martedì 12 marzo 2019

BARON


Mi chiamo Baron, o per lo meno Baron è uno dei miei nomi, gli altri si sono persi o non me li ricordo, che poi è la stessa cosa. 
Magari qualcuno me lo ricordo ma non li voglio dire. 
Mica si può scherzare con i nomi.
Sono una cosa seria, anzi serissima. 
I nomi sono poesia per chi li pronuncia e gioia per chi li porta, musica per chi li ascolta e medicina per i guaritori. Un nome, nelle mani giuste, può uccidere o guarire, far rinascere o far ammalare. é per questo che ci sono nomi che sono segreti, nomi che conoscono solo in pochi e che altri non devono sapere e tanto meno pronunciare.
Mi ricordo che una mia vecchia zia aveva un nome che è meglio non scrivere e questo nome lo conoscevano solo le sue sorelle, un giorno, mentre era al mercato dei peperoncini le si avvicina una ragazza mai vista con aria spavalda la guarda e le dice :"io lo so come ti chiami tu, tu sei ..." e pronuncia il suo nome segreto sibilandolo tra i denti come farebbe un serpente se sapesse parlare. La mia vecchia zia non ebbe nemmeno il tempo di reagire, piombò a terra come un sasso. 
Si riprese solo due settimane dopo. Ci volle l'aiuto di tre guaritori e il supporto di tutta la famiglia. 
E' per questo che io dico sempre "Chiamatemi Baron, Baron e basta, grazie ed arrivederci."  
Comunque "Baron" mi piace, deriva dal mio nome originario, tutti gli altri sono nomignoli o secondi e terzi nomi, nomi di famiglia o di quartiere, nomi che si usano in determinate circostanze o solo per certi periodi, nomi di cortesia o di scherno, nomi di riconoscimento o di appartenenza. 
Ma "Baron" va bene, benissimo, mi ammanta di un'aura di nobiltà e fierezza che altrimenti non potrei avere.
Sono nato povero, che comunque a Kinshasa non è una condizione particolarmente strana, si insomma, se sei povero sei nella norma. Una baracca di lamiere e cartoni, un pavimento in terra ma rialzato e asciutto, sei fratelli e due sorelle padre e madre.
Mio padre è morto quando avevo otto anni. 
Una mattina sei uomini del quartiere hanno portato a casa il suo cadavere avvolto in una coperta e trasportato a bordo di una carriola senza gomma. 
Spingendo in quattro la carriola su per la salita di fango scivolando e bestemmiando, proprio quando noi piccoli siamo usciti a vedere cosa succedeva, la carriola si impunta e si gira su un fianco e mio padre, il cadavere di mio padre, si rovescia, sguscia fuori dalla coperta e rimane lì, a faccia in giù nel fango.
Questa scena mi ha colpito più della morte, mi ha lasciato esterrefatto.
Le mie sorelle hanno pianto una settimana e non smettevano mai di raccontare e raccontarsi quanto il papà fosse buono e bello. La mamma ha portato il lutto per un anno e la sorprendevo a piangere di nascosto mentre pestava il mais o mentre scopava la casa. I miei fratelli hanno preso sette sbronze consecutive, laggiù nella baracca della Primus, a raccontare ed a farsi raccontare le mirabolanti avventure del babbo quando era in vita. Avventure inventate, avventure da birra e da sbronza, avventure solo immaginate. 
In realtà la morte di mio padre è stata una grande fortuna per tutta la famiglia.
Zio Françoise ci ha adottato un mese dopo, veramente siamo noi che abbiamo adottato lui perché in realtà era senza famiglia.
Zio Françoise aveva una moglie ma quella qualche anno prima era diventata matta ed era diventata un'adulta che si comportava come una bambina di cinque anni. 
Zio Françoise è ricco, ricco per i canoni del nostro quartiere, può comprare alcune cose che non servono, come la radio, un terzo o un quarto paio di pantaloni, le scarpe, collane e bracciali in finto oro, l'orologio da polso. E poi ha la macchina, senza i vetri laterali ma tanto fa sempre caldo. La sua ricchezza si vede soprattutto dal fatto che quando beve la birra non beve Primus come gli altri uomini del quartiere, no, lui beve Heineken ed in mancanza di quella qualunque birra basta che sia di importazione. E poi lo zio in casa ha il generatore, due lampadine una vecchia ed enorme tv con la parabola e, lusso dei lussi, un frigo grosso come un armadio, legato con una catena che ci gira attorno e fermata con un lucchetto. Quando vengono amici importanti e quasi tutti i sabati sera anche se non viene nessuno, lo zio mette la benzina nel generatore, mette in moto e poi accende tutto, le due luci, una sotto il portico ed una nella sala con i divani, la radio messa in bella mostra nel giardino e la tv in sala. Il frigo viene liberato dalle catene e riempito di birra e coca cola. Mica roba qualunque, Heineken e Coca Cola, "Purissime" dice lui. Il volume di radio e tv deve essere al massimo, così che tutti sentano ma anche per coprire il rumore prodotto dal motore del generatore che strilla come un'aquila.
Un vicino dello zio ha aperto li attaccato un baretto che è piuttosto frequentato perché arriva un po’ della luce del portico e si sente la musica della radio in cortile. Allo zio non da fastidio, ogni tanto ci va anche lui a fare due chiacchiere con gli avventori; però si porta la sua birra.
Così, qualche mese dopo la morte di papà, abbiamo smontato la nostra baracca, abbiamo fatto su lamiere, stracci, pentola e legname e ci siamo trasferiti nel cortile dello zio.
Lo zio aveva una bella casa, fatta di mattoni grigi e un tetto vero e poi un cortile con tre alberi ed una specie di muro che recintava la sua proprietà. La casa non aveva le porte e le finestre ma lo zio Françoise diceva sempre che presto le avrebbe fatte mettere, aspettava sempre che certi suoi affari gli andassero per il verso giusto.
Poi noi ci siamo stabiliti nel cortile con la nostra baracca di assi e lamiere e lui ha preso la mamma a vivere in casa.
Devo dire che siamo stati proprio fortunati. 
Lo zio Françoise ci ha fatto studiare tutti quanti e a causa di questo, credo, non ha mai più messo porte e finestre alla casa. 
Quando ci spostammo pioveva forte, era uno di quei giorni che tutta l'acqua del fiume sembra salire in cielo come nebbia per poi caderci sulle teste e pulire le lamiere e scrostare le assi dal fango e scavare canali profondi come burroni nelle strade. 
Così spostarci non fu una cosa divertente come mi ero aspettato. 
Fango dappertutto, acqua ovunque e anche un po’ di freddo. Mi ricordo che mi feci un bel taglio con una lamiera, un taglio alla mano. Mamma lo guardò, il taglio intendo, lo guardò e mi disse che non era nulla, di farci la pipì sopra e che più tardi me lo avrebbe medicato con un po’ d'erba.
Così lavorammo tutti per una giornata intera. Lo zio non venne ad aiutarci ma mandò due uomini che ogni tanto lavoravano per lui e, a dir tutta la verità, furono loro a fare il grosso del lavoro. Mamma trasportava cibi, quel poco che c'era, la pentola e due tazze e poco altro. Noi piccoli i bidoni per l'acqua vuoti ed i vestiti che avevamo addosso, tanto erano gli unici vestiti che possedevamo. Piedi nel fango e teste sotto la pioggia.
Verso sera ci raccogliemmo tutti sotto al portico di zio Françoise a guardare la pioggia ed a cercare di capire dove avremmo dormito quelle prime notti in attesa di rimettere assieme la nostra casa-baracca. La mamma fece fuoco e si mise a cucinare quel poco di manioca e di riso che ci era rimasto, credo per cercare di sdebitarsi con lo zio.
Io mi ricordo che guardavo fuori, attraverso la spessa coltre d'acqua che scendeva come una cascata, guardavo il cortile e quel mucchio di assi e lamiere arrugginite e storte che era la nostra casa. Come era possibile che quel cumulo di spazzatura si sarebbe presto trasformato in una casa? 
Rimasi soprattutto colpito dal fatto che quell'orribile e triste mucchio di spazzatura, fino al giorno prima fosse stato effettivamente la nostra casa, la casa che tanto amavo, la casa nella quale ero cresciuto. Un lampo mi attraversò la mente: tutto il mio vecchio quartiere e, a ben pensare, tutta una grossa fetta di città era fatta esattamente come casa mia. Mi prese lo sconforto. Con la casa , la mia casa, ridotta a quella maniera, mi appariva chiaro che tutta la città era un enorme mucchio di spazzatura, una distesa quasi infinita di spazzatura più o meno ordinata in cui la gente viveva, cresceva e moriva, come aveva fatto papà. Niente a che vedere con la zona del centro dove ero stato due volte e soprattutto niente a che vedere con le città che si vedevano alla tv. 
Mi sentii perso ed impaurito e mi avvicinai a mia mamma che cucinava e piansi attaccato alla sua gonna. La mamma mi guardò e non fece nulla, non mi scacciò ma nemmeno mi compianse. Credo che avesse i miei stessi pensieri ma nessuno a cui dirli e nessuno cui avvicinarsi per piangere.


Fatto sta che ci trasferimmo li. La casetta fu ricostruita in pochi giorni e noi ci spostammo tutti li dentro in un bel giorno di sole, tutti tranne la mamma che rimase a vivere in casa con lo zio e la moglie dello zio, quella matta.
Dieci anni ho vissuto in quel posto, dieci anni in cui lo zio ci ha trattati come figli, dieci anni in cui ha trattato la mamma meglio di sua moglie. 
Ho potuto frequentare la scuola e poi fare dei lavori per certi bianchi che mi pagavano il triplo di quanto avrei potuto prendere da un nero. Lo zio conosceva molti bianchi, qualcuno addirittura veniva a trovarlo a casa il sabato sera, ma quelli più ricchi ed importanti non venivano mai, quelli era lo zio che doveva andare a trovarli. E ci andava spesso.
Faceva commerci, procurava mano d'opera e intrallazzava un po’, procurava cose e aggiustava situazioni e loro in cambio lo pagavano in denaro o in favori.
Uno di questi favori fu farmi entrare a lavorare al porto appena finita la scuola. 
In porto ero uno dei più giovani ma anche uno dei più grossi e quindi tutti mi trattavano con rispetto. Così grazie allo zio ebbi uno stipendio quasi fisso e grazie ai suoi insegnamenti cominciai a commerciare. Non fu molto difficile, cominciai scoprendo che, senza chiederlo, chi voleva attraccare o caricare e scaricare più rapidamente, mi regalava della merce ed io facevo in modo che tutto filasse veloce e liscio. Questa merce dapprima la portavo allo zio ma poi lui mi spiegò che potevo facilmente trovare persone disposte a comprarla.
Così cominciai a commerciare cose.
In più scoprii che giù lungo il fiume arrivavano barche e navi piene di cose strane e nuove. 
Mi misi a comprare l'artigianato migliore ed aprii un mio negozio giù al mercato dove misi mia sorella a vendere, poi ne aprii uno di frutta al mercato degli alimenti. Quest'ultimo fu quello che rese più soldi. All'arrivo delle merci in porto sceglievo le migliori e le pagavo meno di chiunque, poi le aggiungevo ai regali che mi venivano fatti e portavo tutto a mio fratello al mercato e lui non faceva in tempo ad esporre la roba che già era venduta.
Al porto arrivavano barche e navi che percorrevano migliaia e migliaia di chilometri attraversando la foresta, risalivano il grande Zaire su, su fino a Kisangani e a volte anche un poco oltre. Quell'immenso e maestoso fiume mi attirava come una calamita, sentivo parlare di città favolose come Mbandaka con il suo immenso giardino botanico, di Lisala, la superba città in cui nacque il nostro presidente e poi di Bumba e di mille altri porti, piccoli e grandi, di luoghi dove i maghi solcavano le acque a cavallo di enormi uccelli, di animali mai visti e di ricchezze immense, di pesci, aquile e streghe, di donne bellissime che salivano sulle navi completamente nude per contrattare banane e cocchi.
I racconti non smettevano mai, più a nord il fiume diventava grande come il mare ed i temporali erano così forti che se non ti tappavi occhi ed orecchie potevi diventare sordo o perdere la vista. Racconti di scimmie quasi umane, capaci di parlare e far di conto, di uomini appartenenti a tribù dimenticate che erano pelosi come animali e avevano gli occhi gialli ma comandavano le api e facevano il miele migliore del mondo.
Questi racconti mi incantavano, mi estasiavano e mi rapivano.
Così riuscii a mettere via abbastanza soldi da pagare l'anticipo per comprarmi una chiatta da carico. 
Dio solo sa cosa avrei dato e cosa darei per comprarmi una barca spingitrice, ma nemmeno in dieci vite si possono accumulare tutti quei soldi.
Comunque all'età di vent’otto anni riuscii a comprarmi la mia chiatta, ad indebitarmi per almeno dieci anni, a far prendere il mio posto di lavoro a mio fratello ed a partire verso nord sull’immenso fiume.

Affittai la mia chiatta e la mia persona ad un francese della città, uno che possedeva non uno ma quattro spingitori.
Il francese aveva il suo spingitore, il suo equipaggio ed i suoi contatti. io ricevevo una minuscola percentuale dei guadagni sul trasporto della merce che veniva posata sulla mia chiatta e lui si arricchiva. Comunque fu un buon affare. Mi ritrovai sul fiume, legato ad altre cinque chiatte e spinto da un potente motore diesel John Deer nuovo di zecca.
Di fronte a me l'infinito, sotto le acque marroni del grande Zaire, sopra il cielo blu e tutto attorno l'immensa foresta che mi circondava per migliaia di chilometri, facendomi sentire a volte smarrito ed a volte protetto.
Ero in pace con me stesso, diretto a nord-est immerso nei miei pensieri e sempre più dentro a quel nuovo e grande mondo.



Il fiume è grande, immenso, largo quanto una regione e scuro come la notte. 
Era la mia prima volta, ero partito due mesi prima da Kinshasa e tra qualche giorno avremmo fatto una breve tappa a Lisala a scaricare cento casse di birra e una chiatta per i grimm.
Quell'immensa massa di acqua marrone che non scende ma scivola, calda come l'olio e tiepida come la notte, da una specie di strana assuefazione.
Il pusseur, che quella volta si chiamava Shirkiana, procede con potenza ma molto lentamente, tre quattro chilometri all'ora, che sembrano dieci quando guardi l'acqua che scorre in senso contrario. Quando poi alzi lo sguardo verso il muro verde della foresta ti rendi conto della straordinaria lentezza alla quale ci si muove.
Il lentissimo scorrere della vegetazione e delle torbide acque del fiume si fanno strada nelle teste delle persone che vivono sulle chiatte e sul Shirkiana. Tutto si rallenta, movimenti e pensieri, gesti e sguardi.
Accendere i fuochi al mattino è un rito che sulla terraferma dura al massimo dieci minuti, qui può protrarsi anche per mezz'ora o più.
Stendere i cavi di acciaio ed arrotolarli e trascinarli al loro posto è una pratica che tra parole e gesti può portare via anche un'ora.
Ed intanto il fiume scorre, mesto ma inarrestabile ed i motori combattono quindici sedici ore al giorno contro questa immensa forza.
Due uomini dell'equipaggio passano le ore accovacciati sui sacchi di mais sulla poppa della prima chiatta, con gli occhi sempre vigili e con gli scandagli sempre pronti. Questo immenso essere che è il fiume è un essere basso, pericoloso per le secche di sabbia e talvolta di rocce.
Ci si abitua a tutto, anche a stare qui sopra, a sopportare i cinquanta gradi di giorno che rendono bollenti le superfici di ferro e sciolgono i nylon stesi a riparo della merce, ci si abitua agli improvvisi temporali di tempesta che obbligano il comandante ad arenarsi contro alla foresta risvegliando il sonno di milioni di creature grandi e piccole. Ci si abitua ad essere strappati al sonno da una folata di vento impetuoso che strappa le coperture e ti lascia alla mercé della pioggia che ti sbatte addosso come una frusta, ci si abitua a rintanarci come topi con i topi nelle anguste stive impestate di pidocchi del mais, ratti e zanzare.
Insomma, ci si abitua a tutto. io però non riesco ad abituarmi all'assenza di qualcuno che mi stia accanto, di una donna che non mi consoli solo una notte ma che mi scaldi il cuore ed il letto tutte le notti e la colazione la mattina e la cena la sera. 
Feci da solo il primo viaggio, o consegna come la chiamano qui, poi portai con me Francine.
Francine era una delle donne che frequentavo più spesso quando ancora lavoravo in porto a Kinshasa e scelsi proprio lei perché quando tornai al porto dopo cinque mesi la trovai là, sul molo, un po’ in disparte, vestita così bene che quasi non la riconoscevo e con gli occhi lucidi e le labbra tremanti dall'emozione. Proprio come un'amante, proprio come una moglie.
A Kinshasa
 bianchi non se ne vedevano poi molti, ma comunque c'erano ed io ne incontravo molti, sin da bambino ero stato abituato alla loro presenza dal fatto che lo zio Françoise faceva affari con loro ed addirittura aveva degli amici che portavano le famiglie a cena da noi.
Sul fiume in dieci anni non ne ho mai visto uno, o meglio, tre.
Due preti missionari in fuga dalla guerra durante la mia seconda consegna ed un ragazzo bianco come il latte durante il viaggio della mia ottava consegna. Insomma, tre bianchi in dieci anni sono davvero pochi. Neri neri neri. Milioni di neri che abitano questa immensa foresta ed alla quale si affacciano per vedere le chiatte che transitano, lente come lumache e lunghe come vermi giganti.
I preti in fuga li caricammo a Bumba e li lasciammo a Kisangani, dove ancora funzionava l'aeroporto, una settimana dopo.
L'altro bianco, un italiano, di nome Paolo, salì con noi sul convoglio prima ancora di partire da Kinshasa e ci rimase fino su a KIsangani, restò con noi più di tre mesi.
Questa cosa di non incontrare bianchi mi ha sempre fatto un certo effetto, mi sembrava strano che non ci fossero loro a dare consigli, ordinare e comandare e mettere ordine come facevano sia a Kinshasa che a Kisangani. in effetti l'assenza di bianchi ci rendeva tutti un po’ più liberi e questo era un piacere, ma allo stesso tempo, e la cosa mi faceva davvero male, mi accorgevo che spesso il disordine e l'inefficienza la facevano da padroni.
Nei tre porti più importanti, dove Europei e Libanesi avevano il comando delle operazioni di scarico e carico tutto filava liscio e veloce. La merce entrava ed usciva dalle stive in egual misura e con la stessa rapidità, tanto che la chiatta si alzava e si abbassava di pochi cm.
Nei porti piccoli o secondari dove svolgevamo operazioni di scarico e carico di poca merce, il controllo era affidato a persone del posto e le operazioni potevano durare anche una settimana, tra urla, feriti, furtarelli e litigi. Capitava spesso che venisse scaricata merce che era appena stata fatta caricar, capitava che molta merce finisse in acqua e che altra semplicemente sparisse per qualche giorno per poi essere ritrovata nelle stive della chiatta sbagliata.
Io dirigevo al meglio le operazioni di carico e sgombro della mia chiatta dove tutto riusciva quasi sempre al meglio, ma quando un funzionario bianco mi si presentava davanti ero sempre ben felice di cedergli il posto ed andare a bermi una birra gelata o per lo meno fresca.
Kinshasa, Mbandaka e Kisangani, in tremila km di fiume erano praticamente gli unici posti dove potevi trovare una birra fresca, qualche bar, e magari un po’ di compagnia per la serata.
Tutto il resto era foresta densa e fitta, acqua marrone e di quando in quando qualche approdo per i grimm o qualche cittadina divenuta ormai solo un grande villaggio dove le cose più tecnologicamente avanzate erano i motori diesel del nostro pusseur.
Quando approdavamo alle rive scoscese di Lisala, il villaggio entrava in festa, magari erano sette otto mesi che nessun pusseur attraccava e quindi tutta la città accorreva a fare gli onori di casa ed a vedere se c'era la possibilità di acquistare o barattare qualcosa.
Fu in posti come questo che cominciai a conoscere un po’ di più il  mio paese, povero e disperato ma pieno di gente semplice, buona ed onesta. Cittadine che portavano i segni della guerra, impressi a fuoco come cicatrici indelebili. Tracce di antichi asfalti si frammezzavano a pozze di acqua stagnante e vecchie abitazioni coloniche erano diventate il rifugio di decine di famiglie.
Tutto ciò si mescolava a migliaia di capanne fatte di fango, paglia e lamiere.
l'antico porto era andato ormai in rovina e talmente mal ridotto da far preferire l'attracco direttamente alle sponde terrose del fiume.
Gente così povera che non sapeva nemmeno cosa fosse la ricchezza, persone che guardavano il nostro pusseur come se fosse una nave scintillante venuta dallo spazio.
In queste vecchie città non esisteva nemmeno la possibilità di cercare un bar o una pensione, la nostra vita sulle chiatte rimaneva immutata, come se fossimo in navigazione.
Eppure in tutto questo sentivi un cuore nero e potente che pulsava, come un grande essere la foresta viveva ed il fiume con i suoi mille canali erano le vene e le arterie e noi piccoli esseri parassiti di questo grande corpo.

Io non ho mai avuto paura di morire, perché mi hanno sempre insegnato che la morte fa parte di noi e non ne possiamo fare a meno, anzi, senza di lei non esisteremmo. Eppure, delle notti, aggrappati alle sponde del fiume, legati come prigionieri ai grandi alberi della foresta, quando il nostro convoglio se ne stava allacciato contro le nere pareti di quel bosco immenso,avevo paura, a volte provavo terrore.
Stavamo lì, tutta la notte, nel cuore allo stesso tempo silenzioso e sommesso e caotico e rumoroso. Un frastuono muto, quasi una vibrazione, prodotta da milioni di creature disturbate dalla nostra presenza, dava voce ad una vita immensa, ad un essere sovrumano che le usa come voce ed espressione.
Così mi sentivo piccolo, indifeso e provavo il terrore della morte, il terrore di morire dentro a qualcosa di talmente immenso che era in grado non solo di farmi scomparire ma addirittura di cancellare tutto ciò che ero stato prima. L'immensa foresta, l'immenso fiume, l'immenso Congo, mi davano la certezza che era possibile che mi dissolvessi nel nulla come se niente della mia vita fosse accaduto.
Morte e solitudine.
ma allo stesso tempo mi sentivo al sicuro, come di fronte ad un fuoco che arde nel cortile di casa tua ed i tuoi cari lì vicino. Sicurezza ed amore animale come quelli che si provano senza saperlo quando si è nel ventre della propria madre.

La foresta mi soffiava addosso il suo alito, fragrante e pestifero di volta in volta, a secondo del suo umore o dei miei stati d'animo. Se non riesci ad entrare in sintonia con questo respiro rischi di soffocare, rischi dei essere sopraffatto dalle tue paure, dalle malattie e dalla morte incessante che ti circonda.

Risalendo il grande fiume ci si avvicina al cuore della foresta, al cuore del continente, al cuore della guerra e di sicuro al cuore degli uomini. Anche di quelli morti, che qui sono quasi una presenza forte come quella dei vivi.
I cadaveri, scivolano lungo la corrente come tronchi d'albero flosci, rigidi nella forma ma molli nella direzione, lascivi con le grandi radici degli alberi che si tuffano nel fiume ma ostinati con le acque che faticano a trattenerli sotto la superficie.
Capitava molto, troppo spesso di scorgere cadaveri attorcigliati dalla corrente contro qualche ansa oppure di sentirli strisciare all'imbrunire contro le basse sponde delle chiatte.
Spesso la gente li osservava scorrere lenti, senza nemmeno interrompere le faccende della giornata.
Più si arrancava verso nord- est e più gli incontri con i cadaveri erano frequenti. lassù la guerra non dava nemmeno degna sepoltura ai suoi figli.
Quasi sempre i cadaveri scendono a faccia all'ingiù e questo è un bene perché vedere la faccia dei morti porta male e fa dormire male la notte e la notte è meglio dormire perché ci sono troppi rumori nella foresta ed ascoltarli tutti si dice che porti alla pazzia.
é strano a dirsi ma di giorno la foresta pare più silenziosa.

Ho passato dieci anni a fare su e giù per questo fiume, sette consegne le ho fatte con Francine al mio fianco e poi con i due piccoli che abbiamo avuto, ma la maggior parte me le sono dovute fare da solo. Ho incontrato amici leali e persone truci e pericolose, si, molto pericolose, perché se non stai più che attento sulla tua chiatta ci possono caricare cose che sono addirittura difficili da immaginare. Noi tutti trasportiamo cose povere, merci da poco, che hanno valore solo in enormi quantità come mais o farina di manioca, ma chi può sapere cosa c'è nella stiva della chiatta di fronte?
Si racconta di personaggi padroni di chiatta e di gerenti di Pusseur che con due viaggi sono diventati mezzi ricchi e si sono ritirati, ma poi sono morti giovani di tremende malattie. 
Di sicuro una volta è stato ritrovato un pusseur con tanto di chiatte arenato su una secca in mezzo al fiume, in un canale secondario, tutte le duecento persone morte e putrefatte e mezze divorate dai rapaci. Tutti morti di una strana malattia, tutti morti rapidamente, nessuno fuggito e le stive mezze vuote.
Ecco che alle volte la morte te la trascini dietro e nemmeno lo sai.
Comandanti disposti a tutto ed equipaggi votati al sacrificio  per un pugno di dollari.
Ma in mezzo a tutto questo la maggior parte di gente che ho incontrato è gente buona, gentile, persino dolce, mille volte più solidale di quelli che vivono nelle città.
Adepti di strani ed antichi riti accostano il convogli su piroghe decorate da demoni o dei della foresta, qualcuno maledice il convoglio e poi fugge aiutato dalla corrente per evitare gli sputi o il linciaggio. Altri accostano per benedire il viaggio e per toccare il ferro che è un elemento che si dice porti buona sorte.
Ma la maggior parte degli abitanti della foresta accosta le chiatte in movimento per fare baratto e commercio.
Scimmie in cambio di abiti, aquile da cibo in cambio di scarpe, tamburi in cambio di polli e poi pesce e manioca, olio di palma e chicuan in cambio di qualche franco.
E noi lì, a continuare il nostro viaggio rosicchiando scimmie magre come chiodi e non grassi polli perché anche se sai che non è vero, ti convinci che è meglio, ti convinci che la scimmia ti da forza e l'aquila coraggio, il verme nutrimento e l'acqua del fiume longevità.
Quando passo qualche settimana in città mi rendo conto della follia di tutto ciò, mi rendo conto che in mezzo al cuore della foresta il mondo si capovolge, la scienza scompare e lo spirito prende il sopravvento sulla carne e l'animale sull'uomo, l'istinto diventa primario e la ragione una cosa buona per i bambini.
Così, seduto in un ristorante di Kinshasa capisco che la scimmia non ha carne e porta malattie, che l'aquila non da coraggio ma ci vuole coraggio per mangiarne la dura carne, che una bistecca è meglio di dieci vermi e che l'acqua del fiume ci fa crepare giovani.
Poi, un mese dopo sono lì, a scambiare un pollo sano con una pentola di vermi, a tirare su l'acqua dal fiume con un secchiello sudicio ed a osservare la foresta che scorre, lenta come i miei pensieri e grande come un continente. 
Da lì, in mezzo al fiume, con fatica, ripenso a me, ben vestito, seduto in un discreto ristorante di Kinshasa e mi vedo come una femminuccia, flaccido e debole, circondato dagli agi e mosso dagli ozi. Tutto si rovescia e si capovolge, ad ogni partenza, ad ogni arrivo mi sento sempre diverso e meno propenso a capire ma sempre più disposto ad accettare l'esistenza di due persone dentro allo stesso corpo.
Queste piccole cose fanno parte della magia, parte del regno magico che almeno due volte all'anno attraverso e con il quale mi confronto. Fatica e paura, gioia e speranza sono le forze che mi fanno continuare.

All'ottava consegna della mia vita, dopo un mese di navigazione, ormai avevo stretto amicizia con Paolo, l'italiano fece tutto il viaggio con noi. Paolo si trovava bene con me, parlava con tutti e viveva proprio come noi, infatti si prese malaria, vermi, infezioni e funghi, tutti più di una volta e tutti durante un solo viaggio.
Parlavamo spesso,  e spesso si mangiava assieme, lui comprava un po’ di roba dalle piroghe ed io ci mettevo legna e cuoca.
Non riuscivo bene a capire perché Paolo fosse lì con tutti noi su quella chiatta. 
Era una domanda che gli facevo spesso e lui alle volte sembrava addirittura non capire, altre mi rispondeva che era lì per lo stesso motivo per cui c'ero anch'io. Ma a me i conti non mi tornavano. Proprio no. Io ero lì perché era il mio lavoro!
Quando rispondevo così Paolo mi diceva che lavorare per lavorare avrei potuto farlo a Kinshasa magari anche vicino a casa.
Capivo solo ogni tanto che aveva ragione, lo capivo solo qualche volta perché spesso, dovevo mentirmi. Insomma, la vita sulla chiatta era estremamente dura ed io dovevo credere che ci fossi costretto, altrimenti non lo avrei sopportato. Altre volte, quello che invece mi faceva resistere era esattamente l'opposto, ovvero sapere che era una vita che mi ero scelto ed allo stesso modo avrei potuto sceglierne una diversa.
Paolo, quando lo incontrai, erano due anni che girava per tutto il continente, aveva visto posti che noi sulla chiatta non potevamo nemmeno immaginare ed arrivato a Kisangani avrebbe continuato il suo viaggio mentre tutti noi saremmo tornati indietro.
quante volte la sera, sul tetto del pusseur o sulla poppa della prima chiatta ho fantasticato di scendere a Kisangani e poi di proseguire il mio viaggio fino ai confini dello stato e poi proseguire oltre, magari arrivare al mare e poi continuare, a nord o a sud, oppure salire su una nave ed andare verso l'Asia. Comunque non potevo, il mio passaporto, come il novanta per cento dei passaporti congolesi, non era valido per l'espatrio.
Paolo sul suo passaporto aveva decine di visti e timbri e me lo fece vedere più di una volta. Un Bellissimo passaporto viola, spesso il doppio del mio ed all'apparenza molto più come dire... serioso.
Il mio passaporto era verde e sottile, sgualcito e vecchio e con solo qualche timbro di Brazzaville, l'unico posto in cui mi era concesso di andare.
In somma, Paolo era, se avevo capito bene, una specie di esploratore moderno, era, a dirla alla congolese, "in missione di esplorazione". Però era un esploratore senza capi ne padroni, senza rotta ne destinazione. In ogni momento poteva decidere di fermarsi o di cambiare strada e meta. Tutto questo mi appariva bello da un lato ma terribile da un altro. La libertà totale di cui godeva quel ragazzo, a dir la verità un po’ mi spaventava. Non credo sia molto facile arrivare ad un bivio e dover decidere da che parte svoltare senza avere ne pressioni ne consigli, dover capire semplicemente da che parte vuole girare il tuo cuore. Quale sarà mai la scelta giusta? Non esiste la scelta giusta, e qui sta la difficoltà.
Comunque Paolo sapeva tante cose, aveva lavorato in tanti paesi diversi ed aveva viaggiato tanto ed a me faceva piacere starlo ad ascoltare la sera dopo mangiato.
Storie lunghe e storie brevi, storie interessanti e storie noiose, storie magiche e storie troppo vere per essere vere per davvero. Tutti i suoi racconti facevano capo alla fine allo stesso argomento, ovvero che non aveva mai trovato un continente come questo, così disastrato, così inesplorato, così difficile ma allo stesso tempo così bello ed ospitale.
Una sera Paolo fece qualcosa che cambiò radicalmente la mia vita.
Essendo bianco aveva dei privilegi scontati. Essendo io suo amico avevo dei privilegi scontati.
Ad esempio Paolo poteva passare tutta la giornata e anche la notte su piano superiore del pusseur,meno al caldo di giorno e più lontano dagli insetti di notte. Io potevo andarlo a trovare quando volevo ed al tramonto, mentre Francine cucinava andavamo sul tetto del Pusseur a guardare il tramonto ed a parlare lui dell'Italia ed io della mia terra. 
Una sera, mentre eravamo lì, accovacciati a guardare il fiume Paolo tira fuori dallo zaino tre grossi fogli ripiegati, li stende sulle lamiere del tetto, li compone uno con l'altro li tiene fermi ai bordi con scarpe accendino ed un libro e poi, indicando un punto in mezzo a quei quattro metri quadrati di carta, mi dice: "Guarda, più o meno noi siamo qui!"
"Qui dove?" gli faccio io?
"Qui sul fiume vedi? Qui c'è Kinshasa, Qui Kisangani e Qui, dov'è, ah si ecco, qui Bumba e qui Lisala."
"Ma veramente non..."
Poi ho come un'illuminazione.
Carte geografiche ne avevo viste, ne ricordo una dell'esercito dove si vedevano tutte le strade ed i villaggi del sud Kiwu, un'altra che aveva un amico di Kinshasa dove erano riportate strade e fiumi della zona sud della provincia dell'Equateur ed una di Kinshasa dove c'erano segnati anche i nomi delle strade, anche nomi che nemmeno io conoscevo.
Ma quello che avevo davanti era incredibile.
Avevo di fronte a me le tre carte della Michelin,  che compongono l'Africa per intero ed io ero la in mezzo, senza saperlo nel cuore di quell'immenso continente.
"E l'Italia dov'è?" Gli chiesi.
"Beh, l'Italia" mi rispose Paolo "è quassù, non si vede, ma è proprio qui, vedi, una decina di centimetri oltre al bordo della mappa."
"E quanti chilometri sono da qui a lì?" gli chiesi.
"Non saprei, tanti, direi almeno diecimila, in aria magari, con l'aereo sei o settemila, ma per strada forse anche dodici o tredici."


Ciò che mi cambiò la vita fu che Paolo quella sera mi regalò le sue carte ed io le custodii come un tesoro per diversi anni e le guardai così tante volte che la carta nelle pieghe si consumò e divenne fragile e cominciò a strapparsi e dovetti fare mille pezze con lo scotch trasparente.
Le guardai così tante volte che conoscevo nomi e confini a memoria, riconoscevo strade e frontiere a colpo d'occhio.
Le guardai così tante volte che dopo sette anni decisi che era l'ora di scendere dalla chiatta e partire per l'Italia, ero partito lungo il fiume per conoscere la mia nazione e per entrare nel cuore della mia terra, adesso volevo vedere il continente intero ed uscirne fuori e capire cose che altrimenti non avrei mai capito.  




Mi ci vollero due anni interi per riuscire a sbarcare a Lisala, due anni di pratiche, documenti e piaceri fatti e ricevuti, mi ci volle tutto il coraggio e la tenacia di cui ero capace.
Così quando il convoglio accostò alle rive terrose del porto di Lisala io saltai giù con uno zaino in spalla, una carta di credito in tasca e, ben nascosto nelle mutande un pacchetto di dollari nuovi fiammanti.
Non mi voltai, non potevo, avevo gli occhi inondati di lacrime e così camminai senza voltarmi a testa bassa.
Sapevo che sulla chiatta c'erano i miei due fratelli che salutavano e soprattutto Francine che piangeva.
Percorsi tutto il piazzale di terra e poi svoltai su per la strada fangosa, girai attorno agli alberi che mi nascondevano la vista del fiume e del convoglio e da lì alzai la testa per guardare avanti, con gli occhi pieni di lacrime guardai avanti e da quel momento, per molto tempo non mi voltai più in dietro, nemmeno una volta.


"Facile come bere un bicchiere d'acqua." Disse con sicurezza Chef. "Arrivi giù all'incrocio, quello con la polizia con la camicia gialla, svolti a destra, trovi Place Emerità, svolti a sinistra e poi vai sempre dritto."
"Ma..." intervengo io "...sono settecento Km, scusa ma io intendevo..."
"Ma che cazzo dici Chef, uscire dal villaggio lo sa fare anche un bambino." ci interruppe Donato, "il problema secondo me è come muoversi, a piedi magari o con una moto, in bici forse."
"Che cavolo dici tu"lo sgridò Chef, "e non usare quelle parole, cazzo o roba del genere davanti a me non lo puoi dire, soprattutto in casa mia mentre ho degli ospiti. Comunque basta prendere un camion."
"Sii. Un camion del passato," disse ridendo Donato "il camion dei tuoi sogni, saranno dieci anni che dall'Ubangui non arriva un mezzo a quattro ruote e se è per questo nemmeno da Gemena. Mi pare che quattro anni fa è venuto giù un trattore con il carro da Tanga e ci ha messo così tanto che alla fine l'autista, un mese dopo se n'è tornato su con un motorino ed ha lasciato qui il trattore. Credo lo abbiano licenziato o peggio, comunque nessuno è più venuto a prenderselo, è laggiù che marcisce nel piazzale di Bienvenue." Detto questo Donato si abbandonò sullo schienale della sedia e guardò oltre il recinto della casa.
"Ma quindi cosa mi conviene fare signor Donato?" Chiesi io.
"Ti conviene cominciare a cercare un passaggio" Mi rispose prontamente Chef.
"Un passaggio inventato", lo pungolò ironicamente Donato "visto che nessuno va su da almeno due anni. Potresti cercare qualcuno che se la sente di provare in motorino ma non sarà facile, troppi rischi, se lo trovi ti chiede un sacco di soldi e poi magari alla prima opportunità scappa indietro. Per me la cosa migliore è che resti qui con noi fino a che non passa qualche Masùa che scende verso Kinshasa ci salti su e tanti saluti." Detto questo Donato si alzò per stirarsi la schiena ed intanto sbirciò con lo sguardo giù, lontano verso la strada.
"Bella soluzione," disse con sufficienza Chef, "come faccio a mangiare se ho fame? Beh la miglior soluzione è tenerti la fame e non mangiare. Bella risposta. Bravo Donato."
"Ma se non c'è niente da mangiare" disse Donato divertito continuando a cercare qualcosa con lo sguardo oltre la recinzione," è la sola risposta. Realismo caro, realismo."
"Realismo un bel corno, a ragionare così ci rimetti la pelle al primo problema. Del resto tu dormi in una baracca che non ha nemmeno il tetto, io in una casa e quando piove mica te ne stai sotto l'acqua, vieni qui e dormi sotto alle mie lamiere." Disse Chef con finta aria arrabbiata.
"Appunto, vengo qui e dormo sotto le tue lamiere, problema risolto senza dover costruire la casa." Rispose Donato con una punta di soddisfazione nella voce.
"Tu! non costruisci la casa, qualcun altro si, ad esempio io." Disse Chef.
"Se tu, tu non hai costruito un bel niente," riprese Donato sempre guardando altrove, "questa l’hanno fatta i belgi, è già tanto che tu non te la sei fatta cadere sulla testa in questi anni."
"Spero che il giorno che viene giù ci sia anche tu a godere del riparo delle mie lamiere e che una ti tagli di netto la testa." Gli fece eco Chef strizzando l'occhio nella mia direzione.
"Comprarmi magari una bicicletta e provare con quella cosa ne dite?" Chiesi io che non ascoltavo molto i loro discorsi ma cercavo qualche buon consiglio per risolvere il mio problema. "Da quello che ho sentito in questi giorni" continuai "mi pare la soluzione più logica. La migliore insomma."
"Con il motorino ci si mettevano cinque sei giorni" mi disse Donato, "e la strada sarà peggiorata in questi anni, ti ci vorranno una o due settimane a parer mio".
"Beh, di Tempo ne ho." gli dissi pensando che forse ne avevo persino troppo.
"Ma che due settimane" sbottò Chef, "e che cacchio, mica deve scendere all'inferno, secondo me in tre quattro giorni è arrivato."
"Magari mi cadesse addosso la casa e mi si staccasse la testa" disse Donato sorridendo rivolto a me, "così non sentirei più certe stupidaggini. Aprite le finestre e fate uscire le idiozie che ne siamo circondati..."
"Ma se siamo all'aperto grosso stupido" gli disse Chef, "e poi vedo più idioti che idiozie ed in quel caso sono più adatte le porte che le finestre."
"Comunque, quattro giorni o tre settimane" continuò Donato facendo finta di non aver sentito, "la bici da queste parti è sempre la soluzione migliore se te la puoi permettere. E tu te la puoi permettere?" Mi chiese guardandomi di sottecchi come per studiare a fondo la mia risposta.
"Dipende", risposi "conoscete qualcuno che vende una bici?"
"Beh dipende da quanto sei disposto a pagare" mi disse Donato guardando Chef con aria di intesa, "se paghi bene praticamente tutte le bici della città sono in vendita". Mi disse sempre guardando Chef, e poi mi guardò dritto negli occhi dicendomi:"Quaranta dollari e te ne porto una qui subito, con tanto di pedali  manubrio portapacchi e sellino di lana."
"Freni?" Chiesi io tempestivamente.
"Freni niente" intervenne Chef, "non chiedere troppo, tanto qui non vai mai così forte da dover frenare. Forse a Kinshasa sulle bici c'è bisogno dei freni, qui proprio no".
"Trenta dollari prendere o lasciare." Dissi rivolto a Chef, tanto ormai avevo capito che quei due li facevano assieme.
"Trentasette perché sei amico dello chef". Mi disse Donato.
"Altrimenti ti faceva venti da subito." Disse Chef ridendo. 
"Trentadue." Dissi con poca convinzione. Normalmente ero un ottimo contrattatore ma insomma, questi uomini mi avevano accolto come un amico e non mi andava di fare il pidocchio con loro, ma non mi andava nemmeno di calarmi subito i pantaloni.
"Trentacinque oppure ti arrangi e te la vai a cercare da solo." Rispose Donato.
"Trentatré". Proposi.
"E dai, non fare il miserabile, Se arrivi in R.C.A. la rivendi a settanta ottanta dollari." Disse Chef.
"Trentatré." Ripetei.
"Trentaquattro" Disse Donato con aria afflitta, quasi da cane bastonato. 
"Va bene". Dissi io e ci stringemmo la mano.

Così Donato si allontanò a procurarmi una bici. 
Ormai avevo deciso, almeno fino A Zongo e magari oltre ci sarei andato in Bici, avrei proseguito pedalando e spingendo fino a dove non sarebbero ricomparse strade praticabili e camion.
Il giorno del mio arrivo a Lisala, mentre risalivo la strada fangosa che dal porto dei grimm sale alla piazza principale, per altro più fangosa ancora della strada, un ragazzo mi aveva avvicinato e mi aveva avvertito che lo chef de poste mi voleva vedere.
Mi sembrava strano essere sbarcato senza che nessuno mi chiedesse qualcosa.
Così andai alla casa dello chef e ci rimasi per quasi tre settimane.
Dopo aver tentato di estorcermi dei soldi, si era reso conto che non gli avrei dato nulla e soprattutto quando vide i visti ed i lasciapassare firmati dal illustre sig. Presidente in persona, si era messo in testa di aver a che fare con qualcuno di importante e quindi ero diventato suo ospite. 
Quando poi, dopo qualche giorno, si rese conto che non ero proprio nessuno non ci rimase nemmeno poi tanto male, visto che comunque tutti i giorni gli raccontavo qualcosa di nuovo su Kinshasa e sulle altre città  che vivevano ma non prosperavano lungo il fiume. 
Notizie fresche per lui, anche se avevano qualche anno. 
Notizie che aumentavano la sua autorità come capo del porto e come membro del consiglio cittadino. Sembrava si stesse avviando alla carriera di saggio del villaggio e la mia presenza in casa sua ne aumentò a dismisura la credibilità.
Solo Donato gli teneva testa e lo faceva di continuo, erano amici da tanti anni che nemmeno se lo ricordavano più. Passavano tanto di quel tempo assieme a punzecchiarsi che, non fosse stato per il colore della pelle, avrebbero potuto essere scambiati per fratelli.
Donato era grande, grosso e nero come il carbone, nero come me.
Chef era giallo scuro scuro e in città tutti lo chiamavano Le Blanc. 
In realtà di sangue bianco ne aveva poco, un Portoghese tre generazioni prima, ma comunque un portoghese dai geni resistenti direi.
Chef aveva una gamba storpia rimasta così dopo quattro operazioni mica tanto riuscite, se l'era rotta cadendo dalla veranda di casa. 
Chef diceva che era buio e Donato diceva che era ubriaco.
Passavano le giornate seduti nella veranda, a discutere e ad aspettare che il tempo passasse.
Donato, grande come una montagna era sempre nervoso sudato ed agitato, non stava mai fermo, se non faceva andare la lingua muoveva freneticamente i piedi o le mani e si guardava sempre attorno come se stesse aspettando qualcuno che non arrivava mai.
Chef era più calmo e flemmatico ma una decina di tic differenti che continuamente gli deformavano la parte alta del volto tradivano la sua inquietudine.
Certo Lisala non sembrava il posto adatto per quei due.
A Lisala non c'è nulla da fare, forse un masùa ogni due mesi attracca e si ferma al massimo un giorno. Niente o quasi da caricare e niente da scaricare. 
A Lisala non si produce niente e si consuma ancor meno. 
Problemi alle strade la isolano dal mondo da ormai quindici anni. 
Un aeroporto di terra dove due volte al mese arriva e riparte un piccolo apparecchio della MONUC che di quando in quando sposta preti e poco altro.
Così questi due se ne stavano nella veranda a parlare, magari per mezza giornata attorno ad un ananas e magari ad elogiarne le qualità e magari ad inveire l'uno contro l'altro per accaparrarsi il diritto di tagliarlo.
In queste liti succedeva sempre la stessa cosa. 
Moralmente e dialetticamente vinceva sempre Donato, le decisioni le prendeva sempre Chef.
Così chef si alzava, camminava fino sul retro, prendeva il machete, tornava alla seggiola e, lentamente, molto lentamente, tagliava l'ananas e lo distribuiva con parsimonia 
Un po’ ai bambini, figli di moglie, di sorelle e di cognate, che correvano li attorno, un po’ a Donato e magari, se ne avanzava, ne mangiava una o due fette pure lui.
Tra l'altro Chef viveva credendo alla magia, ai feticci e soprattutto agli spiriti di fiume e foresta. E quindi molti dei gesti che faceva li compiva come se fossero riti, scanditi da simboli ben precisi e sempre con uno scopo che andava al di là della comprensione di Donato. 
Donato sembrava invece una specie di scienziato illuminista, pragmatico e realista come pochi altri in  città. Aveva studiato a Kinshasa ed era stato persino un mese in Belgio quando aveva tredici anni. 
Insomma si completavano l'uno con l'altro.
Certo che a volte Dio qualche stranezza la fa, e non parlo di polli con due teste o scimmie a tre code. Se proprio vai a vedere quelle sono cose quasi normali. 
No, parlo di cose come queste, di questi due che avrebbero dovuto essere un solo uomo ed invece erano un uomo diviso in due e poi parlo di me che in un solo corpo ho due persone diverse, persone che si mostrano alternandosi, l'uomo animale e l'uomo divino, l'uomo di città e l'uomo di fiume e foresta. Chissà chi avrebbe poi pedalato su quella bicicletta nei giorni che seguirono.
Comunque uomo-bestia o bestia-umana, qualcuno avrebbe pedalato il catorcio che mi aveva procurato Donato. 
I giorni a Lisala erano finiti, erano finite le passeggiate alla vecchia e mastodontica villa ormai in rovina del nostro amato Primo Presidente ed erano terminate le lunghe chiacchierate con Chef e Donato. L'indomani sarei partito, con la mia scorta di manioca, ed un po’ di chicuan già pronta.
Donato aveva preso i trentaquattro dollari della bici e me ne aveva restituiti quattro, poi mi aveva detto che se un giorno fossi tornato li, in cambio dello sconto, mi sarei dovuto fermare qualche giorno a raccontare quello che avevo visto. 
Su questo non si discuteva, avevano bisogno di notizie come il corpo ha bisogno dell'acqua. Chef e Donato mica erano due cervelli stanchi come quasi tutti gli abitanti della città.
Chef assentì con il capo e ci salutammo.
Ci salutammo da amici, quasi da fratelli ed io cominciai a pedalare, storto ed incerto, già sudato prima di aver fatto venti metri.

Attraversai Place Indipendance, scesi lungo il dissestato Boulevard, girai a destra, attraversai Place Emerità e  presi la strada verso nord. Un chilometro pedalando in Piedi con le ruote che slittavano sui crostoni di fango secco e poi scesi e cominciai a spingere bici e pacchi su e giù per una strada che sembrava più un torrente di fango in secca che una via per gli uomini.

Il periodo passato a Lisala non mi era nemmeno sembrato un periodo di allontanamento da casa. Per dieci anni avevo fatto su e giù per il maestoso Zaire e tutto ciò che stava sulle sue sponde mi appariva familiare come casa mia. 
Adesso invece mi stavo allontanando, a fatica, a tratti spingendo la pesante bicicletta ed a tratti caracollando giù lungo discese irte di pennacchi di fango secco e percorse da canaloni tanto profondi da rischiare di caderci dentro.
Il caldo ed il sole dell'Equateur sono qualcosa di assolutamente infernale, la vita si immobilizza alle undici del mattino e fino alle tre non è più in grado di riprendere il suo corso.
La vegetazione si acquieta, le foglie si ammollano  e per qualche ora danno l'idea di essere sul punto di appassire, gli animali si rintanano all'ombra cercando un refrigerio che scompare al minimo movimento del corpo. Gli uomini non sono da meno, si mettono all'ombra, sotto agli alberi nei villaggi o tra le fronde nella foresta e, proprio come animali attendono che l'inferno pomeridiano si esaurisca. Ogni attività cessa, tutto diventa silenzio e quiete bollente.
io ho tentato di proseguire anche durante le ore più calde ma in certi casi è davvero impossibile.
Nei tratti dove la strada è coperta dalla alta vegetazione degli alberi si riesce, a fatica, a camminare anche tutta la giornata, ma nelle zone di radura, nei tratti dove una vegetazione troppo bassa non riesce a coprire la strada, lì è impossibile far altro che sedersi all'ombra, cercare un po’ d'acqua e riposare ed attendere.
Quando avanzavo coperto dalle fronde il bruciore del sole mi lasciava in pace, ma l'umidità aumentava a tal punto che delle volte la sensazione era quella di essere un pesce, di avanzare in un'atmosfera densa e quasi liquida,troppo calda e soffocante per i polmoni di un uomo. Mi sembrava di respirare acqua tiepida.
Credo che un giorno, tutti gli abitanti di questa regione si trasformeranno in anfibi e piano piano torneranno strisciando verso le pozze, i laghi, le paludi ed i fiumi e qui non resteranno che insetti e piante.

Impiegai diciotto giorni per raggiungere il corso dell'Ubangui, quattro chilometri dalla R.C.A.
Non incontrai un mezzo a motore che fosse uno, solo poche e sovraccariche motorette di marca cinese talmente cariche che il più delle volte venivano spinte a mano dai tre passeggeri e quindi utilizzate più come carriole che come mezzi di trasporto.
la gente non faceva molto caso a me durante il giorno, solo all'approssimarsi delle tenebre, quando attendevo il calare della notte seduto su qualche sasso o su qualche tronco all'ingrasso del villaggio, allora si avvicinava qualcuno.
Capivano subito che ero un viandante e così tra una parola e l'altra qualcuno mi invitava a passare la notte nel suo cortile, al riparo magari di un tetto di paglia e con qualcosa da mettere sotto ai denti.
Ad onore del mio grande e povero popolo devo dire che nessuno in diciassette notti mi ha mai chiesto niente in cambio del poco che avevano da darmi. Tutti, nessuno escluso, di coloro che incontrai e che mi ospitarono,chiesero solo di ascoltare qualche storia che venisse da lontano, qualche notizia sulla povera economia del paese e se possibile qualche pettegolezzo sui segreti di palazzo a Kinshasa
Più mi allontanavo dal fiume e più mi sentivo solo e lontano da casa. Nelle brevi notti passate all'aperto o sotto qualche sconosciuto tetto di paglia, sentivo la mancanza del respiro di Francine, il russare di amici e fratelli e, inspiegabilmente sentivo la mancanza anche del sommesso brontolio dei motori diesel del pousseur e dello sciabordare lento e continuo delle acque del fiume contro al metallo delle chiatte.
Rumori che negli ultimi anni mi avevano quasi infastidito, adesso mi apparivano cari come stretti parenti e l'assenza della loro monotona e continua voce mi svuotava come una malattia.
I nuovi rumori, quello dei passi sulla dura terra, quello delle suole che risucchiano fango e quello della foresta che mi avvolge fino quasi a soffocarmi,non mi erano familiari e non credo lo sarebbero mai diventati, perché la foresta prima o poi finisce. come tutto del resto.
Gli ultimi cinque giorni furono rinfrescati da piogge notturne e temporali pomeridiani. La foresta però non da niente in cambio di niente. In pochi minuti la crosta di fango secco che ricopriva la strada si scioglieva e mantenere l'equilibrio sulla bici diventava impossibile. Camminare, spingendo la bicicletta con le ruote mezze affondate nel fango diventava un impresa.
Fango ovunque, in ogni anfratto e piega, della pelle e dei vestiti. 
Quando cessava la pioggia in poche ore tutto tornava secco e sterile lungo la carreggiata e la terra rossa creava un contrasto così netto con la vegetazione verde smeraldo che tutto intorno si aveva l'impressione di vivere in un quadro. 
Da Lisala a Gemena, da Gemena a Zongo, strade impervie e difficilissime ma nessun problema con i Barrage. 
Ad ogni entrata ed uscita di villaggio la Gendarmerie e la Police mi fermavano ma appena vedevano le mie credenziali mi facevano passare quasi con rispetto e reverenza.

nei due anni passati a preparare il mio viaggio e le mie carte e documenti ero stato bravo e fortunato.
Le mie conoscenze a Kinshasa le avevo, soprattutto tra i bianchi amici dello zio Françoise. Tramite loro conobbi persone abbastanza influenti e così riuscii ad ottenere un passaporto valido per l'espatrio, una serie di visti per quasi tutti i paesi che avrei dovuto attraversare e soprattutto un visto di sei mesi per l'Italia. Quest'ultimo mi era costato davvero caro ma adesso era lì, nella tasca interna della mia giacca, pronto ad essere vidimato.
Ma non potevo immaginare quanto fosse ancora lunga la strada per arrivare in Europa.

A Zongo ci arrivai di sera e mi diressi subito sulla sponda dell'Ubangui dove stavano le baracche dell’O.C.C., della Gendarmerie, dell'Immigration ecc ecc.
Da Kinshasa avevo il nominativo di un certo Michelle Detruit. Mi avevano detto di contattare lui che mi avrebbe fatto passare in R.C.A. senza fare problemi e senza spendere un soldo. Avevo una raccomandazione talmente importante che non avrebbe potuto esimersi dal prestare il suo aiuto. Mia mamma era la migliore amica di questo Michelle.
Arrivai troppo tardi alle baracche della sicurezza così non potei profittare dell'ospitalità che sicuramente mi avrebbe offerto Michelle.
Dormii sui gradini della veranda e la mattina, intorpidito dal duro pavimento, fui svegliato dai caldi raggi del sole. Una decina di mocciosi coperti di stracci erano attorno a me che mi osservavano come se fossi un cadavere e, quando aprii gli occhi saltarono indietro come se fossi stato un serpente che tentava di morderli.
Arrivò allora Michelle, scacciò i mocciosi e ci presentammo.

In quattro ore ero fuori dal Congo. Un record assoluto da queste parti direi.
Salutai Michelle che mi lasciò una lettera scritta da lui per un amico che viveva in Italia, salii su una piroga carica di gente ed in mezz'ora fui sulla riva destra dell'Ubangui, in terra straniera, pronto ad affrontare quello che mi aspettava.
Mentre arrancavo per la spiaggia in salita, spingendo la bicicletta nella sabbia calda, mi voltai a guardare la riva opposta del fiume, guardai il profilo dell'orizzonte pensando che quella era la mia terra e chiedendole scusa perché me ne stavo allontanando.
Mi infilai tra due catapecchie, trovai dell'asfalto sbrecciato, voltai a Destra ed il fiume e tutto ciò che lo circondava sparirono dalla mia vista. 

Estratto da "Masùa e Baron" di Luca Oddera


Edizioni  Ass. Amici del Sassello
Testo ed immagini di Luca Oddera
Grafica di Diego Assandri
EAN:9788890078071
ISBN:8890078073





  

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