ananas.
Così facciamo passare qualche ora parlando dell'ananas, pulendo l'ananas e poi mangiando l'ananas.

Nono giorno di attesa.
un ragazzo in bicicletta ci viene a dire che Chef ci vuole parlare. Ci precipitiamo a casa sua.
Chef, come al solito è seduto sulla sua seggiola di plastica bianca che si lava i denti usando un bastone come spazzolino e dell'acqua torbida come dentifricio.
Senza fretta Chef finisce di pulirsi i denti e dopo dieci minuti buoni ci fa sapere che ci sono buone notizie: martedì scorso un Pousseur è partito da Mbandaka con quattro chiatte e quindi domani o dopodomani dovrebbe essere qui.
Sono euforico e felice, forse il nostro viaggio può continuare.
Chiediamo a chef cosa è un pousseur e lui ci dice che è una specie di rimorchiatore dal fondo piatto ma che invece che trainare spinge.
Bene, rientriamo a Bakanza con tanta voglia di fare.
Riordiniamo le macchine, controlliamo olio e gasolio e cerchiamo di pulire i filtri gasolio. 
Siamo pronti a partire.

Decimo giorno di attesa.
Passeggiata verso il porto. Oggi lungo la strada c'è una novità: alcuni banchetti improvvisati vendono noccioline. Un pacchetto di noccioline costa dieci franchi congolesi, ogni pacchetto contiene dodici noccioline di numero. ne compro almeno venti pacchetti. Il bimbo che me le vende non crede ai suoi occhi, conta i soldi e corre dalla mamma. Comprare noccioline per far felice un bimbo ed una famiglia è un buon modo di cominciare una giornata.
Il battello non si vede. Rientriamo a Bakanza e ci sediamo sotto alla tettoia di lamiere infuocate.
Bateau dorme sotto alla machina di Diego e Michel suona una scatola di cartone come fosse un tamburo.
Il tempo rallenta ancora ed il caldo aumenta.
Solo quando scende la sera sembra che qualche ora sia passata.
Unica grande fortuna, oltre al pozzo, è che verso sera, non tutte le sere però, in un determinato punto del cortile, il cellulare prende e quindi possiamo sentire casa. Io sento Cecilia e la cosa riesce quasi sempre a tirarmi su di morale anche se, giorno dopo giorno trovo sempre più difficile spiegare la nostra folle situazione in questo posto dimenticato non da Dio ma dagli uomini si.
Passiamo un'altra notte insonne, intervallata da rapide corse nel buio verso la latrina perchè, come se tutto il resto non bastasse, sia Diego che io, soffriamo di diarrea.

Undicesimo giorno di attesa.
Tosalì Kosilà Masùa - stò aspettando il battello
Scendiamo al porto e Chef ci da la certezza che in uno due giorni il battello sarà qui.
Rientriamo a Bakanza. Oggi viene il vescovo in visita dal centro e quindi è una giornata speciale. Dieci ore di messa consecutiva con conseguente processione di gente che viene al nostro accampamento a porgere gli omaggi, a salutare o semplicemente a chiedere se abbiamo delle bottiglie di acqua vuote da regalare.
per tutto il giorno centinaia di persone si assiepano attorno a noi per guardarci. Addirittura Michel ne è infastidito.
Padre Donato ci raggiunge e si scusa per tutta quella gente ma ci dice anche che dobbiamo capirli perchè uno spettacolo del genere non si vedeva in città da almeno sedici anni.
Eccoci qui, due fenomeni da baraccone che aspettano un battello che forse non arriverà mai, che forse non esiste nemmeno.
E intanto la messa continua, ininterrotta, fino a sera e poi fino a tarda notte.

Dodicesimo giorno di attesa.
Tosalì Kosomba Mapa - siamo venuti a comprare del pane
Due panini con le sardine ed un intera mattinata di noia sotto alle lamiere.
In pomeriggio chiudo la tenda, la mia piccola casa e scendiamo in porto in macchina.
Anche dietro alla macchina si forma un corteo di biciclette che ci segue fino al porto.
Le notizie sono sempre le stesse: domani o dopodomani il battello arriverà.

Tredicesimo giorno di attesa.
Tosalì Kosomba Makaia - siamo venuti a comprare sigarette.
Ho finito le sigarette e riesco a trovare qualche pacchetto di Super Match, sigarette congolesi dal gusto forte ed orribile.
Andiamo a visitare la vecchia residenza di Mobutu. é impressionante, è grande quanto un grosso palazzo, alta due piani ma ricopre una superficie di migliaia di metri quadrati. Grandi ingressi con soffitti di marmo immettono in saloni decorati da affreschi colorati. Un'enorme terrazza che si affaccia sul fiume Congo separa le camere del presidente e di sua moglie.
Tutto è in rovina, ammuffito e distrutto. Fuochi accesi qua e là danno un tono ancora più spettrale al palazzo. I passi rimbombano ed i suoni si amplificano.
Sotto di noi, lento e maestoso, scorre il fiume.
Dalla terrazza si vede un immensa massa d'acqua marrone che scende, fino all'altra sponda saranno almeno tre chilometri.
un maestro, che insegna in una delle aule improvvisate in un salone, ci raggiunge sul terrazzo e ci fa luce sulle vere dimensioni del fiume.
"In questo punto il fiume è largo trentadue chilometri" ci dice, "e quella che vedete non è l'altra sponda ma solo un isola".
Comincio ad avere paura dell'arrivo del battello. 
Ora che mi hanno spiegato come stanno le cose non vedo più il Congo come un fiume, ma come un immenso labirinto di isole e fango, lungo migliaia di chilometri dal quale non so se usciremo mai.

Quattordicesimo giorno di attesa.
Tosalì Kokende Kisangani - partiamo per Kisangani
Cominciamo seriamente a prendere in considerazione l'idea di tornare in dietro. Sarebbero migliaia di chilometri, prima di foresta e poi di sterrati. Dovremmo riattraversare l'Ubangui ed e impossibile avere un visto per la RCA. Non sappiamo se sia possibile ritornare e quindi ci sentiamo in trappola. io non resisto quasi più, sembra di impazzire, qui sotto al sole in mezzo a persone con le quali non si può parlare d'altro che di manioca e banane. per fortuna ogni tanto Padre Donato ci allieta con una chiacchierata e Michel ci addolcisce con un sorriso.
Abbiamo finito il caffè ed al mercato troviamo una scatola di bustine di the scaduta cinque anni fa. La compriamo.
Chef ci dice di avere pazienza.
Qui il tempo si è fermato. Scopriamo che nessun viaggiatore è più passato di qui dall'ottantotto, scopriamo anche che fino ai primi anni ottanta si poteva arrivare qui e poi proseguire fino a Kisangani anche con un furgoncino a due sole ruote motrici.
Oggi sembra di vivere nemmeno nel passato, ma in un futuro post atomico, cento anni dopo una guerra nucleare.
Ecco che l'Africa si trasforma in una perfetta macchina del tempo, attraverso il continente si passa dagli anni settanta di città come lomè a luoghi medievali per arrivare addirittura alla preistoria attraversando vallate sconosciute abitate da uomini nudi che vivono di caccia e raccolta. E poi il Congo che ci mostra un futuro apocalittico nel quale non vorremmo vivere mai. O forse si?
Masùa Ekokoma - il battello arriverà

Quindicesimo giorno di attesa.
Mattinata persa nella noia. Abbiamo il morale sotto ai piedi, stiamo per cedere. tra me e Diego  si è creato un tacito accoro: se il battello non arriva entro domenica, ovvero dopodomani, tentiamo la strada già percorsa con tutti i rischi che ne conseguono.
Chiudo la tenda e scendiamo in macchina al porto con Michel seduto in mezzo a noi che ascolta l'iPod.
Parcheggiamo nel trambusto di nullafacenti e camminiamo verso la riva. Dietro agli alberi appare l'immenso fiume e la in mezzo, lontano come un sogno, qualcosa si avvicina.
Mi gira la testa per l'agitazione.
Da lontano sembra una enorme e lunghissima montagna di spazzatura ma Chef, che intanto ci ha raggiunti, mi assicura che è lui, il battello, una visione, Masùa, un sogno che si realizza, il pousseur con le sue chiatte a spinta, la fine dell'attesa.
Lentamente il battello risale la corrente, pare un antico mostro marino risalente all'epoca dei dinosauri. Per arrivare alla nostra altezza impiega più di due ore.
Un immenso mostro farragginoso, carico  di qualunque mercanzia, dai trochi di legno alle seggiole di plastica. montagne di sacchi di farina e di Mais incombonbo su capanne improvvisate con teli lacerati e stoffe stracciate e centinaia di persone vivono nei meandri di questo enorme animale.
Non riesco a non sorridere anche se penso a quanta paura mi faccia anche solo l'idea di salire su quel mostro e navigare lungo questo fiume infinito.
Lentamente il masùa si avvicina, riesco a leggere il nome del pousseur: "Shirikiana", ecco il nome del mezzo che ci porterà lontano da Lisala ma anche ancora più lontano da casa e sempre più dentro al cuore nero di questo continene.
Il battello non si ferma, transita lento davanti a noi e prosegue il suo cammino.
Restiamo paralizzati, lo sconforto mi assale, avrei voglia di  piangere ma sono troppo deluso ed arrabbiato, arrabbiato con l'Africa, con i neri, con Chef e con Mobutu, con i belgi e con i francesi, con Dio e con me stesso.
Chef ci dice di saltare in macchina e di seguire il battello lungo la costa perchè più a monte esiste un approdo da cui ogni tanto vengono caricati i "Grimm", ovvero gli enormi tronchi d'albero che vanno trasportati via fiume.
Una corsa sfrenata con Chef seduto tra me e Diego e Michel sdraiato sui bagagli.
L'approdo è un piccolo promontorio di terra disboscata e finalmente da qui vediamo il convoglio che vira e in mezz'ora attracca.
Adesso cominciano i problemi.
Chef ci procura una piroga e tutti assieme raggiungiamo il pousseur che dista dalla prua, legata a terra, almeno duecento metri.
Ci arrampichiamo fino al ponte superiore e li incontriamo francine, una donna di kinshasa che fa la gerente per conto del proprietario.
sarà Francine a decidere del nostro destino.
Due ore di contrattazioni portano ad un accordo economico. L'indomani potremo salire sul battello.

Rientriamo al nostro accampamento a fare i preparativi. disfiamo il campo e prepariamo le macchine al viaggio. chiudiamo il tavolo e le sedie, mettiamo via tutte le nostre cose e mentre facciamo tutto questo non ci accorgiamo di chi ci è accanto perso in un mare di disperazione.
Michel, che ha passato gli ultimi dodici giorni con noi, è disperato.
Michel piange senza ritegno, ci abbraccia e non riesce più a parlare. noi lo rassicuriamo, gli diciamo che un giorno verrà a trovarci in Italia e gli lasciamo una lettera da consegnare a padre donato nella quale facciamo sapere al prete che quando vorrà mandare Michel in italia per un certo periodo potrà contare su di noi.
Ma niente serve a consolarlo. Michel quella sera rientra in lacrime alla sua capanna.

La notte passa veloce e la mattina viene piena di speranze.
Scendiamo al porto pronti a partire.
Conosciamo Marcel il comandante e pilota del convoglio.
due ore e mezza di manovre avvicinano una delle chiatte all'argine scosceso. Un'ora di trattative convince un gruppo di uomini del posto a procurarci una serie di pali e legni per creare una passerella fino alla chiatta.
Cinque minuti di terrore ci portano a bordo.
la struttura creata per far passare sulle chiatte i Land Rover è a dir poco ridicola, fragile ed instabile.
Comunque tra scricchiolii e cedimenti riusciamo ad imbarcare.
io rientro a Bakanza per un ultima improvvisa seduta sull tazza che tanti piaceri ci ha donato in queste settimane e mentre attraverso la città incontro Michel che cammina come perduto in una valle di lacrime. Quando alza gli occhi e mi vede il suo volto cambia e un immenso sorriso gli illumina il volto.
"No Michel, non resteremo, sono tornato solo per andare in bagno ed oggi comunque partiremo"
Passiamo la giornata a sistemare le tende e a conoscere l'equipaggio. Michel ci stà vicino come un cagnolino, sempre piangendo e tirando su dal naso.
Verso le quattro del pomeriggio il convoglio è pronto e noi salpiamo verso l'ignoto. A Lisala lasciamo Michel disperato, Bateau,il cagnolino, denutrito e padre Donato forte e deciso a salvare un mondo che stà cadendo in frantumi.

Pazuzu è passato alla larga da Lisala, qualcuno lo ha tenuto lontano. lisala la città incantata, persa nel tempo e nello spazio, Lisala non ha lasciato entrare Pazuzu.
Pazuzu ha camminato attorno alla città in cerchi sempre più stretti, ha strisciato verso il centro compiendo ampi giri e poi ha deciso di scivolare nel fiume ed attendere. Il fiume porta cibo decomposto e storie primitive di orrore e sofferenza e Pazuzu adagiato sul fondo tra radici morte si nutre di attesa vomitando dolore.

Mille manovre incomprensibili servono a formare il lungo convoglio. I potenti e vecchi motori Caterpillar rantolano e spingono. Marcel dirige il timone verso il centro del canale e noi abbandoniamo la terra.
Navigare sul fiume Congo non è come navigare in mare o su un fiume europeo. navigare sul Congo è cosa strana perchè non si ha mai solamente a che fare con l'acqua ma anche con la terra. 
Il fiume è largo come una regione, un arcipelago di mille isole coperte da foresta impenetrabile ed il convoglio si muove lento come un immenso verme serpeggiando rigido attraverso canali ed estuari, condotto da uomini forti ed esperti.
Marcel Asango è un uomo molto alto, ha gli zigomi sporgenti ed un gran sorriso ma quello che colpisce sono i suoi occhi, bianchi e blu e con la pupilla fatta come quella di un gatto.
Due profondi pozzi azzurri sprofondano in un mare nero mentre le pagine delle carte nautiche scorrono lente una dopo l'altra.
 L'equipaggio del Shirkiana è composto dal capitano Marcel, da due timonieri Jhoseph e Jampierre, da un meccanico e dal suo giovane assistente e da Francine, la gerente.
Nei tratti di fiume più pericolosi salgono a bordo vari personaggi provenienti dalla foresta che, con le loro conoscenze aiutano i piloti a seguire il percorso più sicuro.
Duecento metri più a poppa, ai lati del convoglio, due uomini muniti di lunghe pertiche scandagliano continuamente il fondo e comunicano a gesti le verie profondità.
Il fiume Congo è largo ma poco profondo, va da dieci dodici metri a un metro e quindi arenarsi su un banco di sabbia è fin troppo facile.
Uno dei timonieri mi spiega che in ceri momenti navighiamo con il la chiglia a meno di un metro dal fondale.
Le chiatte brulicano di vita, animali ed uomini si contendono i posti migliori e come sempre l'uomo ha la meglio.
Capre, galline, scimmie ed aquile sono un pò ovunque. Tra le alte cataste formate da sacchi di farina e mais, si snoda un dedalo di stretti passaggi intervallati da strette zone libere dove gli uomini hanno steso dei teli per ripararsi dal sole e dalla pioggia e le donne hanno approntato cucine e giacili.
Le chiatte non hanno paratie di alcun tipo ed un metro sotto l'acqua scorre scura e minacciosa.
per arrivare dal pusseur alle nostre machine e viceversa, dobbiamo muoverci lungo questo labirinto per almeno dieci minuti.
Si passa dal ponte inferiore, si sale una scaletta in ferro, si cammina per un metro in equilibrio su un cavo di acciaio teso verso la prima chiatta, poi si passa su un mucchio di vecchi cavi arrugginiti e quindi si volta a destra e, tenendosi  con le mani ad una corda da imballaggio e puntando i piedi su una stretta cornice di ferro si avanza di lato, con tutto il corpo sospeso sulle acque.
Poi si rientra in uno slargo abitato da tre o quattro famiglie e si passa vicino ai fuochi accesi ed ai gicigli scavalcando vecchi e bambini che dormono. Ci si infila in uno stretto corridoio le cui pareti sono fatte di sacchi impestati di piccoli pidocchi del mais, si cammina di lato strisciando petto e schiena.
Ci si arrampica su un pilastro di ferro e si prosegue lungo una sottile tavola sospesa su un altro corridoio.
Altre famiglie ingombrano una zona libera e da li si sale su una chiatta più alta di un metro, tenendosi con le mani ad un cavo di acciaio sfilacciati ci si arrampica verso due container e ci si passa in mezzo e poi, ad una svolta, finalmente ecco le macchine. Ancora un piccolo slalom tra persone sdraiate e cataste di merci ed eccoci alle nostre "abitazioni".
Le macchine sono così vicine alle cataste di sacchi che non si riesce ad aprire le portiere, bisogna entrare dai finestrini o dal bagagliaio.
Una catasta di sacchi di mais ha ceduto quasi subito appoggiandosi alla fiancata della macchina di Diego e varie persone hanno utilizzato i bull bar , le antenne e le bagagliere come appigli per ancorarvi i teloni che gli servono da tetto. Qualcuno dorme sotto alla mia machina e qualcun altro gioca a dama con i tappi di birra usando la mia portiera come schienale.
Si vive tutti a stretto contatto e noi capiamo di essere davvero fortunati a possedere le tende.
Abbiamo bloccato le macchine con dei cavi fissati ai fermi della chiatta e dietro alla mia qualcuno ha caricato un vecchio telaio da camion che usiamo come panchina.
Il primo giorno navighiamo solo cinque ore e poi, assistiamo per la prima volta ad un ormeggio: Marcel dirige il convoglio verso l'argine, rallenta e con un rumore di rami spezzati e metallo che scricchiola infila la prua nella foresta.
I due manovratori di scandaglio impugnano un grosso cavo di acciaio e si tuffano nelle acque marroni. A fatica, immersi nell'acqua fino al collo, legano il cavo ad un grosso albero che emerge dalla superficie. Fatto, siamo pronti per la notte.
siamo già coperti di pidocchi del mais, piccoli animaletti duri come sassolini che ti si infilano dappertutto e ti fanno grattare continuamente. ci dicono che è normale e che se ne andranno solo quando ci allontaneremo dal mais.

Siamo bianchi ed abbiamo pagato il passaggio e quindi abbiamo dei privilegi: primo possiamo stare sul pusseur in navigazione, secondo possiamo andare dove vogliamo, in cabina di comando, sui ponti e soprattutto sul tetto.
Salendo sul tetto si esce per un momento dalla confusione e dalla vita di bordo.
Il tetto è largo come una grossa terrazza e da qui si gode di un panorama che pochi uomini al mondo hanno avuto la possibilità di vedere.
Ciò che ci circonda è assolutamente primordiale, fiume e foresta a perdita d'occhio. Paura e sgomento si mischiano a meraviglia e stupore. Per centinaia di chilometri non esiste traccia di civilizzazione, solo il nostro convoglio ti fa capire di non essere piombato nella preistoria.
I motori, uditi da quassù producono un rombo sommesso, come il russare di una grande creatura. Il sciabordio delle acque trasmette una vaga sensazione di freschezza che contrasta con le incredibili temperature che invece la fanno da padrone.
Il primo tramonto mi sorprende come fosse la prima volta che vedo il sole scendere dietro all'orizzonte.
Il sole è immenso e scende veloce , trasformando in nero il verde della foresta ed in rosso il marrone delle acque.
La meraviglia della natura mi schiaffeggia come per svegliarmi dal sonno di una vita dicendomi:"ecco, questo è il mondo, questa è la terra su cui vivi, questa è la casa che abiti. Questa è la madre che ti ha generato milioni di anni fa. Tutto il resto è un brevissimo sogno."
Mi rendo conto che il nostro viaggio è finito. Siamo arrivati nel punto esatto in cui o sprofondi o cominci un ritorno.

In un punto imprecisato tra Lisala e Bumba, nella Repubblica Democratica del Congo, scivolando sulle acque del fiume Congo, nel febbraio del 2009, abbiamo raggiunto il centro della terra.

Da qui si irradia tutta l'energia che governa la terra, tutte le pulsioni di vita emergono da questo immenso calderone di vegetazione e fango primordiale. La forza oscura che regola i comportamenti dell'uomo animale esce tutta dal ricordo di una terra come questa. Questo è l'ambiente che da la vita al mondo, come un grande cuore che invece che pompare sangue pompa energia lungo i sentieri della terra.
é questo il luogo dove l'uomo non riuscirà mai ad avere la meglio sulla natura, il luogo dove l'uomo dovrà fare i conti con il suo essere, il luogo dove si prende coscienza di non essere diverso dalla scimmia che stai mangiando.
L'uomo, l'animale, l'albero ed il fiume. Tutto il resto è un'emanazione di queste creature.
In questo centro Dio non mette piede per paura di capire da dove viene, Pazuzu resta stordito e regredisce allo stato di pesce da fondale e l'uomo invece risorge a nuova vita assumendo le caratteristiche di creatura mitologica, da cui tutto nasce e con il potere di distruggere ogni cosa con il solo suono di una parola.

La foresta pare essere un unico essere la cui voce è composta da migliaia di versi, latrati, scricchiolii, urli e pigolii, soffi e fruscii, tremori e vibrazioni, rombi, ticchettii e cicaleggi; barriti, ruggiti e starnazzi; belati e grugniti, soffi e sibili; tonfi e tuoni, sciabordii e schianti e, sopra a tutto, il suono primordiale, madre di Dio e di tutto, la voce dell'uomo che si staglia limpida e netta come una roccia di granito: Masùa Ekomi - urla l'uomo - la barca è arrivata.




IL FIUME

Il destino tesse trame così contorte e strane che l'uomo non può capirci un gran chè, può solo, a volte, restare sbalordito ed incantato a vedere quello che succede e credere che ci sia un ordine che governa il tutto.
Dopo più di vent'anni che nessuno passava da queste parti e tantomeno un italiano, arriviamo noi, via foresta raggiungiamo il fiume Congo e qui aspettiamo, aspettiamo ed aspettiamo ed alla fine arriva l'imbarcazione più strana e bislacca che si possa immaginare. Saliamo sulla chiatta e incontriamo Paolo.
Paolo è un ragazzo di origini ............. che oggi vive a Glasgow ma è un anno che gira per l'Africa a piedi ed utilizzando tutti i mezzi disponibili, compresi passaggi e cammelli.
Il destino tesse e ritesse le sue trame e combina elementi fino a creare un grande disegno, tanto meraviglioso quanto  confuso.
Così dopo vent'anni che nessuno passa di qui, tre italiani si incontrano, si guardano si annusano e poi, come da copione si cucinano un piatto di spaghetti al pomodoro e se lo mangiano.
Apro il nostro tavolo portatile, apparecchio tavola e stappo tre birre che ci ha procurato Francine.
Diego spignatta ai fornelli ed infine ci sediamo a tavola a mangiare e succhiare spaghetti.
Paolo, dopo un anno in giro per il continente è si commuove di fronte alla pentola traboccante di spaghetti rossastri.
Paolo è un antico filosofo metafisico, gira il mondo in cerca di risposte a domande che deve scoprire e l'Africa di risposte e di domande ne ha talmente tante che le può elargire a piene mani.
Paolo è confuso da questo grande continente, dopo anni passati a viaggiare in Asia e Cina, non riesce a spiegarsi l'arretratezza e la disperazione che regnano in questi posti.
"Benvenuto in Congo" recita un cartello immaginario che si materializza ogni tanto sulle nostre strade.
Paolo arriva da Kinshasa in battello, un mese di navigazione, paura, diarrea e funghi sotto i piedi. Quattro giorni prima di incontrarci Paolo ha assistito ad un attacco dei pirati che sono saliti sulle chiatte e si sono portati via tutto il trasportabile ed ora qualche volta teme che questo si ripeta.
In due ore diventiamo amici in quel modo che credo possa durare tutta la vita.
Adesso siamo in tre ad attraversare questo pezzo di mondo, questo fiume che solca terre fatte di alberi ed uomini.
Il lento scorrere del fiume ed il lentissimo avanzare del battello quasi si annullano assumendo un ritmo quasi ipnotico. l'acqua marrone scorre ed a tratti lontana a tratti vicinissima la primordiale foresta lancia i suoi richiami.
Pazuzu si nasconde nelle ombre degli alberi e scivola nelle acque basse, tra le radici ed il fango.
Io ogni tanto lo scorgo, vedo i suoi occhi gialli che mi guardano, lo sento in agguato e so che aspetta il momento buono per saltare sul battello e portarmi via.
Ma su questa nave c'è troppa umanità, troppa bontà e fratellanza perchè lui possa salire e portarmi via.
Uomini forti come leoni e caparbi come capre di montagna governano il battello lungo il fiume, con la forza del corpo ed il potere delle loro menti ci guidano e conducono attraverso questo inferno verde.
Avanziamo lenti come lumache lungo una striscia di acqua che è madre di ogni pioggia che ho visto nella mia vita.
Di quando in quando si aprono radure nella foresta e villaggi primitivi si affacciano sul fiume mostrandoci uomini ,così lontani dalla mia vita, che a stento riconosco come miei simili. eppure sono i padri da cui tutti veniamo.
Le piroghe si staccano dalla riva e con manovre precise e sconclusionate si accostano al battello. Mani bagnate legano funi fradicie ad appigli umidi e piedini neri corrono veloci per i ponti a portare la notizia che è il momento del baratto.
Con le piroghe giungono semplici ma indispensabili mercanzie come olio di palma, manioca cotta al sole e birra di palma, cocchi e qualche grosso pesce.
Scimmie ed aquile, larve del mopane grosse lumache sono i cibi preferiti dai viaggiatori. Qualche franco congolese, abiti consunti, medicine e fiammiferi sono la merce sono i beni più agognati da donne ed uomini dei villaggi.
Durante la risalita del fiume migliaia di piroghe accostano il battello che si trasforma ogni giorno in un grande mercato semovente.
Il battello è come un villaggio in miniatura che attraversa il Congo, portando merci, notizie e tre uomini bianchi.
Dai villaggi, uomini, donne e bambini, ci salutano con grandi sorrisi sulla bocca, danzano per noi e si mettono in pose assurde per farsi fotografare.
"L'uomo bianco sta tornando, risale di nuovo la corrente e passa tra di noi ancora una volta".
Intanto il battello non si ferma mai. Lentamente continuiamo a viaggiare verso nord-est, percorrendo quella grande ansa che il fiume Congo compie nel suo tratto più settentrionale.
Prossima tappa Bumba, proprio quella Bumba in cui, ci aveva assicurato Chef, non ci saremmo fermati.
La sera scende sul convoglio mentre Diego, Paolo ed io ci godiamo  lo spettacolo dal tetto del battello.
Marcel manovra per l'attracco ed entra nella foresta così profondamente che gli alberi sovrastano le nostre tende ed i rami strappano i fanali dei Land Rover.
I motori si spengono ed il suono della foresta invade i nostri timpani.
Milioni di piccoli e grandi insetti curiosi si riversano sul battello.
Durante la notte sento camminare bestie sulla tenda e pidocchi sul mio corpo.
All'alba il battello si disincaglia dal suo riposo notturno e la marcia riprende.
Il caldo è allucinante, le chiatte di ferro ed il ponte del battello fatto di metallo sono bollenti. L'unica latrina si trova accanto al vano motori, un gabbiotto di metallo esposto al sole alla base del quale un foro conduce direttamente nel fiume.
Defecare è un impresa. un incubo, una fortuna.
La diarrea ci perseguita da giorni e giorni. Ci siamo presi infezioni intestinali che in Europa nemmeno si conoscono. Non lo so ancora ma mi sono preso i vermi e non passa giorno che le mie feci non siano piene di sangue o gialle come quelle di un cane malato. Il tutto condito da un continuo ed acuto dolore alla pancia.
Ma chi bello vuole apparire un poco deve soffrire e quindi soffro per la gioia di imparare qualcosa in più da un'esperienza come questa.
L'arrivo delle diciassette lo attendiamo come una grazia divina, il sole allenta la sua presa su di noi, il caldo si attenua e possiamo ricominciare a respirare.
Verso sera giungiamo a Bumba.
L'antica città appare come un cumulo di rovine. Vecchie gru mezze crollate ed arrugginite ci indicano dove un tempo esisteva il porto.
relitti di navi calcificati e mezzo affondati, abitati da ratti e famiglie di poveracci, si affacciano sul fiume come scheletri di antichi mostri.
Il porto attuale consiste di una scarpata fangosa lunga alta tre metri e larga cinque o sei.
Vecchi edifici coloniali, uffici e magazzini si alternano in fila lungo la sponda.
NON UNA FINESTRA INTERA, NON UNA PARETE SENZA CREPE NON UN TETTO IN grado di tenere l'acqua.
Marcel manovra per un ora ed alla fine spegne i motori.
Due tavole di legno vengono gettate posizionate tra le chiatte e la terra ferma e la processione ha inizio.
Persone che salgono e scendono, mercanzie che vengono spostate, pacchi e pacchetti che passano di mano in mano.
Marcel ci fa sapere che ci sono merci da scaricare e merci da caricare, stare qui almeno un giorno e mezzo.
In realtà resteremo inchiodati a Bumba per una settimana perchè le molte tonnellate di merci da spostare saranno spostate tutte a mano, trasportate sulle teste dei portatori un sacchetto alla volta.
Bumba era una città, ora è uno sfacelo, un antico centro di commerci trasformato in una topaia semidistrutta.
Su quello che fu un lungofiume esiste un ristorante che vende birre fredde e piatti caldi di pesce gatto e patate. Qui passeremo tutte le nostre serate, succhiando lische ed ingollando birra e gazzosa.
Ogni giorno sembra quello buono per partire ed ogni notte potrebbe essere l'ultima che restiamo qui.
Ma i giorni passano e la follia del lavoro di carico e scarico continua senza soluzione di continuità. 
Una fonte privata fa bella mostra di se nel centro del villaggio ed in cambio di qualche spicciolo possiamo riempire le nostre sacche da doccia. A Bumba compriamo anche pane, banane e carne in scatola, sigarette e carta igienica simile a cartavetro.
Prendiamo informazioni sulla viabilità e scopriamo che sono più di quindici anni che nessun mezzo arriva o parte da Bumba. I ponti sono crollati o sono stati distrutti e la guerra rende le strade, comunque impercorribili, troppo poco sicure.
La fretta è un concetto completamente assente in questa parte di mondo, eppure noi non possiamo fare finta di non averne.
Federica aspetta Giorgio e Cecilia aspetta me e noi aspettiamo di uscire da questo sogno-incubo.
Tutti aspettano qualcosa, Diego aspetta che la Diarrea passi e Paolo aspetta di raggiungere il Ruvenzori, io aspetto che i vermi se ne vadano e Marcel aspetta la paga, gli scaricatori aspettano il loro turno e la merce aspetta di essere caricata. I topi aspettano gli avanzi ed una donna stesa sulla chiatta aspetta un bambino.
Pazuzu aspetta tutti e si dimena tra i fanghi della sponda opposta impaziente e confuso, famelico e idiota come un giullare sgridato dal suo sovrano.
Tutti aspettano qualcosa e la fretta non esiste. Così il tempo si ferma e si ritorce su se stesso creando una spirale da cui si rischia di non uscire più.
Passiamo le giornate seduti all'ombra di una cerata sfilacciata a parlare con Paolo di vecchie avventure, di nuovi progetti e di antichi, lunghi viaggi.
La sera consumiamo cene misere allietate però dalla presenza delle bottiglie di Primus fredde.
Le notti passano lente e calde, al ritmo dello squittio dei topi che hanno invaso la nave passando a centinaia sulle passerelle di legno.
Ovunque, la notte, accendendo una torcia, si possono vedere topi. nell'acqua che nuotano attorno alla nave alla ricerca di escrementi freschi, sulle chiatte in cerca di briciole e sui sacchi di mais intenti a rosicchiare una fune.
Topi, pidocchi, infezioni e vermi nella pancia.
A volte mi chiedo come si possa vivere in questo posto, come ho fatto io a finire qui, ma poi capisco che certe cose succedono e che quello che sto vivendo è esattamente quello che volevo, quello che mi merito, quello che cercavo.
Svariate volte uomini armati vengono a cercarci per spillare soldi in cambio di lasciapassare inventati. A volte i soldi ci vengono richiesti con gentilezza, altre volte tramite minacce
Dopo una settimana che sembra infinita il battello riparte e noi con lui.
Mentre ci allontaniamo guardo Bumba ed i suoi palazzi in rovina e mi domando quando mai potrò rivedere questi posti così lontani dal mondo.
Calore e diarrea accompagnano il nostro viaggio. Ci stiamo dirigendo a Kisangani, verso il centro della guerra, verso la nostra meta.
Giorni e giorni di navigazione, ritmati dai motori diesel che ogni tanto si inceppano e vengono riparati dai meccanici mentre il convoglio viene trasportato a valle dalla corrente.
Il dedalo di canali che corrono tra migliaia di isole e costellato da antiche imbarcazioni affondate od incagliate che sono diventate tane per serpenti e coccodrilli.
in mezzo al fiume emerge il ponte superiore di un battello affondato qualche anno prima.
I timonieri pare adorino le scimmie, ne cucinano almeno una al giorno. Niente fuochi ne fornelli, troppo costosi.
le scimmie vengono cotte ed abbrustolite direttamente sui tubi di scappamento del pusseur, alla faccia di tutte le nostre norme igieniche.
Una scimmia di nome Stati Uniti diventa nostra amica e passa i pomeriggi legata ad un cordino sgambettando attorno a noi o rifugiandosi tra le nostre braccia.
Due giorni prima di arrivare a Kisangani i timonieri famelici si mangiano Stati Uniti e poi si puliscono i denti soddisfatti.
Anche le aquile sono un cibo molto richiesto poichè donano il coraggio, allo stesso modo in cui la carne di scimmia dona la forza.
E così il nostro convoglio avanza, divorando scimmie, galline, capre e acquile. La sera le ossa cadono nel fiume ed i grossi pesci gatto tritano i residui.
Durante la notte ombre accucciate defecano ed orinano, reggendosi alle funi da imballaggio, direttamente nel fiume.
Una tempesta ci coglie di notte, attraccati alla foresta.
lampi immensi esplodono a decine e tuoni che paiono scontri tra pianeti rompono il cielo.
Io passo la notte seduto in macchina perchè la tenda, troppo sopraelevata non regge i forti venti.
A tratti, la luce dei lampi illumina il modo ed ho visioni di persone fradicie, rannicchiate l'una contro l'altra protette solo da lembi di nylon stracciati.
La mattina il sole torna ad asciugare e scaldare i nostri corpi e le merci ed il Masùa riprende il suo lento scorrere.   
Nei pressi di un grosso villaggio chiamato Lokuto veniamo raggiunti da due grosse piroghe dalle quali saltano fuori una ventina di ragazzi i quali, in men che non si dica, scricano dodici tonnellate di farina di manioca e ripartono verso la foresta.
I commerci tra piroghe e battello continuano tutto il giorno, tutti i giorni.
Spesso le piroghe emergono direttamente dalla foresta, giungendo da canali invisibili, mascherati dalle fronde e nascosti dall'oscurità.
L'odore di pelo bruciato e di carne bruciata si fa sentire continuamente e non riesco a farci l'abitudine.
Stiamo scivolando verso la città di Kisangani, verso la guerre.
Cadaveri di civili e di militari scendono lungo il fiume, trascinati dalla corrente, si impigliano nelle radici di mangrovie, si capovolgono puntando occhi vuoti al cielo e continuano il loro viaggio verso le fauci dei grandi pesci.
Kisangani si presenta con il suo vecchio quartiere residenziale ormai abbandonato ai ratti ed alle erbacce e poi il vecchio porto, utilizzato come cimitero di imbarcazioni demolite ed arrugginite. la sensazione di vivere in un film ambientato in un periodo post atomico è sempre più forte. Tutto è cadente, distrutto, consumato, corroso e sporco. Disordine e confusione la fanno da padroni.
Marcel accosta la chiatta ad un vecchio pontile ancora in uso e dopo molte ore di contrattazioni riusciamo a far mettere in funzione una vecchia gru risalente agli anni quaranta. Un unico immenso blocco di ruggine semovente con braccio da carico solleva le nostre macchine fino a dieci metri di altezza, ruote e le deposita mezze di traverso sui vecchi binari di una ferrovia in disuso.
Saluti e promesse ai nostri compagni di viaggio e poi qualche ora per le pratiche di sdoganamento.
Chiediamo informazioni e ci dirigiamo verso la missione di padre Giovanni, uno dei pochi preti bianchi rimasti in queste zone.
Padre Giovanni ci accoglie con calore e cordialità e ci prepara una cena degna di un sovrano. Ovviamente di un sovrano italiano.
Spaghetti al sugo di pomodoro, carne, insalata, vino e spek. Tutto arrivato qualche giorno prima tramite un aereo dell'ONU.
Passiamo la serata a bere birre, chiacchierare con padre Giovanni ed altri preti. I loro racconti su quanto succede in questi posti sono agghiaccianti. Morte, miseria e disperazione, guerra e ribellioni.
Padre Giovanni ci sconsiglia caldamente di proseguire verso Wallikalli e Bukawu, sostiene che sia impossibile passare. La guerra imperversa più furiosa che mai ed i plotoni di ribelli ed interamue la fanno da padroni, per non parlare delle strade che, pare, da Wallikalli in poi proprio non esistano più.
Passiamo le notte nel giardino della bella missione e la mattina padre Giovanni  ci prepara un ottima colazione che consumiamo al buio. Salutiamo Paolo che rimarrà qualche giorno qui e poi partirà alla volta del Ruvenzori dove non arriverà mai perchè ancora una volta sarà l'Africa e non l'uomo a decidere il corso del destino.
Prima ancora che le luci dell'alba si facciano vedere stiamo uscendo da Kisangani diretti a Wallikalli. Lasciamo il confortevole rifugio della missione e ci inoltriamo in zona di guerra.
La paura si fa sentire facendomi spalancare gli occhi ancora chiusi per il sonno. La strada è buia ma in discrete condizioni. Padre Giovanni ci ha avvertito che la strada fino a Wallikalli è molto brutta ma qualcuno ancora la percorre.
In giornata vorremmo percorrere almeno quattrocento chilometri e riusciamo a farne cento ancor prima che sorga il sole.
Viaggiando nella notte tutto assume un alone di mistero e terrore, gli alberi ci sovrastano e proiettano ombre ai lati della strada, ombre che paiono ribelli appostati pronti ad assaltarci.
D'improvviso un cagnolino non più grosso di una mela si butta in mezzo alla strada. Lo sento guaire per un secondo e poi più niente.
Mi si stringe il cuore, l'ho preso con una ruota. Dopo più di sessanta mila chilometri in Africa questa è la prima creatura che finisce sotto la mia macchina. Ho paura, soffro per il cagnolino che non ha sofferto e vivo la cosa come un presagio di sventura.
Pazuzu è qui, lo sento che grugnisce rincorrendo la mia macchina, lo intravedo nelle ombre della foresta ed ogni tanto lo scorgo nei volti illuminati dai fari. Un volto neutro si deforma in un sogghigno maligno e mi fissa fino a quando non gli passo accanto. Estrae una lingua puntuta e la fa vibrare come una foglia al vento emettendo ruggiti di animale.
Passo veloce e spaventato, le gomme affondano in un fango molle e appiccicoso che a tratti si solidifica in creste aguzze miste a sassi appuntiti.
Dopo alcune ore sorge un'alba pallida ed un cielo carico di pioggia minaccia tempesta.
Più chilometri facciamo e meno auto incontriamo. Più avanziamo e più spesso incontriamo militari armati.
La strada si fa sempre più stretta, difficile e sconnessa. Attraversiamo villaggi isolati, villaggi che un tempo sorgevano nella foresta ma che adesso si sono spostati sulla strada per paura dei ribelli.
Un grosso maiale corre verso di me sul ciglio della strada, d'improvviso scarta verso il centro della carreggiata ed io gli passo sopra con la macchina. non ho neppure il tempo di frenare. Guardo nello specchietto e lo vedo che goffamente si rialza, barcolla e poi stramazza al suolo. Un nugolo di persone accorre accanto alla carcassa e molte altre mi inseguono inutilmente urlando insulti.
I presagi maligni aumentano.
La strada peggiora ad ogni chilometro. I ponti cadenti si trasformano in guadi e in passerelle composte da due soli tronchi.
Spesso per superare i torrenti siamo costretti a passare uno per volta mentre l'altro, accucciato davanti alla machina segnala il percorso da seguire.
Le gomme scivolano, i tronchi gemono e uno dopo l'altro passiamo, un ponte dopo l'altro.
Guidiamo tutta la giornata mentre un leggero vento spazza le nubi ed il sole torna alto nel cielo.
Sudore e fatica. La strada peggiora, i Land Rover spesso viaggiano incassati in canaloni di fango profondi fino a tre metri. colonne di militari dagli sguardi minacciosi ci osservano passare e qualche volta puntano i loro fucili e fingono di spararci per poi ridere delle nostre espressioni spaventate.
Ormai dovrebbero mancare settanta ottanta chilometri a Wallikalli.
La strada è una specie di lago di fango. Diego lancia il Land Rover in un canalone e ne esce a stento, io entro lentamente e rimango imprigionato nella morsa del fango.
Scendo, impreco e sudo. Mi muovo in mezzo al fango, prendo le cinghie, le aggancio e Diego mi tira fuori.
La strada peggiora, poi, improvvisamente l'asfalto. Uno, due chilometri di asfalto buono e poi uno sbarramento. Veniamo quasi aggrediti da un manipolo di militari feroci che, puntando le armi ci intimano di fermarci e di aspettare.
Dopo pochi secondi sentiamo un rombo sopra le nostre teste e tre piccoli aerei da trasporto atterrano sulla strada passando a pochi metri da noi.
Diego prova a filmare ed io a fotografare. Scoppia un putiferi.
Urla ed insulti da parte dei militari, minacce di arresto e di morte e mentre la discussione si scalda veniamo tutti zittiti dal rombo degli aerei che ripartono.
La sbarra si alza e noi ci muoviamo quasi scappando dal posto di blocco. Qualche chilometro e la strada torna un inferno.
Aerei che atterrano in mezzo alla foresta in piena guerra ed in pochi minuti ripartono. Cosa trasporteranno? Armi? Oro? Forse diamanti o coltan, magari organi o uranio. Qualunque cosa è buona e qualunque opzione è possibile. La strana pista di atterraggio è costellata di relitti di aerei abbattuti o vittime di manovre troppo audaci. Sembra di essere in mezzo alla guerra. Siamo in mezzo alla guerra.
Wallikalli dovrebbe essere un grosso villaggio ma invece si presenta come un immane accampamento militare.
Si parla di decine e decine di migliaia di soldati accampati qui. Militari di Kabila, Mai Mai, truppe rwandesi ed angolane e poi ribelli che si nascondono nella foresta ma che di notte si ubriacano con i militari ufficiali.
Basuka e mitra in ogni dove. Questo è un posto sotto assedi pronto ad esplodere.
Qui la strada si divide in due, primo bivio dopo quattrocento kilometri. In mezzo alle baracche che costeggiano la strada un cartello stradale bianco avverte che a sinistra si va a Goma ed a destra a Bukawu.
Che scegliere? La padella o la brace?
Sceglieremo la brace.
Cerchiamo rifugio presso la parrocchia cattolica, abbandonata cinque anni fa dai padri bianchi e rimasta in mano ai preti del posto.
La parrocchia sembra abbandonata, auto demolite costellano il giardino ed erbacce crescono persino sui tetti. le finestre sono rotte e tutto lascia supporre che qui non ci viva più nessuno. 
Un ragazzo molto giovane ci viene incontro e si presenta come colui che ha il compito di amministrare la missione in assenza di preti.
Ci sistemiamo in un prato incolto sul retro della missione e ci viene dato un secchio di acqua pulita per poterci lavare.
Verso le cinque ci prepariamo un piatto di pasta con le sardine e, mentre laviamo la padella sopraggiunge un Land Rover bianco.
Quasi come in una visione vediamo scendere un bianco, un uomo molto alto ed elegante, con lunghi baffi e capelli ben ordinati.
Ci presentiamo. Il signor Patrick è bianco ma è considerato un nero, la sua famiglia ha vissuto qui pare per generazioni e lui è l'ultimo discendente, dice che di mestiere si occupa del rifacimento delle strade e questo mi fa sorridere. Ma di che strade stà parlando?
Comunque ci invita a bere una birra con lui e pochi minuti dopo ci troviamo nel cortile di una baracca che funziona da bar.
La birra è fredda ed il signor Patrik molto cortese.
Notizie funeste: la strada per Bukawu è impraticabile, sono anni che nessun mezzo, se non motorette che possono essere trasportate a braccia, percorre questa tratta. Qualche anno fa, ci dice Patrik, ci ha provato una spedizione dell'ONU partendo da Bukawu e dopo cinque giorni ha fatto dietro front abbandonando un mezzo.
ponti crollati o distrutti, strada quasi inesistente e frane e precipizi ovunque.
Bene, le notizie sono confortanti.beviamo un altra birra mentre in lontananza si sentono giungere degli spari.
Arrivano due uomini che si siedono al tavolo senza dire una parola. uno si rivolge a me: "Dove state andando? Chi siete?" Forte delle due bottiglie di birra che ho in corpo chiedo:"intanto chi siete voi e perchè vi siete seduti qui senza chiedere il permesso?"
L'uomo si scalda ed a calmarlo è il signor Patrik che mi spiega che sono due uomini della polizia e mi fa capire che sono ubriachi e quindi conviene andarci piano.
Uno dei due, quello che non aveva parlato prima ci chiede, quasi ci ordina di seguirli al commissariato per controllare i documenti.
io mi scaldo, gli dico che è mezza giornata che siamo in paese e che potevano venire prima a chiederci i documenti. Gli dico che adesso è troppo tardi e che forse domani potremo andare al commissariato ma di sicuro non adesso.
L'atmosfra si scalda e Patrik che sa come trattare queste cose ordina due birre  e le offre e subito dopo fa segno a me e Diego di alzarci e seguirlo.
Usciamo ed in fretta saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la parrocchia.
Patrik ci dice che è meglio che l'indomani ci presentiamo al comando dell'esercito e che comunque proseguire è impossibile. Oltre ai problemi legati alle condizioni della strada, gli ultimi bollettini di guerra sono funesti. truppe di Interamue e di ribelli stanno usando la strada per spostarsi verso il sud Kiwu in fuga dall'esercito regolare che pare stia scendendo da Goma. Sono armati e molto pericolosi.
Noi ringraziamo molto Patrik e gli promettiamo che l'indomani ci faremo vedere.
Ci infiliamo nelle tende, spaventati come non lo siamo mai stati.
lontano, dal profondo della foresta giungono spari ed urla.
Pazuzu è qui, striscia sotto la mia tenda ed imperversa nella foresta fomentando l'orrore e nutrendosi di paura e morte.
Ma io, per una volta non ho paura, sento che ho il controllo delle mie azioni, sento che l'unico male che mi può colpire è la morte e niente più. 
Pazuzu alza il capo verso la tenda, mi guarda con odio e si allontana verso la foresta.
Diego ed io ci alziamo alle tre e mezza. Alle quattro siamo in marcia. Usciamo da Wallikalli mentre la città dorme, forziamo il primo sbarramento da quattro militari disperati che dormono sul ciglio della strada. non ci sono sbarre tanto non esistono mezzi che passano di qui.
Un secondo posto di blocco ci impedisce di proseguire e questa volta sono dieci dollari che servono per farci andare avanti.
Sono terrorizzato, la strada serpeggia in salita arrampicandosi su per montagne invisibili ricoperte di foresta.
Ecco il primo ponte, lungo venti metri e composto da due sole putrelle in ferro.
Sotto di noi un abisso nero gorgoglia nella notte.
Ci vuole mezz'ora per attraversare. Centimetro dopo centimetro guidiamo i Land Rover lungo i due binari di ferro larghi quanto gli pneumatici.
Quando siamo passati siamo marci di sudore.
Riprendiamo la strada.
Dopo tanti chilometri in Africa non potevo neppure sognarmi una strada come questa. ponti distrutti e tornanti fangosi che si affacciano su oscuri baratri.
Il sole sorge mostrandoci una foresta maestosa intrisa di nebbie ed umidità. Spesso i passaggi sono così stretti che la macchina di Diego, a pochi metri da me, scompare inghiottita dalla vegetazione.
Passiamo su un ponte pericolante fatto di canne di bambù cedono sotto al peso dei fuoristrada.
Diego si impantana decine di volte cercando il passaggio migliore. Siamo continuamente fuori dalle macchine ad agganciare e sganciare cinghie. I Land Rover passano la mattina immersi nel fango fino ai cofani e noi con loro.
In continuazione io tiro Diego fuori dal fango e subito dopo lui tira fuori me. é un inferno.
Le macchine slittano sui cigli di profondi burroni, spesso si avanza quasi completamente rovesciati su un fianco, con due ruote sollevate e la fiancata che striscia nel fango molle e vischioso.
Non so se riusciremo ad arrivare dalle "nostre" suore o se rimarremo intrappolati qui, comunque non ho più paura, oggi ho solo coraggio, sono pronto ad usare anche l'ultima goccia di energia per avanzare di un metro. 
Pazuzu non può nemmeno pensare di avvicinarmisi.
Alle volte la strada si trasforma in un canalone scavato da antichi passaggi di camion, così ci troviamo a percorrere la strada schiacciati tra due pareti di fango alte più di tre metri e così vicine che ci obbligano a ritirare gli specchietti retrovisori.
Quando usciamo dalle macchine infossate per agganciarle con le cinghie lo facciamo uscendo dai finestrini. Chilometri di canali e poi laghi di fango e militari, uomini e donne e bambini armati, con e senza uniformi. posti di blocco fatti da militari drogati ed arrabbiati, gente pericolosa e pronta a tutto.
Pochi chilometri prima di Hombo guadiano un fiume in cui l'acqua è così alta che entra dai finestrini ed invade l'abitacolo fino alle caviglie.
I Land Rover non fanno una piega.
Decine di guadi e ponti e laghi di fango.
Arriviamo ad Hombo, enorme baraccopoli cresciuta su una collina aguzza come un pennacchio. Hombo pare un inferno ma da qui parte una strada decorosa che ci accompagna per una cinquantina di chilometri.
Poi di nuovo fango e strade distrutte e alte montagne.
Fino ad Hombo qualche mezzo proveniente da Bukawu ogni tanto arriva e questo potrebbe impedirci di proseguire.
camion vecchi e rantolanti tentano di attraversare i laghi di fango restando imprigionati nella loro morsa.
Oltrepassiamo diversi veicoli imprigionati nel fango, uno si ribalta mentre stò passando ed io non rimango bloccato per un soffio.
Fango e salita, tornanti e sassi. Una frana occupa tre quarti della strada e riusciamo a passare a stento. la gente vive nelle baracche mezze crollate e mezze invase dalla terra.
La strada migliora sensibilmente e d'improvviso ci troviamo di fronte quello che fino agli anni ottanta era l'ingresso del parco nazionale Kausi Biega.
Adesso le guardiole mezze distrutte ed il centro accoglienza visitatori crollato ed invaso dalle erbacce, fungono da rifugio per militari e ribelli. Prima di riuscire a liberarci dei controlli passa almeno mezz'ora.
Ripartiamo. Sono così stanco che quasi non ci vedo più dalla fatica. Sono sporco, stanco ed affamato.  Oggi non abbiamo mangiato niente e sono quindici ore che guidiamo nel fango.
Un'altra salita, una curva, una discesa e, come per incanto sotto di noi appare il lago Kiwu in tutto il suo scintillante e primordiale splendore.
Diego salta giù dalla macchina e grida come un ossesso:"Ci siamo riusciti, siamo arrivati, il Kiwu!"
Io ho addosso ancora troppa tensione, ancora ho paura che da un momento all'altro possiamo essere raggiunti da un colpo di fucile, ho paura che dalla foresta escano degli uomini armati e che tutto finisca in tragedia.
Ancora qualche decina di chilometri e scende l'oscurità.Entriamo a Bukawu e la città mi appare cambiata, in meglio direi.
Le strade continuano ad essere mal ridotte e fangose ma mi sembrano più pulite ed anche i piccoli palazzi e le case mi appaiono più ordinati ed un pò meno cadenti di due anni fa.
Non saprei, non credo che qui possa esserci stato un miglioramento, credo piuttosto che arrivare a Bukawu arrivando dalla Tanzania, dal Kenia e comunque da tutta quella parte di Africa, te la faccia vedere come l'anticamera dell'inferno, se invece a Bukawu ci arrivi attraversando proprio quell'inferno, allora può apparirti come un paradiso.
Ed ogni paradiso ha i suoi angeli.
Suor Franca e suor Annamaria ci accolgono spaventate e premurose, in un primo momento non mi riconoscono e chiedono a Diego chi  è il nuovo amico. Poi suor Franca mi guarda meglio, spalanca gli occhi e mi abbraccia.
Diego è bianco come uno straccio, quasi giallo e profonde occhiaie gli scavano il volto. Io negli ultimi quaranta giorni ho perso venti chili e sono consumato dall'infezione e dai vermi. In più siamo sporchi luridi, abbiamo le gambe che sono un unico grumo di fango e le facce coperte di polvere.
Il fango è ovunque, nella macchina e nei bagagli, nel motore e nella tenda, nelle orecchie e nella gola.
Facciamo una doccia ed andiamo a mangiare.
Siamo intontiti e confusi, ancora spaventati ma felici.
Le suore ci danno formaggio, carne e pasta e noi divoriamo tutto alla velocità della luce.
Si chiacchiera del viaggio e suor Franca ci dice che quando ha saputo che saremmo passati per Wallikalli ed Hombo ha subito pensato che non ce l'avremmo fatta, che sarebbe accaduto qualcosa di orribile, che non saremmo mai arrivati.
Il cibo mi addormenta come un potente sonnifero e mentre fumo una sigaretta nel cortile della missione, sento provenienti da dietro il muro di cinta, i ruggiti sommessi di Pazuzu.
Maledetta bestia infernale, nemmeno questa notte ti permetterò di avvicinarti, sono troppo stanco, vai da un altra parte e non farti più vedere.
Ma Pazuzu torna sempre, può allontanarsi, ma alla fine ritorna.
Per Pazuzu Bukawu è una casa, un luogo dove trova terreno fertile per i suoi sporchi comodi e mentre due occhi in una capanna si spalancano d'improvviso per il terrore, io mi addormento esausto nel letto della missione.
Non restiamo molto alla missione, abbiamo perso troppo tempo per arrivare sino a qui. Restiamo poco ma passiamo ore felici, di calma e pace.
Facciamo la consegna dei soldi che ormai è diventata un piccolo rito, poi le suore ci portano in chiesa e a far la spesa. mentre giro per le strade di Bukawu con Annamaria seduta al mio fianco, una donna dagli occhi gialli ci taglia la strada, la suora le dice di fare attenzione e questa sibilando le sputa in faccia. Suor Annamaria per tutta risposta si asciuga il viso e si apre in un candido sorriso dicendomi ch quella è una povera creatura.
Pazuzu, non sei stanco di essere sconfitto?
Ho in macchina un angelo che è anche una donna, una femmina della nostra specie che dentro di se ha tanto amore e tanta forza che il land Rover fatica ad avanzare, una creatura che vede Pazuzu ogni giorno ma che non ne ha paura, anzi, riesce a guardarlo con compassione ad annientarne lo spirito con un sorriso.
Suor Franca ci spiega come procedono le cose ad Irambo e ci spiega che mai come ora i soldi che giungono sono indispensabili. A causa della crisi economica mondiale, anche la chiesa ha deciso di tagliare i fondi alle missioni ed è probabile che molte debbano essere abbandonate a se stesse nei prossimi anni. franca ci fa sapere che lei non mollerà, che è pronta a tutto per non cedere ma che comunque i soldi giunti sono una boccata di ossigeno.
Vorrei fermarmi qui un mese ma per arrivare a Cape Town da Federica, Cecilia e Giorgio, ci sono ancora novemila chilometri.
Salutiamo le suore che ci aiutano a passare la frontiera con il Rwanda senza troppi intoppi, ci abbracciamo ed io faccio fatica a trattenere le lacrime.
Siamo usciti dal Congo, il viaggio è finito, adesso ci aspetta una lunga corsa che ci porterà dal Rwanda alla Tanzania e da lì in Malawi. Passeremo a trovare Gerardo che, fiero ed elegante, sulla soglia della sua casa di Mzuzu, lotta con i suoi demoni personali, con i demoni peggiori dell'uomo, e la sua battaglia non sarà vana perchè costituisce un importante tassello della lotta dell'uomo contro il male, contro il dolore primordiale, contro il suo destino.
Lasciamo Gerardo con amarezza, solo al centro del suo universo fatto di dolore e forza, di disperazione e coraggio.
Entriamo in Mozambico ed in pochi giorni siamo alla frontiera con il Sud Africa.
Sbrighiamo le pratiche e ripartiamo. La strada è ampia e bella, l'asfalto liscio come il velluto. Ci serviamo ad un'area di servizio per fare gasolio. Compro delle vere sigarette, una coca ghiacciata, due sacchetti di bill tong e ritiro dei soldi con la carta di credito.
E' tutto finito, siamo tornati nel nostro comodo e sicuro mondo dove tutto complotta e cospira per fare in modo che noi possiamo vivere con qualche certezza.
Non vedo l'ora di vedere Federica ed il suo grosso pancione nel quale Giorgio ascolta il cuore della mamma che batte. Sono impaziente di incontrare Michele e di ringraziarlo per tutto quello che ha fatto ospitando per un mese Federica e Cecilia, credo che non ci sia altro modo di dirgli grazie se non restando per sempre suoi amici.
Ho voglia di abbracciare Cecilia e di ripartire subito, in due per le strade del Sud Africa dove viaggiare è ancora un piacere ed un'avventura messi assieme.
Ho voglia di arrivare, di tornare a casa e stranamente Cecilia, Michele, Federica e Giorgio mi appaiono come una famiglia e per qualche mese lo saranno, saranno la mia casa.
Li ringrazio mentalmente per averci aspettato perchè senza un faro che ti guida nell'oscurità è troppo facile perdersi e da questa lunga notte in Congo, forse non saremmo mai tornati. 
Mentre guido, dopo mesi, finalmente la tensione mi abbandona, i muscoli si rilassano e la mia mente si scioglie in un pianto lungo un'ora. L'Africa mi appare lontana, scura e profonda. Il sangue mi pulsa nelle tempie battendo al ritmo del tamburo che nella foresta ha stregato i miei sogni e le lacrime che scendono lungo le mie guance sono lacrime di redenzione, sono lacrime cariche di immagini meravigliose e terrificanti, sono lacrime che scendendo portano via con se quel coraggio che mi ha fatto arrivare fino a qui. Ora Pazuzu può tornare ad importunarmi ed a cercare di divorare la mia anima ma mai potrà appropriarsi del segreto del mio coraggio, che si è radicato così in profondità che nessuno potrà mai vedere.

CONGO è la parola magica che apre le porte dell'umanità, che permette di entrare in contatto con un'essenza millenaria, più forte e profonda di mille monumenti, più imperiosa di tutti i libri del mondo. Congo è il suono del tamburo che batte il ritmo del cuore della terra e quando lo ascolti non lo puoi più dimenticare ed un giorno morirai con  quel ritmo nelle orecchie.

CONGO CONGO CONGO CONGO, batte il cuore,  all'infinito, per sempre, fino alla fine dei giorni.
Amen.


Estratto da "Masùa e Baron" di Luca Oddera

Edizioni  Ass. Amici del Sassello
Testo ed Immagini di Luca Oddera.
Grafica di Diego Assandri.
EAN:9788890078071
ISBN:8890078073




                                             
                                                                La mappa del viaggio




"Masùa e Baron"
                                                       Edizioni  Ass. Amici del Sassello



"Venditore di scimmie"
Fiume Congo, Repubblica Democratica del Congo"



"Il battello arriva"
Lisala,Fiume Congo, Repubblica Democratica del Congo"




"Tramonto"
Fiume Congo, Repubblica Democratica del Congo"



"La foresta"
 Repubblica Democratica del Congo"



"Relitti"
Kisangani, Repubblica Democratica del Congo"




"Paesaggio"
Costa Pacifica Marocchina, Sud Marocco.



"Deserto"
Tra Marocco e Mauritania



"Donne"
Niger



"Moschea"
Mauritania



"Trasporti"
Niger



"Laguna"
Benin



"Città"
Nigeria



"On the road"
Nigeria



"Defender"
Togo



"Mac Donal's"
Nord Camerun



"Donne"
Burkina Faso



"Poto poto"
Repubblica Centrafricana



"L'attraversamento dell'Ubangui"
Fiume Ubangui, R.C.A. - D.R.C.




"L'attraversamento dell'Ubangui"
Fiume Ubangui, R.C.A. - R.D.C.




"Il guado"
Tra Zongo e Ghemena, R.D.C.



"Il Bagno"
Tra Zongo e Ghemena, R.D.C.



"Specchietto retrovisore"
Tra Ghemena e Lisala, R.D.C.



"La residenza di Mobutu"
Lisala, D.R.C.



"Il balcone di Mobutu"
Lisala, R.D.C.



"Democratici Mobutisti"
Lisala,R.D.C.




"Giorno di festa"
Lisala, R.D.C.




"In posa con il vestito migliore"
Lisala, R.D.C.




"In posa con il vestito migliore"
Lisala, R.D.C.




"In posa con il vestito migliore"
Lisala, R.D.C.




"Piroghe"
Fiume Congo,R.D.C.




"Masua ekomi"
Lisala, R.D.C.




"Sul Tetto del battello"
Fiume Congo, Tra Lisala e Bumba, R.D.C.




"Masùa"
Fiume Congo, tra Bumba e Kisangani, R:D.C.




"Uomo"
Fiume Congo, tra Bumba e Kisangani, R:D.C.




"Vecchio"
Fiume Congo, tra Bumba e Kisangani, R:D.C.





"l'abbordaggio"
Fiume Congo, tra Bumba e Kisangani, R:D.C.




"L'abbordaggio"
Fiume Congo, tra Bumba e Kisangani, R:D.C.




"Pescatori al tramonto"
Fiume Congo, Lisala, R:D.C.




"Pescatori al tramonto"
Fiume Congo, Lisala, R:D.C.




"Le bateau"
Bumba, R:D:C:




"Balèniere"
Bumba, Fiume Congo, R.D.C.




"Porto di Bumba, R:D:C:




"The river"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Bambino"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.





"Fitzcarraldo"
Kisangani, D:R:C:




"Tronchi"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Pescatore"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"La cucina"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Ora di pranzo"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Pescatore"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Il Kisangani 2"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Cucinare sui tubi"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"A tavola"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Mamma"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Ciò che resta"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Ragazzi"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.





"Vogatori"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.





"Una famiglia"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Così lontano, così vicino"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"UN stuff"
Kisangani, R.D.C.




"Lull'argine"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Aerei per strada"
Tra Wale Kale e Hombo, R.D.C.




"Specchio delle mie brame"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"il Centro della guerra"
Wale Kale, R.D.C.




"Siediti sul bordo del fiume ed aspetta, vedrai.....i cadaveri dei tuoi amici scendere la corrente"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Bagnetto"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Così si cucina una scimmia"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




""Lei cucina"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Nidi per  serpenti"
Fiume Congo, Tra Lisala e Kisangani, R.D.C.




"Vecchio porto"
Kisangani, R.D.C.





"La cattedrale"
Kisangani, R.D.C.




"Di passaggio"
Hombo, D.R.C.










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