RACCONTI

CANI BASTARDI E CAMMELLI MARCI
di Joseph Mwangwa
traduzione dal inglese di Pierre-Yves Raoult

Willy mangia banane vicino alle falde del vulcano, le ha trovate accanto alla porta della sua piccola casa fatta di giunchi intrecciati, fango e paglia.
Un bel cesto misto di banane, papaia e mango. 
Veramente ci sono sei banane un mango ed una papaia.
Willy, mentre sbuccia un'altra banana cerca di immaginare chi può avergli lasciato quel dono. 
Cerca impronte attorno alla casa, nella polvere umida scopata la sera prima. le impronte ci sono, ben nette e precise. 
Sono piedi di donna, sono i piedi di Teresa che hanno lasciato quelle impronte. Certo lo sapeva già, ma nono si sa mai.
Una dura serata con quelli del clan dei Cani, una dura serata di amicizia e fermentato di palma, di pacche sulle spalle, di risate fragorose e progetti per cambiare il mondo. 
Una serata di donne veloci che si strusciano come bestioline.
Era tornato alla capanna senza cedere alle lusinghe di Viola, di Mawunga, di Jane? Willy credeva di si ma non ne era mica sicuro.
A casa ci era tornato da solo, c'erano le impronte a dimostrarlo, ma prima di tornare a casa?
Le banane di Teresa erano un vero toccasana, dopo una dura notte non fa bene rimanere a stomaco vuoto. Willy era sicuro che Teresa avesse saputo della sua notte brava e proprio per questo ora quel cibo era li.
"Che donna, che creatura dolce e formidabile."
Willy doveva fare una scelta, erano mesi se non anni che doveva fare questa scelta. 
Teresa la dolce donna della sua vita lo attendeva e lui sprecava il suo tempo a gironzolare scapolo nella speranza di cosa?
Willy sapeva benissimo cosa avrebbe fatto nei prossimi giorni, si sarebbe dato una ripulita, si sarebbe iscritto all'università per finire gli studi da dottore che aveva abbandonato due anni prima e sarebbe andato da Teresa a dirle che gli sarebbe piaciuto che fosse proprio lei a preparargli la colazione tutte le mattine.
Ancora un giorno o due per dissipare i fumi delle sostanze alcholiche, per sgonfiare un pò e potersi presentare al rettore ed a lei in piena forma.
Vita lunga, figli e benessere, ecco tutto ciò che cercava.
Willy scese la scarpata fangosa, si incamminò lungo la strada segnata da profondi solchi e si diresse verso la piccola missione di Bagunda. 
Là, suor Maria lo avrebbe aiutato, lo avrebbe consigliato, sarebbe stata felice di accompagnarlo passo dopo passo in questa sua nuova avventura. 
Suor Maria, che veniva da così lontano sapeva tante cose e sicuramente lo avrebbe approvato, gli avrebbe scritto una piccola letterina di raccomandazioni per il rettore e chissà, magari anche un lavoro...
Mentre scendeva a valle Willy si sentiva leggero e tranquillo, non scacciò i cani quella mattina, non tirò sassi ai monelli che gli correvano attorno e non abbassò lo sguardo passando davanti alle case degli anziani.
La terra risplendeva del rosso della Grande Madre, i tetti di paglia scintillavano della leggera pioggia notturna, la vegetazione sgocciolava di quel verde che non esiste in nessun altro posto al mondo. 
Un acre odore di foglie umide, di frutta in fermentazione, di pollini e fumo cominciava a levarsi nell'aria. 
Quello era l'odore della sua terra, del suo popolo, della sua vita e Willy ne era felice.
Un'ora di cammino, di buona lena anche solo cinquanta minuti, un'ora per mettere assieme gli ultimi pensieri prima di cambiar vita per sempre.
Non ci volle molto per capire che era successo qualcosa.
Fuori dai cancelli della piccola missione di Santa Lucia si era radunata una folla.
Willy acellerò il passo, poi corse per un tratto e vide donne in lacrime e uomini seduti che cercavano bastoni con lo sguardo, bastoni da percuotere a terra , bastoni per scaricare la rabbia.
Willy riuscì ad arrivare al cancello di ferro, ad aprire lo sportellino ed a parlare con la guardia.
La guardia lo fece entrare, era di casa Willy.
"Cosa è successo?"
La guardia gli mise le mani sulle spalle e, con gli occhi pieni di lacrime e rossi delle lacrime già versate, gli comunicò la morte.

Willy spinse di lato l'uomo e corse verso il portico e lì, riverse sulla porta, una fuori, una dentro giacevano, straziate, insanguinate, contorte, quasi smembrate, morte, suor Maria e Teresa.
Willy si accucciò accanto ai corpi, sfiorò la veste di suor Maria e fece per accarezzare il viso di Teresa, qualcuno lo spinse via, un poliziotto, un militare forse.

Ventuno coltellate a suor Maria.
Ventuno coltellate a Teresa che si trovava lì per caso.
Ventuno coltellate erano una firma, un segno inconfondibile, un sicuro atto di guerra.

Il clan dei Cammelli era sceso lungo le strade buie, aveva chiesto asilo, era entrato nella missione ed aveva firmato la condanna a morte di migliaia di persone.
"Bastardi, maledetti assassini, Cammelli marci, adoratori di satana e Maometto, avete messo le mani nel posto sbagliato" urlava qualcuno da dietro al cancello ed intanto i primi bastoni cominciavano a percuotere la terra, sempre più forte, sempre in maggior numero.

Quattro case più in là, Alì ebbe notizia dell'accaduto, gli tornarono alla mente le tragedie di quindici anni prima. Chiamò sua moglie e le disse di correre alla scuola, prendere il figlio e dirigersi dagli zii al villaggio. 
Poi Alì uscì di corsa per andare a prendere la sua bambina alla scuola di cucito ma quando arrivò il mondo gli crollò addosso.
la piccola ………… era stata uccisa a bastonate assieme ad un'insegnante e ad altre sei bimbe.
I corpi erano lividi e gonfi. 
Alì si inginocchiò, prese in braccio il corpicino ed urlò di rabbia e dolore.
Poco lontano echeggiò il primo sparo ed il mondo si gelò per un'istante, poi si riprese, cambiò espressione ed indossò la maschera della guerra, della follia, della morte.

Pazuzu riemerse dalla vegetazione, rinvigorito e sogghignante e fiero e potente scivolò rapido e silenzioso verso la città. 
Cibo e vita per il grande Dio, morte e distruzione agli uomini.
Pazuzu sbava pregustando i giorni a venire, si solletica lo stomaco marcio al pensiero della fresca carne pronta ad imputridire, si inebria dell'odore dell'odio che potente si sta' levando.

Quaranta giorni durò la follia, quaranta giorni e quaranta notti ci mise la marea nera per salire e defluire.
Morirono in migliaia, morirono innocenti e traditori, succubi e padroni di fucili, donne, bambini e vecchi furono trucidati, animali sgozzati e lasciati a marcire. 
I tetti presero fuoco le scuole crollarono e gli ospedali si riempirono di cadaveri e fumo.
L'esercito arrivato dalla capitale e i grossi blindati dell'uomo bianco, misero fine alla violenza, misero fine al dolore con altro dolore.
Ne buoni ne cattivi, solo cadaveri.
Oggi la quiete è tornata, un cane passeggia curioso attorno ai resti carbonizzati della casa di Willy, la missione di Bagunda è stata sostituita da una piccola caserma permanente di soldati arrivati dalla città. 
Viola, Mawunga, Jane sono andate via, al seguito dei militari sono andate alla capitale.
Willy è morto l'ultimo giorno di combattimenti, ma solo dopo essersi guadagnato un posto di rilievo nell'inferno che lo attende.
Le suore per il momento se ne sono andate e le strade sono sprofondate sotto il peso dei blindati.
I pochi anziani rimasti hanno discusso a lungo con il colonnello Yabushebua a proposito del cambio di nome del villaggio. 
Alcuni dicono che il nome è troppo cristiano, troppo legato al clan dei Cani, altri dicono il contrario, dicono che i musulmani ci hanno messo lo zampino, che il clan del cammello è troppo vicino a quel nome. 
Sarebbe bello pensare che tutti vogliano semplicemente dimenticare ma Pazuzu è ancora in agguato.
Il grosso dell'esercito torna in città senza aver risolto il problema del nome.

Adesso, lungo la strada di terra rossa giace un grande villaggio senza nome, un posto abbandonato dagli spiriti buoni, un luogo che Pazuzu trova ricco e confortevole, un luogo che nel bisogno di dimenticare si scorderà presto delle violenze subite ed inferte.
Il colonnello Yabushebua, a bordo del suo grande fuoristrada da guerra lascia il villaggio seguito dalla colonna dei mezzi della sua guarnigione. 
Questa operazione gli varrà una medaglia e parecchi denari per il futuro, denari che gli arriveranno dalla guarnigione insediata nella missione di Bagunda.

Mentre esce dal villaggio Yabushebua si volta per dare un'occhio al suo esercito.
Voltandosi vede il cartello con il nome del villaggio cancellato con pennellate di vernice bianca. 
Qualcuno, con vernice nera ha scritto in lettere maiuscole:

WELCOME TO HELL.

Yabushebua si volta, osserva la strada e sorride:"Si troveranno bene, si si, i miei uomini si troveranno proprio bene quaggiù all'inferno"

NOTA
(Sono storie brevi queste, con personaggi che affiorano e muovono qualche passo. 
Sono giornate brevi, quelle invernali ma calde in cui i mosconi escono lenti e strisciano dattorno credendo sia arrivata la primavera. 
Personaggi come questi meritano stagioni vere. 
Meritano in questo caso una nota che sarebbe bene fosse ben più lunga del racconto. Una nota con caratteri grandi come gli altri ma magari un poco diversi giusto per distinguerli. A nessuno piace cavarsi gli occhi per leggere le note.
Ovunque ed in qualunque epoca ci sono stati gatti che vivono in casa al calduccio e gatti che vivono al freddo e mangiano lucertole quando ne trovano. 
Ma non si parla qui certo solo di gatti ma anche di cani, ci mancherebbe. Ecco, così è, così è sempre stato e così sempre sarà perché la storia è una ruota che gira. Ma questo, al fine, non è necessariamente vero. Sfortunatamente la storia potrebbe non essere una ruota. 
E' semplice a ben pensarci: questa odiosa disparità tra gattini che crescono fuori al freddo, tormentati dalla fame e dalla paura della volpe e quelli ben pasciuti e carezzati che li osservano dai vetri delle porte si può risolvere in fretta.  Gattini, va ben, ma vale pur per i cani. per i cani qualche passo avanti è già stato fatto.
Ecco, basta armarsi di buona volontà e sterminare tutti i gatti che vivono al freddo, abbandonati… abbandonati da chi? Ah già, da noi. Ecco, sterminati tutti i gatti…eh si certo e tutti i cani…che hanno preso nome di randagi, ecco che così ci saranno solo gatti -e cani- ben pasciuti e curati. 
Certo ci rendiamo conto che nella mischia, nell'operazione benefica di pulizia, di cui si fanno -fecero- carico diverse associazioni no profit di benpensanti e volontari d'ogni sorta, ci andranno di mezzo anche alcuni gatti da casa che, per malaugurato episodio, si trovassero all'aperto senza collare di riconoscimento durante le crociate benefiche di pulizia sistematica.
Così come questa storia tocca gatti e cani in egual modo, nella stessa maniera riguarda, per diretta via Cani e Cammelli; come emerge dal breve racconto sopra riportato. 
Certo la storia non sta in piedi se si parlasse di cani veri e di cammelli veri poiché il cane è inutile, o poco utile e di sicuro senza Valore, mentre il cammello è molto utile, anzi è molto utile il suo Valore. 
Ma noi stiam qui parlando di Cani e Cammelli con le C maiuscole non minuscole. Anzi noi siam qui a raccontare le vicissitudini di alcuni cani e cammelli che casualmente si trovarono ad essere Cani e Cammelli.
Willy, Alì, Teresa, Viola e molti altri di cui i nomi appariranno a suo tempo.
Adesso siamo nella contingenza di trovare sì il tempo per raccontarvi questi nomi, e la cosa di per sè sarebbe già poco facile perché ci vuole allenamento, ma dobbiamo anche trovare uno spazio in cui metterli e questo potrebbe richiedere ancora più lavoro di quel che immaginate. Trovare uno spazio ai nomi richiede fatica, più di quella che si possa pensare perché le cose vanno fatte per bene e non possiamo mettere il latte nella bottiglia del vino e sopratutto non possiamo mettere il vino nel cartone del latte!)

Nota alla NOTA
Willy ed Alì per un certo periodo frequentarono la stessa scuola ……..



FARFALLINE CAMBIACOLORE
di Rosella Mutola
traduzione dal portoghese di Hara Cecilia

Le pene che provava Carmen ogni volta che vedeva il piccolo Samuel che restava a casa a piangere invece che andare a scuola, le possiamo solo immaginare.
Vedere Samuel che non andava alla lezione era per Carmen la sconfitta più grande che ci potesse essere.
Alle volte pensava che l'ignoranza era peggio della morte. 
E per questo che penava così tanto quando non aveva quei due centesimi da dare a Samuel.
I due centesimi erano il prezzo di una giornata di scuola, erano il sintomo di una povertà così radicata, di un'economia così allo  sfacelo che non ogni anno, non ogni mese e nemmeno ogni settimana andavano pagate le rate a scuola, bensì ogni giorno. 
Giorno per giorno si tirava avanti, da una parte e dall'altra.
E come sempre nessuno ad ascoltare i lamenti ed i pianti notturni di Carmen.
Pianti notturni, occhi arrossati mattutini, ma al risveglio del piccolo Samuel, tutto a posto, perché, credeva Carmen, non si dovevano mai riversare sui figli le pene dei genitori, mai e poi mai. 
Ogni essere umano ha già destinate alla nascita il suo bel numero di pene senza che gli siano accollate anche parte di quelle di coloro che arrivarono prima.
Così Carmen, durante la giornata, con Samuel e con tutti era sorridente ed affabile, poi la notte piangeva sommessamente, prima di addormentarsi ed alle volte anche nei sogni.
Si svegliava con gli occhi umidi di lacrime ed il viso affondato in un immaginario cuscino mai posseduto per soffocare i singhiozzi.
La casa di Carmen era quattro metri per tre, un pò più grande di quella nella quale era cresciuta, leggermente più bassa ma un pò più grande.
Cinque anni prima, quando Martin era ancora in vita, Carmen si compiaceva parecchio del fatto che vivevano in una casa più grande di quella in cui era cresciuta. 
Era un buon segno, era un segno di benessere, di crescita e di sviluppo.
Alle volte si metteva accucciata in un angolo della casa e cercava di averne una prospettiva completa. Le piaceva, era grande, spaziosa ed ariosa.
Quando era arrivato il piccolo Samuele avevano aggiunto un lettino di legno fatto da Martin e nonostante questo non avevano dovuto rinunciare al tavolo e nemmeno ai due bauli. 
Una zia di Martin le aveva regalato una zanzariera e lei l'aveva appesa sul lettino, ogni due o tre giorni la lavava con cautela mantenendola sempre candida.
Durante le notti d'estate, Carmen, nella zanzariera ci metteva sempre due farfalle bianche, perché era sicura che proteggessero il piccolo Samuel durante la notte. Crocifisso e Farfalle.
Carmen sapeva che le farfalle avevano poteri curativi se sbriciolate nella minestra, ma se vive e svolazzanti, oltre che a mantenere lontani gli spiriti cattivi, servivano a correggere gli umori delle persone, a tranquillizzare le donne e placare gli uomini.
Segretamente Carmen, catturava farfalle bianche con un lembo della zanzariera asportato ad arte e fissato su un ramo a V.
Segretamente Carmen osservava, nel tardo pomeriggio, il volo delle farfalle nella campana della zanzariera.
Verso le sei il sole scendeva fino sopra l'orizzonte lontano e gettava i suoi raggi obliqui attraverso l'apertura della finestra rivolta ad ovest.
i raggi arancioni si posavano morbidi sui muri intrecciati. Attraversando l'aria immobile della casa illuminavano il pulviscolo sospeso rendendolo splendente come polvere d'oro.
Le farfalle si trasformavano in piccole fenici fiammeggianti che, splendenti, gettavano radiosi riflessi sulla zanzariera.
L'effetto era magico, i colori erano una magia buona e Carmen, tutte le volte che poteva restava ad osservare quello spettacolo con il piccolo Samuele tra le braccia.
Poi, una sera, mentre si deliziava di questo spettacolo qualcuno scostò la tenda di ingresso e le chiese di uscire.
Carmen si presentò sulla soglia con Samuele tra le braccia.
Fuori, in una carriola per il cemento e la terra, giaceva senza vita il corpo di Martin, coperto da un grande pezzo di stoffa marrone. 
Il viso rivolto al cielo e le braccia verso terra.
Nascose il volto del piccolo Samuele nell'incavo dell'ascella, si guardò attorno per cercare sostegno.
Trovò gli occhi di Masunda, occhi in lacrime ed a quelli consegnò Samuele chiedendo che fosse allontanato da quello spettacolo.
Carmen si inginocchiò vicino alla carriola e pianse. 
Fu sostenuta da qualcuno.
Martin era morto sul lavoro e quindi il suo capo aveva inviato, con carriola, trasportatori e cadavere, anche un ambasciatore che faceva le condoglianze da parte dell'impresa, consegnava alla moglie i pochi attrezzi da lavoro e quietanzava la liquidazione post mortem di settanta sette dollari più un bonus di dieci omaggio del capo in persona.
I trasportatori inoltre si offrirono, potendo usufruire degli attrezzi che furono di martin, di dare degna sepoltura al corpo in cambio di soli cinque dollari.
Carmen acconsentì, sapendo per altro che la carriola sarebbe dovuta ritornare dal suo legittimo proprietario entro sera.
Così, da un giorno all'altro martin giaceva sotto terra e Carmen e Samuel restavano soli al mondo.
Non proprio soli in questo mondo, perché qualche amico c'era e pure qualche cugino, ma soli nel loro mondo. la famiglia era smembrata, divisa, seccata.
Così Carmen che fu tanto dolce da ragazza divenne una donna dura, dallo sguardo profondo e dalle membra nervose.
Lottava ogni momento contro le piccole avversità della vita, sperando un giorno di poter combattere i grandi mali che affliggono gli uomini.
Ma la vita, alle volte, con i piccoli dolori ti tiene a bada come fossi un cane a catena, ti tiene nel cortile dei pensieri e nel aia delle azioni e tutto ciò che ti resta è tirare avanti concedendoti piccole vittorie a fronte di grandi sconfitte, piccoli passi contro grandi correnti, piccoli salti avanti nella tormenta e grandi gioie alle cinque di sera quando le farfalle volano nella zanzariera ed i raggi del sole cadono obliqui attraverso la finestra della piccola casa.
I morti certo non parlano ma, per coloro che li conoscevano quando erano in vita, hanno sempre una storia da raccontare, così Carmen, allo scendere delle tenebre ascoltava le storie di Martin, ne ricordava i lineamenti e soppesava, parola per parola ciò che veniva detto nel letto vuoto e freddo.
E' così che la morte entra nelle vite, una grande tragedia che lascia un piccolo strascico di gocce che un giorno andrà esaurendosi nel ricordo.
A ben pensarci, nessuna casa del villaggio era stata esente dalla sua dose di morte, a ben pensarci era un destino che accomunava tutta quella parte di mondo senza escludere nessuno.
La morte fluiva per il villaggio come aria fresca la mattina, scendeva sulla strada come pioggia tiepida, avvolgeva tutto come le tenebre, entrava obliqua attraverso la finestra incontrando nere farfalle che si libravano quasi immobili sul letto di Samuele.



CAMMINA NELLE FIAMME
di Joseph Banda
tradotto dall'inglese da Pierre-Yves Raoult

Cammina nelle fiamme,il bambino con riccioli bruciati.
Lascia la corda la madre, il secchio scivola nel pozzo.
Nessuno conosce con esattezza quanto sia bruciato il bimbo,
quanto sia profondo quel pozzo.
Alcuni sostengono che vada sino al centro della terra. 
Altri lo negano dicendo che se così fosse l'acqua sarebbe calda.
Ma l'acqua è abbastanza calda.
Pianti ed urla echeggiano per il villaggio. 
Disperazione e grida. 
Un vecchio corre lento verso la sua capanna. 
Due uomini trasportano il bimbo in fiamme verso un'altra capanna. 
La madre urla, si dispera, insegue i portatori.
Il bimbo viene disteso su di un giaciglio all'ombra. 
Geme il bambino, ansima la madre, arriva il vecchio.
Un unguento che forse darà un sollievo che forse guarirà le ferite, che probabilmente non farà niente.
Sale la febbre scendono le tenebre. Torna il sole tra dolori d'anima della madre che sta' per perdere il cuore un'altra volta ed i dolori silenziosi e mortali del bimbo con la pelle che si stacca.
Un giorno d'inferno scorre assieme al sudore, un giorno di infezione, dolore e paura.
Il villaggio si ritira in silenzio al crepuscolo. 
Le donne si chiudono nelle capanne immaginando il dolore, il coraggio, la rassegnazione di quel gesto che compiendosi ogni volta che i mali sono troppo grandi, firma la loro perpetua condizione di miseria.
Uno straccio umido si posa deciso sulla bocca del bambino tremante. 
Decisione e fermezza della mano, delirio e tristezza degli occhi.
Pochi sussulti resi incoerenti dalla febbre. 
Un ultimo sguardo attraverso occhi più grandi della luna.
Tutto è finito. 
Anche il dolore più grande finisce.
Dopo trentasei ore di dolori e convulsioni il bimbo riposa sul giaciglio. 
La mamma, accasciata sulla stuoia ai piedi del lettino fatto di ferro vecchio e paglia nella stoffa, piange senza sapere perché.
La notte è lunga nella solitudine di chi si accompagna ad un cadavere.
Il sole è presagio di verità nelle mattine che seguono le tenebre dell'incubo.
Poco discosto dal villaggio, un uomo, sorpreso dai primi raggi del sole, sta' scavando una piccola buca nel terreno rosso.


LA STORIA DI PAY PAY
di Luca Oddera

Dopo tanti, tantissimi chilometri, così tanti che fermarsi sembrava, all'uomo bianco, un lusso troppo grosso, ecco che il destino ti rallenta e poi ti impone un insolito ritmo immobile.

Venti giorni bloccato in un villaggio senza pane ne acqua, senza una birra che ti rinfreschi, senza un vino che ti dia sollievo, ogni incontro è fonte di distrazione.

Un antico vecchio, unica testa dai capelli bianchi che vedo da mesi mi si avvicina, mi regala una papaia acerba, mi sussurra il suo nome incomprensibile e poi, seduti di fronte ad una bottiglia di acqua torbida ci scambiamo qualche parola.

"Ho una storia da raccontarti" mi dice.
"Che storia?"  chiedo.
"Una storia di conigli" mi risponde tirando fuori dalla sporca camicia un consunto ciondolo a forma di coniglio che corre e facendomelo dondolare davanti agli occhi, come se volesse ipnotizzarmi……..come se volesse fare in modo che cada sotto qualche influsso…… come se volesse ipnotizzarmi….come se volesse…………..
raccontare una storia…………….

"Un tempo, tanti tanti anni fa qui, proprio in questa città sul fiume vivevano tante persone allegre, spensierate e sane.
Qui tutto era un dono che arrivava da chissà dove: la terra era fertile, il bestiame florido l'acqua dolce come il miele, limpida ed abbondante.

Un giorno però accadde qualcosa, nessuno capì mai dove tutto ebbe inizio ma le cose cominciarono ad andare storte.
Per due anni non scese dal cielo nemmeno una goccia d'acqua, le bestie morirono o furono mangiate. La peste porcellina uccise tutti i maiali, la sete e l'inedia si portarono via tori e mucche, la fame degli uomini fece il resto, così scomparvero a poco a poco anche pecore, capre, galline e conigli.

Dopo due anni le piogge tornarono, anche troppo abbondanti ed il terreno secco non fu in grado di accoglierle. Nuovi fiumi invasero le strade, nuove falde si aprirono da e verso il grande fiume, ruscelli entrarono nelle case e la malattia si diffuse.
Migliaia di persone morirono, le altre si ammalarono e per cinque anni tutti vissero di stenti. Papaia e manioca furono gli unici cibi disponibili ed acqua torbida ed infetta l'unica salvezza dall'arsura.

Proprio qui vicino viveva un bambino il cui nome ora mi sfugge ma non è importante. Questo bambino aveva un amico carissimo che dormiva con lui, si cibava con lui e con lui passava le ore più calde della giornata nascosto nella foresta.
Questo amico era un coniglio.
Il bambino, pur essendo un bambino, sapeva benissimo che chiunque avesse visto il suo amico coniglio se lo sarebbe pappato in un sol boccone.
Così quasi tutta l'esistenza del bimbo era dedicata a mantenere segreta l'esistenza del coniglio.

Un giorno accadde ciò che per anni il piccolo aveva temuto: il coniglio si infilò nella lama di luce che filtrava tra la porta e lo stipite ed uscì dall'oscurità della capanna.
Con un tuffo al cuore il bimbo scattò su ed uscì per riprendere la bestiolina.
Uno, due, tre, quattro secondi ed il pandemonio era già scoppiato.
La povera bestiola si ritrovò in mezzo alla via di terra ed in un secondo era braccato da cento mani affamate.
Ma un coniglio magro è agile come un coniglio magro e un uomo affamato da anni è debole come un uomo affamato da anni.

Cominciò così la più grande caccia che mai fu attuata in tutta l'Africa.

Le urla, lo scompiglio, il passaparola fecero si che in men che non si dica il coniglio fosse braccato non da un uomo, non da due e nemmeno da tre ma da tutta la città.
Ventimila persone erano in subbuglio ed in affanno per catturare quei due miseri chili di carne e pelo.
Il bimbo che si era fatto scappare la bestiola lo inseguiva in preda al pianto, chiamandolo per nome e cercando di raggiungerlo.
Per ore il coniglio zigzagò, scartò, saltò, fece finte, scatti e sterzate, fino a quando riuscì ad ad infilare un sentiero che lo condusse alla foresta.
In pochi minuti la città era deserta come non lo era mai stata. Tutta la popolazione si immerse nella foresta all'inseguimento della bestiola.
Per più di un'ora l'incredibile massa di persone camminò attraverso la foresta ed infine, inaspettatamente, in un'ampia radura trovarono il coniglio immobile, non stanco ne provato, semplicemente accoccolato sulle zampe posteriori.
Tutti rimasero di stucco e l'immensa folla si assiepò tutt'attorno indecisa ed esitante.
Tutti si guardavano di sottecchi, qualcuno aveva persino già l'acquolina in bocca e si asciugava la bava con il dorso della mano.
Un attimo prima dell'assalto il coniglietto si alzò in piedi, fece due passi lenti e cominciò a bere acqua cristallina da una fonte.

Nessuno credeva ai propri occhi: una fonte di notevole portata di acqua così fresca e cristallina che mai si era vista in queste zone.

Ci volle poco per far si che tutti si dimenticassero del coniglio e si cacciassero a capofitto nella dissetante fonte.
Il bimbo, invece corse ansimante dal suo amichetto, lo prese in braccio e lo strinse a se senza smettere di piangere e ridere allo stesso tempo.

In pochi giorni la sorgente fu convogliata in città e distribuita attraverso canali, scoli, vecchi tubi e secchi.
In pochi giorni la città si riempì di gemme, in poche settimane di fiori ed in pochi mesi di frutti e animali.

Il coniglio aveva compiuto il miracolo.
La casa del bimbo divenne una specie di santuario al quale ogni giorno decine di persone portavano doni.
Il bimbo e la sua povera madre vissero tutta la vita senza dover più lavorare ed il coniglio, per il tempo che gli rimase da vivere, visse come vive una divinità.
Poi un giorno il coniglio morì, fu sepolto al centro della casa con una cerimonia che durò una settimana e sul cuscino sul quale era solito riposare fu posata una statuetta di legno che lo raffigurava.

Da quel giorno ovunque sorsero botteghe e negozi che fabbricavano conigli in legno di ogni dimensione ed in breve ognuno ne ebbe uno in casa al quale chiedere aiuto nei momenti più bui.

E fu così che ogni volta che qualcuno si lamentava della vita, che cercava la soluzione ad un problema, che voleva uscire da un guaio, la risposta che riceveva era sempre la stessa: SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO!


CONTINUA...


NOVANTOTTO CENTONOVANTATREESIMI,
mozione accolta.


Le cose la fuori si stavano mettendo davvero male, almeno così sembrava.
Ma che tutto stesse andando verso un imbuto sozzo e da li in una cloaca lo potevi capire sia dagli sguardi dei passanti quando uscivi, sia dalle trasmissioni televisive che erano sempre più riciclate, sempre più una farsa. Compresi i notiziari senza quasi notizie. nei negozi pure la merce non deperibile appariva avariata, tutto sembrava uscito dal dimenticatoio e messo li per riempire gli scafali in un ultimo sussulto di vita da consumo. ma pareva davvero una parodia. La gente si scambiava pezzi di spazzatura come fossero gioielli, vecchi vestiti come fossero abiti di alta moda e poi tutti si aggiravano vestiti come buffoni ad una fiera. Si guardavano l'un l'altro …. ma per vergognarsi. Il nero era tornato di moda, era più facile mascherare i difetti ed attirava meno l'attenzione degli altri. ciò che un tempo la gente derideva, adesso lo bramava perché pareva essere l'ultima cosa che fosse rimasta cui aggrapparsi, l'ultimo straccio al quale appendersi per non perdersi, per non dover rinnegare tutto quello che si era fatto fino a quel punto, per non dover dire: "Ho sbagliato, è anche colpa mia". Ma il punto non era quello, il punto era un altro, qualcosa di più profondo. Non sapevano vivere diversamente da così. lo spazio si contraeva , il tempo si distendeva e diventava rotondo avviluppandoli e producendo in loro crisi isteriche da adolescenti in paranoia. 
Ed intanto una pioggia nera, appiccicosa e sporca scendeva lentamente, molto lentamente, tutti i giorni, almeno due ore al giorno. Il sole non sorgeva mai. No, l sole sorgeva ma rimaneva sempre nascosto dietro a sottili nubi grigie. il cielo era sempre color ferro, gli alberi secchi, quasi tutti, la terra colore dell'asfalto e  l'asfalto sgranato si sbiancava al sole come un vecchio pavimento di cemento.
Era morta molta gente, seppellita con repentina efficacia; all'inizio con adeguati funerali, dopo con ricercati sotterfugi. Interrati, i cadaveri, dapprima in tombe di di terra o cemento, chiusi in casse di legni pregiati, dopo, un po alla volta in gabbie di ferri da cantiere e immersi in colate di cemento dentro a buche profonde pochi centimetri. 
Qualcuno ebbe l'idea di non scavare troppo in profondità. non si sa mai.   
Qualcuno aveva sviluppato tecniche di sepoltura nel ferro che erano raccapriccianti, ma economiche ed efficaci. Una sola barra di ferro da quattro metri veniva inserita nell'ano, fatta uscire dal collo e poi attorcigliata attorno a tutto il corpo come una sciarpa. Due sacchi di cemento un metro cubo di ghiaia, una fossa profonda 90 centimetri. Bam! Bloccato li per l'eternità. 
Chissà poi perché. Perché avevano tutta questa paura? Si, pare che qualcuno fosse davvero tornato, li avevano visti in giro, battere alle porte per sottrarsi al freddo delle strade. Ma poi si erano allontanati mestamente ed erano spariti. Qualche tomba del vecchio tipo era effettivamente stata trovata divelta ma chissà se da dentro o da fuori, chissà, forse erano i vivi a scavare e cercare conforto negli oggetti seppelliti con i morti. Forse quelle persone che si aggiravano all'imbrunire bussando alle porte erano solo straccioni in cerca di aiuto…..vecchi avvocati senza lavoro, antichi imprenditori senza più niente da fare, bottegai ridotti a ciondolare per le strade in cerca di cibo. 
Era così difficile distinguere i vivi dai morti che spesso venivano confusi gli uni con gli altri. E questo mi bastava per decidere che uscire di casa era giusto solo se necessario. 
I negozi di tv erano spenti, quelli di tecnologie anche, brillavano candele nei panifici, negli alimentari e negli ambulatori. Anche nell'ultima osteria si teneva qualche luce accesa la sera, qualche risata squassava il silenzio come una granata, ma poi moriva lì, nel traballante fremito di una candela. Qualche strumento suonava, ma lontano, sempre troppo lontano per sentirne i benefici.
Io, da parte mia mi ero ritirato in casa, mantenevo rapporti saltuari solo con qualche vecchio amico, passavo le giornate a raccogliere legna. la tagliavo con l'accetta, si, ma il più delle volte trovavo legna secca già tagliata. Sembrava non importasse a nessuno della legna. Strano, molto strano ma non chiedevo in giro per paura di dare il via ad una corsa all'oro.
Così avevo i magazzini, le tettoie e le soffitte stipate di legna secca, di sacchi di grano, di taniche di benzina. i cassetti pieni di accendini e medicine. Avrei voluto avere un dottore chiuso in mansarda ma non potevo permettermelo. Qualcuno lo aveva fatto, mi dicevano. Cibi in scatola e candele. Qualche libro e vestiti. 
Si andava avanti giorno dopo giorno con i pochi contanti rimasti in circolazione. Si comprava poco, solo il necessario e chi si permetteva il superfluo lo metteva in mostra tutte le volte che poteva ma l'effetto era patetico, davvero patetico. Parcheggiare una bella auto in un vialetto invaso dalle erbacce, mettere un bel vestito e belle scarpe e poi camminare cercando di scartare le pozze di melma. Qualche volta potevi provare tenerezza, ma poi, li guardavi in faccia, negli occhi, ed allora ti passava tutto e ti facevano solo ribrezzo, ti davano la nausea.
Chiudetevi in casa e datevi fuoco così che possa non incontrarvi più per cortesia. Grazie, se non volete prendervi una bastonata sulla testa.
il cancello che dall'esterno dava sul mio giardino, comunque, lo chiudevo sempre , con la catena ed il lucchetto. Meglio così, se ti trovavi uno in giardino potevi domandargli perché fosse li e cacciarlo.


32

LE STREGHE
Erano tornate anche le streghe. si cazzo proprio le streghe! 
" Ieri hanno bruciato una strega a Trebelle!"
Mi dice Michael mangiando cucchiaiate di fagioli bollenti.
Cosa hanno bruciato? Chiedo io..
"Una strega" mi risponde lui.
"Ma cazzo cos'è una strega?"
"Beh, una donna strega" risponde Michael con la bocca piena, "una specie di stregona che fa…."
Lo interrompo "Ma che cazzo stai dicendo? So benissimo cosa sarebbe una strega, ma il problema è che non dobbiamo cominciare a bruciare le persone e a credere nelle streghe…qui stiamo diventando tutti matti, ok d'accordo pure io, tu lo sei già…..pure io, non lo metto in dubbio, ma cazzo bruciare le streghe….i morti viventi, via, ci possiamo ancora stare dentro, si, una specie di morti viventi che non son morti ma possiamo pensare di si, far finta che lo siano e cementare le bare se ci fa star meglio. Ma cazzo  bruciare le donne….i draghi quando arriveranno? E il giudizio finale? Adesso arriverà anche dio?"
Michael continua a mangiar fagioli:"Mai sentito parlar di draghi, ma questa donna di Trebelle pare fosse davvero una strega!"
Tolgo il piatto di fagioli da sotto al naso di Michael e lo poso sul lavandino,
Michael mi guarda strano con il cucchiaio in bocca: "Beh?!" mi dice, adesso che succede? Perché fai così?"
"Senti" gli dico versandomi un bicchiere di vino, "Io non rifocillo uno che crede alle streghe" gli levo da davanti il suo bicchiere di vino e mi scolo pure quello:"e non gli lascio nemmeno bere il mio vino! E che cazzo"

Da quel giorno le notizie di uccisioni di streghe si moltiplicarono senza sosta, non saprei quante fossero vere ma di sicuro erano state bruciate delle donne, più di una, forse qualche decina, non saprei. Per un pò pare ci si fosse dimenticati dei morti viventi…….
Ero andato poi a Trebelle…con la scusa di portare giù della legna e comprare della farina ero andato a chiedere e mi portarono soddisfatti a vedere la tomba!   
Appena fuori dal cimitero, in uno spiazzo brullo invaso dalle erbacce. Era stata seppellita in una vecchia cassaforte, i suoi resti, mi dissero, erano stati raccolti con i badili, le ossa spezzate, messi nella vecchia cassaforte, chiusa, benedetta e sotterrata. Sopra al terreno smosso una grosse croce sdraiata di cemento armato gettata in opera li sul posto e poi disarmata, e sopra la croce una sorta di scatola di plexiglas imbullonata e chiusa con il silicone con all'interno una bibbia…si cazzo: croci e bibbie!
Mi gurdai attorno e vidi volti felici e rassicurati……scambiai la legna con la farina e me ne andai rapidamente!   
Croci e bibbie……non ci potevo credere, manco i morti viventi mi facevano così paura……che mi mordano, mi verrà l'epatite…ma croci e bibbie, proprio non ne voglio sapere. 


……..to be continued.



Il pullmino.
(Una storia vera successa da un'altra parte)
Raccontata da un signore vestito di nero con le scarpe a punta lucide ma piuttosto malandate, il cravattino e la camicia bianca, seduto vicino ad una baracchetta che vendeva bibite calde in un giorno di pioggia in un posto dove le strade avevano smesso di alzare polvere in ogni dove.

Tutti quei turisti cominciavano a snervarmi, non ne potevo più. Era come se mi rovesciassero addosso della vernice appiccicosa che non riuscivo a levare completamente. 
Arrivavano trafelati ed indaffarati…si, già all'aeroporto erano incasinati, chiedevano di connettersi, di avere una schedina, di telefonare, di scrivere commenti su commenti dei commenti e di verificare che i bagagli ci fossero tutti….proprio tutti. Cose inutili dalla prima all'ultima, senza paura di sbagliare.
Eccoli discesi dall'aereo ma rimasti a casa, al cento per cento…rimasti a casa. Avevano pagato per spedire i loro corpi in vacanza, un'avventura simulata per poter raccontare cose che non sono capaci ne di fare ne di immaginare. Ma le teste ….quelle…le avevano lasciate a casa…giuro..erano senza testa..al cento per cento.
E così mi sono caricato questi zombie senza testa sul piccolo pulmino che guido da sei anni e sono partito. 
Tutti, ma proprio tutti, avevano i visi chini su diversi aggeggi tecnologici……."ciao Mamma, sono arrivata"…..beh, certo che sei arrivata, e dove cazzo volevi essere?…avevi paura di essere smarrita come un bagaglio? Forse si, forse si perché la testa è rimasta a casa…..addosso avevano pure i cartellini come se fossero delle valigie.
Guardavano ognuno il suo schermo, ogni tanto alzavano lo sguardo vuoto ed assente e mi facevano domande inutili che richiedono risposte nozionistiche da incamerare, comprimere, stoccare e poi più avanti vedere se c'è qualcosa di impressionante da raccontare.
Le nozioni, pensavo, perché non le arrotolate e ve le mettete su da un foro di quelli che vi fanno comunicare con l'esterno? Uno qualsiasi…. 
Quando guardi qui attorno l'ultima cosa che dovresti fare sono delle domande…perché se sei li dovrebbe essere proprio perché hai bisogno di farne……..e le risposte sono tutte li…altrimenti bastava farmi una telefonata…e che cazzo, almeno non vi avrei visti…….
Così decisi di andare dove sapevo, un po lontano, dove davvero ci sono i leoni, aprii le porte del furgone, tolsi le chiavi, presi un po di carne cruda nel bagagliaio e la buttai sotto al furgone e sul tetto e me ne andai dove sapevo io, dove i leoni non sarebbero venuti……

Buon appetito ragazzi

Mc GREGOR
di Luca Oddera

Siamo qui ormai da due mesi. Io non riesco a dormire più di quattro cinque ore per notte. Oggi per la prima volta mi sono svegliato e cade una leggera pioggia, il cielo è grigio e la temperatura è scesa leggermente.
Oggi è un esperimento, pare. Nei prossimi giorni vedremo l'effetto della pioggia sulla vegetazione. vedremo se quella che sta scendendo è una pioggia malata o una pioggia benefica.
I cani qui attorno si rincorrono e abbaiano come se niente fosse, le piante crescono ed i fiori luccicano di acqua.
Sono assenti da giorni tutti i rumori di motori, che siano auto, generatori clacson. Anche la musica non si sente da nessuna parte.
Tante piccole colonne di fumo si alzano dalle case e dai campi attorno.
Tra poco anch'io accenderò un pezzetto di carbone e, come mi hanno insegnato, ci soffierò sopra così tanto da farlo diventare rosso, poi ci metterò sopra dei piccolissimi pezzetti di legno e, mano a mano che il caffè si scalda, ne aggiungerò qualcuno.

Mi vergogno a dirlo e mi sono vergognato anche a farlo...
qui sono stati tutti così gentili con noi…
sopratutto la signora Rose…
dentro casa, nell'intercapedine tra il bagno ed il tetto di paglia, ho stoccato parecchie cose che ho la sensazione che comincino a valere un bel po. 
Se qui attorno si sapesse… non so che fine farei, ma credo che in gran segreto lo stiano facendo tutti quelli che possono.
Trenta chili di zucchero e altrettanti di sale, cento chili di farina di grano e duecento di farina di mais. Moltissima acqua in bottiglia e taniche. Trenta confezioni di Nescafè ed altrettante di te.
Tantissima, forse quaranta o cinquanta chili di carne essiccata, pomodori secchi e frutta disidratata. Caramelle di tutte le qualità, carbone e diavolina, una trentina di accendini , moltissime candele, fascine di legna, molti medicinali, sapone e vestiti.
L'elenco continua, perché nei giorni convulsi in cui abbiamo fatto la spesa trasgredendo alle leggi, ho comprato anche degli attrezzi, asce, picconi, badili, seghe e zappe. Corde, cavi e cinghie, chiodi, viti e tutto quello che mi veniva in mente.
Solamente gli oggetti a motore o elettrici sono rimasti nei negozi nei giorni successivi, nei giorni in cui la gente ha assaltato i magazzini.
Sara ora dorme tranquilla, ma ricordo che era contraria a comprare tutto come fossimo dei pazzi spendaccioni.
L'ultimo giorno di spesa eravamo provati, stanchi e affamati. per quattro giorni abbiamo fatto incetta di tutto ma mai comprando grosse quantità nello stesso posto.
Si entrava nei supermercati o nei negozi in modo che sembrassimo estranei ed ognuno faceva la spesa. Poi la nascondevamo in macchina e via per un altro mercato, per un altro villaggio, per un altra città.
In quei giorni la mia carta di credito friggeva ma non ha mai smesso di funzionare e i contanti cambiati al mercato nero erano una manna.
Il giorno che finimmo e ci mettemmo a contemplare tutta la nostra mercanzia provammo una strana sensazione.
Sara mi chiese:"Ma è normale? Ma cosa abbiamo fatto?Quanto hai speso? E adesso?"
"Boh?!" le ho risposto,"Se non succede niente, allora apriamo un mercatino…"
Il giorno dopo la Tv trasmetteva immagini stranissime.
Banche chiuse in tutto il mondo, gente in coda presa dal panico davanti a scaffali vuoti. Aeroporti chiusi. Distributori presidiati dall'esercito. Comunicazioni telefoniche e telematiche interrotte.
Non potevamo più sentire i nostri parenti…
Lassù il mondo sembrava impazzito.
"Aspettami qui mezz'ora" le ho detto e sono uscito di corsa.
La mia carta di credito non mi ha tradito e in un'ora sono riuscito a ritirare una borsata di contanti.
Il giorno dopo anche qui è scoppiato l'inferno.
Adesso il Mac, i cellulari, l'Ipod, la carta di credito ed i carica batterie sono su un mobile buoni solo per fare arredo, reliquie del passato.
Il giardino ha otto bidoni della spazzatura con doppio fondo di cellophane e sotto sono pieni di gasolio o benzina.
Il letto nasconde otto batterie da auto nuove di zecca ed il frigo è diventato un armadio.
So che la gente è spaventata, si vede, so che la gente spaventata può diventare pericolosa.
la signora Rose ci ha dato un fucile con qualche cartuccia, ma io mi fido di più del machete e della mia MagLite.
La macchina è parcheggiata qui davanti in discesa con due batterie di riserva sotto ai sedili quattrocento litri di gasolio nei serbatoi e la tenda sul tetto chiusa ma imbottita di bottiglie di gasolio. Acqua in bottiglia e carne secca e zucchero caffè e sale e vestiti e medicine e corde, candele sapone ed accendini, carbone e legna… in pratica una versione in miniatura della casa che ci ha dato la signora Rose.
Se ci sarà bisogno di scappare siamo pronti, il problema è che non credo ci sia un posto dove andare.
Qui adesso, pare, siamo al sicuro: siamo abbastanza lontani dal mondo impazzito, lontani centinaia di chilometri dalla prima metropoli, che poi non è così grande. La fortuna, se così la vogliamo chiamare, ci ha fatto essere qui nel momento giusto.
Questo è un villaggio piccolo, forse mille millecinquecento persone. Quasi tutte le abitazioni sono vecchi cottage con i muri in pietra e calce ed il tetto di paglia e quindi buoni per ospitare persone senza elettricità. Queste case tengono fuori il caldo ed il freddo.
Non riesco ad immaginare cosa stia succedendo nelle grandi città. Sono convinto che la gente abbia iniziato a morire anche dove non doveva. Città allagate, città crollate, città contaminate, città abbandonate. Armi, bande e malattie.
Una sola strada conduce qui, arriva comunque da una piccola cittadina e da li prosegue per trecento chilometri prima di incontrare un centro di una certa rilevanza.
A venti chilometri da qui c'è, o meglio c'era il ponte, lo hanno fatto saltare un mese fa. Hanno fatto un bel lavoro, non lo hanno fatto esplodere, lo hanno tagliato ed ora, sul nostro lato ci sono quattro enormi tronchi ed una ruspa, nascosti e pronti a ripristinare la strada in caso di bisogno.
La strada per arrivare qui attraversa un lungo tratto di pianura facilmente osservabile e già provvisto di posti di blocco.
Poi l'asfalto si inerpica con qualche curva ed arriva qui, sulle colline ai piedi delle montagne.
So che con il fuoristrada ed un po di fatica, in quattro cinque giorni si può percorrere la strada delle montagne e da li raggiungere la vecchia statale 34, sterrata e in non buone condizioni ma percorribile.
Volendo in una settimana o due si arriva alla strada nazionale N2 e da li in poche ore al mare ed in una decina alla capitale.
Anche la strada delle montagne è presidiata. Lassù ci vado anch'io, il mercoledì ed il venerdì li passo a fare i turni che mi spettano, con il fucile e la sacca del cibo.
In quei giorni Sara mi aspetta a casa con Rose e suo marito che stanno qui con lei tanto a casa hanno quattro figli e due figlie che proteggono gli averi di famiglia meglio di un esercito.
Il mercoledì ed il venerdì durante il giorno Sara va a lavorare alla fattoria del fratello di Rose, Stephen, in cambio di ortaggi, carne o niente, dipende. il lunedì' mattina ed il martedì tutti andiamo assieme a lavorare nella fattoria dei McTyre, sempre per avere le nostre razioni di cibo.Il giovedì diamo una mano al mulino e la domenica a pranzo, dopo la messa e l'Incontro, scendiamo giù fino al primo posto di blocco e portiamo un termos di te ai ragazzi che fanno il turno di guardia.
Per adesso nessuno ha tentato di arrivare fino qui, a parte nei primi giorni, prima della demolizione del ponte.
in quei giorni sono arrivati, da soli o in piccoli gruppi, alcuni parenti di gente che vive qui. Un'ottantina in tutto.
Agli incontri della domenica, dopo la messa, siamo sempre cinque o seicento persone, gli altri presidiano case, magazzini e campi. Gli incontri servono per organizzare la settimana, il lavoro, le guardie, ma sopratutto credo, per conoscersi e guardarsi negli occhi.
E' per questo che mi vergogno di tutte le scorte che Sara ed io ci siamo fatti di nascosto.
Ogni giorno di più sento il bisogno di dirlo a tutti, almeno a Rose, ma poi non lo faccio e mi vergogno.
Se ci troveremo alle strette vedremo se svelare il segreto o meno.
Credo che tutti abbiano delle scorte messe via perché ad oggi non ci sono stati furti o atti che segnalino la mancanza di cibo o acqua o altri generi di prima necessità.
Le tubature dell'acqua sono intatte, le tre sorgenti presidiate e per ora tutti lavorano e si comportano al meglio.
Però di notte abbiamo paura.
Abbiamo paura perché sappiamo che la fuori il mondo è impazzito, che sta' succedendo qualcosa di orribile e la gente muore in massa ogni giorno.
Domenica scorsa si è parlato per la prima volta di mandare un piccolo drappello di esploratori a vedere cosa succede fuori dalle montagne.
Io ne avevo già parlato a lungo con i figli di Rose e la nostra conclusione è stata che è meglio non farlo, non si può rischiare di far scoprire la nostra presenza. Meglio essere dimenticati.
Ma la curiosità è forte. 
Ci sono ora due scuole di pensiero: qualcuno dice di scendere, magari di notte giù al ponte, di guadare il fiume e percorrere i trenta chilometri fino al paese più vicino costeggiando la strada principale e laggiù vedere cosa succede.
In questo modo in uno due giorni si avrebbe qualche notizia.
Gli altri, tra cui ci sono io ed ovviamente i figli di Rose, pensano che sarebbe meglio percorrere i piccoli sentieri di montagna, scendere poi nella valle del Brandivei che seppur lontana è conosciuta dai pescatori di qui ed arrivare ai sobborghi della città.
Andata e ritorno credo che richiedano un minimo di quindici venti giorni.
Quest'opzione è sicuramente più dura e pericolosa ma ci sono meno probabilità di essere scoperti.
Vestiti da straccioni e con il minimo indispensabile nello zaino.
Sei sette giorni di cammino sulle montagne e poi, anche se si venisse scoperti, nessuno saprebbe da dove si arriva. Questa è una grande sicurezza per il villaggio. In più arrivare vicino alla città darebbe una visione più completa di ciò che sta' succedendo.
Comunque sia, io ho già dato la mia disponibilità ai figli di Rose e loro lo anno fatto sapere all'incontro.
Sara non ne voleva saper ma alla fine ha ceduto.
All'ultimo incontro si è parlato molto di questa esplorazione ma alla fine si è convenuto di aspettare, di vedere come si mettono le cose e semplicemente di allargare di qualche chilometro i giri di ronda e di mettere delle vedette in più sulle creste delle montagne e lungo i piccoli sentieri di montagna.
Ora sto aspettando che Sara si svegli, oggi non abbiamo niente da fare e la lascio dormire più che riesce, tanto le congetture le abbiamo già fatte tutte. So che le mancano molto suo padre, sua madre e sua sorella, ma sembra se ne sia fatta una ragione.
é così strano pensare che tutta la gente che conoscevi, forse è morta, forse è viva e soffre perché non ha notizie, o forse uccide ed è passata dalla parte dei cattivi.
Chissà. Io credo che siano morti quasi tutti, ma a Sara dico sempre che se noi stiamo bene non c'è motivo perché non stiano così anche loro lassù.
Io però sono certo che la situazione in cui ci troviamo noi sia molto particolare, credo che la fortuna che abbiamo avuto a trovarci qui in questo momento in questo posto non sia per tutti.
Le ultime notizie che potemmo sentire prima che tv, internet e telefoni smettessero di funzionare, davano catastrofi su tutti i fronti.

A noi per ora non rimane altro da fare che aspettare. Sara si è svegliata, vado a soffiare sul carbone per scaldarle il caffè ed intanto mi fumo una sigaretta.



Mi chiamo Baron, o per lo meno Baron è uno dei miei nomi, gli altri si sono persi o non me li ricordo, che poi è la stessa cosa. 
Magari qualcuno me lo ricordo ma non li voglio dire. 
Mica si può scherzare con i nomi.
Sono una cosa seria, anzi serissima. 
I nomi sono poesia per chi li pronuncia e gioia per chi li porta, musica per chi li ascolta e medicina per i guaritori. Un nome, nelle mani giuste, può uccidere o guarire, far rinascere o far ammalare. é per questo che ci sono nomi che sono segreti, nomi che conoscono solo in pochi e che altri non devono sapere e tanto meno pronunciare.
Mi ricordo che una mia vecchia zia aveva un nome che è meglio non scrivere e questo nome lo conoscevano solo le sue sorelle, un giorno, mentre era al mercato dei peperoncini le si avvicina una ragazza mai vista con aria spavalda la guarda e le dice :"io lo so come ti chiami tu, tu sei ..." e pronuncia il suo nome segreto sibilandolo tra i denti come farebbe un serpente se sapesse parlare. La mia vecchia zia non ebbe nemmeno il tempo di reagire, piombò a terra come un sasso. 
Si riprese solo due settimane dopo. Ci volle l'aiuto di tre guaritori e il supporto di tutta la famiglia. 
E' per questo che io dico sempre "Chiamatemi Baron, Baron e basta, grazie ed arrivederci."  
Comunque "Baron" mi piace, deriva dal mio nome originario, tutti gli altri sono nomignoli o secondi e terzi nomi, nomi di famiglia o di quartiere, nomi che si usano in determinate circostanze o solo per certi periodi, nomi di cortesia o di scherno, nomi di riconoscimento o di appartenenza. 
Ma "Baron" va bene, benissimo, mi ammanta di un'aura di nobiltà e fierezza che altrimenti non potrei avere.
Sono nato povero, che comunque a Kinshasa non è una condizione particolarmente strana, si insomma, se sei povero sei nella norma. Una baracca di lamiere e cartoni, un pavimento in terra ma rialzato e asciutto, sei fratelli e due sorelle padre e madre.
Mio padre è morto quando avevo otto anni. 
Una mattina sei uomini del quartiere hanno portato a casa il suo cadavere avvolto in una coperta e trasportato a bordo di una carriola senza gomma. 
Spingendo in quattro la carriola su per la salita di fango scivolando e bestemmiando, proprio quando noi piccoli siamo usciti a vedere cosa succedeva, la carriola si impunta e si gira su un fianco e mio padre, il cadavere di mio padre, si rovescia, sguscia fuori dalla coperta e rimane lì, a faccia in giù nel fango.
Questa scena mi ha colpito più della morte, mi ha lasciato esterrefatto.
Le mie sorelle hanno pianto una settimana e non smettevano mai di raccontare e raccontarsi quanto il papà fosse buono e bello. La mamma ha portato il lutto per un anno e la sorprendevo a piangere di nascosto mentre pestava il mais o mentre scopava la casa. I miei fratelli hanno preso sette sbronze consecutive, laggiù nella baracca della Primus, a raccontare ed a farsi raccontare le mirabolanti avventure del babbo quando era in vita. Avventure inventate, avventure da birra e da sbronza, avventure solo immaginate. 
In realtà la morte di mio padre è stata una grande fortuna per tutta la famiglia.
Zio Françoise ci ha adottato un mese dopo, veramente siamo noi che abbiamo adottato lui perché in realtà era senza famiglia.
Zio Françoise aveva una moglie ma quella qualche anno prima era diventata matta ed era diventata un'adulta che si comportava come una bambina di cinque anni. 
Zio Françoise è ricco, ricco per i canoni del nostro quartiere, può comprare alcune cose che non servono, come la radio, un terzo o un quarto paio di pantaloni, le scarpe, collane e bracciali in finto oro, l'orologio da polso. E poi ha la macchina, senza i vetri laterali ma tanto fa sempre caldo. La sua ricchezza si vede soprattutto dal fatto che quando beve la birra non beve Primus come gli altri uomini del quartiere, no, lui beve Heineken ed in mancanza di quella qualunque birra basta che sia di importazione. E poi lo zio in casa ha il generatore, due lampadine una vecchia ed enorme tv con la parabola e, lusso dei lussi, un frigo grosso come un armadio, legato con una catena che ci gira attorno e fermata con un lucchetto. Quando vengono amici importanti e quasi tutti i sabati sera anche se non viene nessuno, lo zio mette la benzina nel generatore, mette in moto e poi accende tutto, le due luci, una sotto il portico ed una nella sala con i divani, la radio messa in bella mostra nel giardino e la tv in sala. Il frigo viene liberato dalle catene e riempito di birra e coca cola. Mica roba qualunque, Heineken e Coca Cola, "Purissime" dice lui. Il volume di radio e tv deve essere al massimo, così che tutti sentano ma anche per coprire il rumore prodotto dal motore del generatore che strilla come un'aquila.
Un vicino dello zio ha aperto li attaccato un baretto che è piuttosto frequentato perché arriva un po’ della luce del portico e si sente la musica della radio in cortile. Allo zio non da fastidio, ogni tanto ci va anche lui a fare due chiacchiere con gli avventori; però si porta la sua birra.
Così, qualche mese dopo la morte di papà, abbiamo smontato la nostra baracca, abbiamo fatto su lamiere, stracci, pentola e legname e ci siamo trasferiti nel cortile dello zio.
Lo zio aveva una bella casa, fatta di mattoni grigi e un tetto vero e poi un cortile con tre alberi ed una specie di muro che recintava la sua proprietà. La casa non aveva le porte e le finestre ma lo zio Françoise diceva sempre che presto le avrebbe fatte mettere, aspettava sempre che certi suoi affari gli andassero per il verso giusto.
Poi noi ci siamo stabiliti nel cortile con la nostra baracca di assi e lamiere e lui ha preso la mamma a vivere in casa.
Devo dire che siamo stati proprio fortunati. 
Lo zio Françoise ci ha fatto studiare tutti quanti e a causa di questo, credo, non ha mai più messo porte e finestre alla casa. 
Quando ci spostammo pioveva forte, era uno di quei giorni che tutta l'acqua del fiume sembra salire in cielo come nebbia per poi caderci sulle teste e pulire le lamiere e scrostare le assi dal fango e scavare canali profondi come burroni nelle strade. 
Così spostarci non fu una cosa divertente come mi ero aspettato. 
Fango dappertutto, acqua ovunque e anche un po’ di freddo. Mi ricordo che mi feci un bel taglio con una lamiera, un taglio alla mano. Mamma lo guardò, il taglio intendo, lo guardò e mi disse che non era nulla, di farci la pipì sopra e che più tardi me lo avrebbe medicato con un po’ d'erba.
Così lavorammo tutti per una giornata intera. Lo zio non venne ad aiutarci ma mandò due uomini che ogni tanto lavoravano per lui e, a dir tutta la verità, furono loro a fare il grosso del lavoro. Mamma trasportava cibi, quel poco che c'era, la pentola e due tazze e poco altro. Noi piccoli i bidoni per l'acqua vuoti ed i vestiti che avevamo addosso, tanto erano gli unici vestiti che possedevamo. Piedi nel fango e teste sotto la pioggia.
Verso sera ci raccogliemmo tutti sotto al portico di zio Françoise a guardare la pioggia ed a cercare di capire dove avremmo dormito quelle prime notti in attesa di rimettere assieme la nostra casa-baracca. La mamma fece fuoco e si mise a cucinare quel poco di manioca e di riso che ci era rimasto, credo per cercare di sdebitarsi con lo zio.
Io mi ricordo che guardavo fuori, attraverso la spessa coltre d'acqua che scendeva come una cascata, guardavo il cortile e quel mucchio di assi e lamiere arrugginite e storte che era la nostra casa. Come era possibile che quel cumulo di spazzatura si sarebbe presto trasformato in una casa? 
Rimasi soprattutto colpito dal fatto che quell'orribile e triste mucchio di spazzatura, fino al giorno prima fosse stato effettivamente la nostra casa, la casa che tanto amavo, la casa nella quale ero cresciuto. Un lampo mi attraversò la mente: tutto il mio vecchio quartiere e, a ben pensare, tutta una grossa fetta di città era fatta esattamente come casa mia. Mi prese lo sconforto. Con la casa , la mia casa, ridotta a quella maniera, mi appariva chiaro che tutta la città era un enorme mucchio di spazzatura, una distesa quasi infinita di spazzatura più o meno ordinata in cui la gente viveva, cresceva e moriva, come aveva fatto papà. Niente a che vedere con la zona del centro dove ero stato due volte e soprattutto niente a che vedere con le città che si vedevano alla tv. 
Mi sentii perso ed impaurito e mi avvicinai a mia mamma che cucinava e piansi attaccato alla sua gonna. La mamma mi guardò e non fece nulla, non mi scacciò ma nemmeno mi compianse. Credo che avesse i miei stessi pensieri ma nessuno a cui dirli e nessuno cui avvicinarsi per piangere.


Fatto sta che ci trasferimmo li. La casetta fu ricostruita in pochi giorni e noi ci spostammo tutti li dentro in un bel giorno di sole, tutti tranne la mamma che rimase a vivere in casa con lo zio e la moglie dello zio, quella matta.
Dieci anni ho vissuto in quel posto, dieci anni in cui lo zio ci ha trattati come figli, dieci anni in cui ha trattato la mamma meglio di sua moglie. 
Ho potuto frequentare la scuola e poi fare dei lavori per certi bianchi che mi pagavano il triplo di quanto avrei potuto prendere da un nero. Lo zio conosceva molti bianchi, qualcuno addirittura veniva a trovarlo a casa il sabato sera, ma quelli più ricchi ed importanti non venivano mai, quelli era lo zio che doveva andare a trovarli. E ci andava spesso.
Faceva commerci, procurava mano d'opera e intrallazzava un po’, procurava cose e aggiustava situazioni e loro in cambio lo pagavano in denaro o in favori.
Uno di questi favori fu farmi entrare a lavorare al porto appena finita la scuola. 
In porto ero uno dei più giovani ma anche uno dei più grossi e quindi tutti mi trattavano con rispetto. Così grazie allo zio ebbi uno stipendio quasi fisso e grazie ai suoi insegnamenti cominciai a commerciare. Non fu molto difficile, cominciai scoprendo che, senza chiederlo, chi voleva attraccare o caricare e scaricare più rapidamente, mi regalava della merce ed io facevo in modo che tutto filasse veloce e liscio. Questa merce dapprima la portavo allo zio ma poi lui mi spiegò che potevo facilmente trovare persone disposte a comprarla.
Così cominciai a commerciare cose.
In più scoprii che giù lungo il fiume arrivavano barche e navi piene di cose strane e nuove. 
Mi misi a comprare l'artigianato migliore ed aprii un mio negozio giù al mercato dove misi mia sorella a vendere, poi ne aprii uno di frutta al mercato degli alimenti. Quest'ultimo fu quello che rese più soldi. All'arrivo delle merci in porto sceglievo le migliori e le pagavo meno di chiunque, poi le aggiungevo ai regali che mi venivano fatti e portavo tutto a mio fratello al mercato e lui non faceva in tempo ad esporre la roba che già era venduta.
Al porto arrivavano barche e navi che percorrevano migliaia e migliaia di chilometri attraversando la foresta, risalivano il grande Zaire su, su fino a Kisangani e a volte anche un poco oltre. Quell'immenso e maestoso fiume mi attirava come una calamita, sentivo parlare di città favolose come Mbandaka con il suo immenso giardino botanico, di Lisala, la superba città in cui nacque il nostro presidente e poi di Bumba e di mille altri porti, piccoli e grandi, di luoghi dove i maghi solcavano le acque a cavallo di enormi uccelli, di animali mai visti e di ricchezze immense, di pesci, aquile e streghe, di donne bellissime che salivano sulle navi completamente nude per contrattare banane e cocchi.
I racconti non smettevano mai, più a nord il fiume diventava grande come il mare ed i temporali erano così forti che se non ti tappavi occhi ed orecchie potevi diventare sordo o perdere la vista. Racconti di scimmie quasi umane, capaci di parlare e far di conto, di uomini appartenenti a tribù dimenticate che erano pelosi come animali e avevano gli occhi gialli ma comandavano le api e facevano il miele migliore del mondo.
Questi racconti mi incantavano, mi estasiavano e mi rapivano.
Così riuscii a mettere via abbastanza soldi da pagare l'anticipo per comprarmi una chiatta da carico. 
Dio solo sa cosa avrei dato e cosa darei per comprarmi una barca spingitrice, ma nemmeno in dieci vite si possono accumulare tutti quei soldi.
Comunque all'età di vent’otto anni riuscii a comprarmi la mia chiatta, ad indebitarmi per almeno dieci anni, a far prendere il mio posto di lavoro a mio fratello ed a partire verso nord sull’immenso fiume.

Affittai la mia chiatta e la mia persona ad un francese della città, uno che possedeva non uno ma quattro spingitori.
Il francese aveva il suo spingitore, il suo equipaggio ed i suoi contatti. io ricevevo una minuscola percentuale dei guadagni sul trasporto della merce che veniva posata sulla mia chiatta e lui si arricchiva. Comunque fu un buon affare. Mi ritrovai sul fiume, legato ad altre cinque chiatte e spinto da un potente motore diesel John Deer nuovo di zecca.
Di fronte a me l'infinito, sotto le acque marroni del grande Zaire, sopra il cielo blu e tutto attorno l'immensa foresta che mi circondava per migliaia di chilometri, facendomi sentire a volte smarrito ed a volte protetto.
Ero in pace con me stesso, diretto a nord-est immerso nei miei pensieri e sempre più dentro a quel nuovo e grande mondo.



Il fiume è grande, immenso, largo quanto una regione e scuro come la notte. 
Era la mia prima volta, ero partito due mesi prima da Kinshasa e tra qualche giorno avremmo fatto una breve tappa a Lisala a scaricare cento casse di birra e una chiatta per i grimm.
Quell'immensa massa di acqua marrone che non scende ma scivola, calda come l'olio e tiepida come la notte, da una specie di strana assuefazione.
Il pusseur, che quella volta si chiamava Shirkiana, procede con potenza ma molto lentamente, tre quattro chilometri all'ora, che sembrano dieci quando guardi l'acqua che scorre in senso contrario. Quando poi alzi lo sguardo verso il muro verde della foresta ti rendi conto della straordinaria lentezza alla quale ci si muove.
Il lentissimo scorrere della vegetazione e delle torbide acque del fiume si fanno strada nelle teste delle persone che vivono sulle chiatte e sul Shirkiana. Tutto si rallenta, movimenti e pensieri, gesti e sguardi.
Accendere i fuochi al mattino è un rito che sulla terraferma dura al massimo dieci minuti, qui può protrarsi anche per mezz'ora o più.
Stendere i cavi di acciaio ed arrotolarli e trascinarli al loro posto è una pratica che tra parole e gesti può portare via anche un'ora.
Ed intanto il fiume scorre, mesto ma inarrestabile ed i motori combattono quindici sedici ore al giorno contro questa immensa forza.
Due uomini dell'equipaggio passano le ore accovacciati sui sacchi di mais sulla poppa della prima chiatta, con gli occhi sempre vigili e con gli scandagli sempre pronti. Questo immenso essere che è il fiume è un essere basso, pericoloso per le secche di sabbia e talvolta di rocce.
Ci si abitua a tutto, anche a stare qui sopra, a sopportare i cinquanta gradi di giorno che rendono bollenti le superfici di ferro e sciolgono i nylon stesi a riparo della merce, ci si abitua agli improvvisi temporali di tempesta che obbligano il comandante ad arenarsi contro alla foresta risvegliando il sonno di milioni di creature grandi e piccole. Ci si abitua ad essere strappati al sonno da una folata di vento impetuoso che strappa le coperture e ti lascia alla mercé della pioggia che ti sbatte addosso come una frusta, ci si abitua a rintanarci come topi con i topi nelle anguste stive impestate di pidocchi del mais, ratti e zanzare.
Insomma, ci si abitua a tutto. io però non riesco ad abituarmi all'assenza di qualcuno che mi stia accanto, di una donna che non mi consoli solo una notte ma che mi scaldi il cuore ed il letto tutte le notti e la colazione la mattina e la cena la sera. 
Feci da solo il primo viaggio, o consegna come la chiamano qui, poi portai con me Francine.
Francine era una delle donne che frequentavo più spesso quando ancora lavoravo in porto a Kinshasa e scelsi proprio lei perché quando tornai al porto dopo cinque mesi la trovai là, sul molo, un po’ in disparte, vestita così bene che quasi non la riconoscevo e con gli occhi lucidi e le labbra tremanti dall'emozione. Proprio come un'amante, proprio come una moglie.
A Kinshasa
 bianchi non se ne vedevano poi molti, ma comunque c'erano ed io ne incontravo molti, sin da bambino ero stato abituato alla loro presenza dal fatto che lo zio Françoise faceva affari con loro ed addirittura aveva degli amici che portavano le famiglie a cena da noi.
Sul fiume in dieci anni non ne ho mai visto uno, o meglio, tre.
Due preti missionari in fuga dalla guerra durante la mia seconda consegna ed un ragazzo bianco come il latte durante il viaggio della mia ottava consegna. Insomma, tre bianchi in dieci anni sono davvero pochi. Neri neri neri. Milioni di neri che abitano questa immensa foresta ed alla quale si affacciano per vedere le chiatte che transitano, lente come lumache e lunghe come vermi giganti.
I preti in fuga li caricammo a Bumba e li lasciammo a Kisangani, dove ancora funzionava l'aeroporto, una settimana dopo.
L'altro bianco, un italiano, di nome Paolo, salì con noi sul convoglio prima ancora di partire da Kinshasa e ci rimase fino su a KIsangani, restò con noi più di tre mesi.
Questa cosa di non incontrare bianchi mi ha sempre fatto un certo effetto, mi sembrava strano che non ci fossero loro a dare consigli, ordinare e comandare e mettere ordine come facevano sia a Kinshasa che a Kisangani. in effetti l'assenza di bianchi ci rendeva tutti un po’ più liberi e questo era un piacere, ma allo stesso tempo, e la cosa mi faceva davvero male, mi accorgevo che spesso il disordine e l'inefficienza la facevano da padroni.
Nei tre porti più importanti, dove Europei e Libanesi avevano il comando delle operazioni di scarico e carico tutto filava liscio e veloce. La merce entrava ed usciva dalle stive in egual misura e con la stessa rapidità, tanto che la chiatta si alzava e si abbassava di pochi cm.
Nei porti piccoli o secondari dove svolgevamo operazioni di scarico e carico di poca merce, il controllo era affidato a persone del posto e le operazioni potevano durare anche una settimana, tra urla, feriti, furtarelli e litigi. Capitava spesso che venisse scaricata merce che era appena stata fatta caricar, capitava che molta merce finisse in acqua e che altra semplicemente sparisse per qualche giorno per poi essere ritrovata nelle stive della chiatta sbagliata.
Io dirigevo al meglio le operazioni di carico e sgombro della mia chiatta dove tutto riusciva quasi sempre al meglio, ma quando un funzionario bianco mi si presentava davanti ero sempre ben felice di cedergli il posto ed andare a bermi una birra gelata o per lo meno fresca.
Kinshasa, Mbandaka e Kisangani, in tremila km di fiume erano praticamente gli unici posti dove potevi trovare una birra fresca, qualche bar, e magari un po’ di compagnia per la serata.
Tutto il resto era foresta densa e fitta, acqua marrone e di quando in quando qualche approdo per i grimm o qualche cittadina divenuta ormai solo un grande villaggio dove le cose più tecnologicamente avanzate erano i motori diesel del nostro pusseur.
Quando approdavamo alle rive scoscese di Lisala, il villaggio entrava in festa, magari erano sette otto mesi che nessun pusseur attraccava e quindi tutta la città accorreva a fare gli onori di casa ed a vedere se c'era la possibilità di acquistare o barattare qualcosa.
Fu in posti come questo che cominciai a conoscere un po’ di più il  mio paese, povero e disperato ma pieno di gente semplice, buona ed onesta. Cittadine che portavano i segni della guerra, impressi a fuoco come cicatrici indelebili. Tracce di antichi asfalti si frammezzavano a pozze di acqua stagnante e vecchie abitazioni coloniche erano diventate il rifugio di decine di famiglie.
Tutto ciò si mescolava a migliaia di capanne fatte di fango, paglia e lamiere.
l'antico porto era andato ormai in rovina e talmente mal ridotto da far preferire l'attracco direttamente alle sponde terrose del fiume.
Gente così povera che non sapeva nemmeno cosa fosse la ricchezza, persone che guardavano il nostro pusseur come se fosse una nave scintillante venuta dallo spazio.
In queste vecchie città non esisteva nemmeno la possibilità di cercare un bar o una pensione, la nostra vita sulle chiatte rimaneva immutata, come se fossimo in navigazione.
Eppure in tutto questo sentivi un cuore nero e potente che pulsava, come un grande essere la foresta viveva ed il fiume con i suoi mille canali erano le vene e le arterie e noi piccoli esseri parassiti di questo grande corpo.

Io non ho mai avuto paura di morire, perché mi hanno sempre insegnato che la morte fa parte di noi e non ne possiamo fare a meno, anzi, senza di lei non esisteremmo. Eppure, delle notti, aggrappati alle sponde del fiume, legati come prigionieri ai grandi alberi della foresta, quando il nostro convoglio se ne stava allacciato contro le nere pareti di quel bosco immenso,avevo paura, a volte provavo terrore.
Stavamo lì, tutta la notte, nel cuore allo stesso tempo silenzioso e sommesso e caotico e rumoroso. Un frastuono muto, quasi una vibrazione, prodotta da milioni di creature disturbate dalla nostra presenza, dava voce ad una vita immensa, ad un essere sovrumano che le usa come voce ed espressione.
Così mi sentivo piccolo, indifeso e provavo il terrore della morte, il terrore di morire dentro a qualcosa di talmente immenso che era in grado non solo di farmi scomparire ma addirittura di cancellare tutto ciò che ero stato prima. L'immensa foresta, l'immenso fiume, l'immenso Congo, mi davano la certezza che era possibile che mi dissolvessi nel nulla come se niente della mia vita fosse accaduto.
Morte e solitudine.
ma allo stesso tempo mi sentivo al sicuro, come di fronte ad un fuoco che arde nel cortile di casa tua ed i tuoi cari lì vicino. Sicurezza ed amore animale come quelli che si provano senza saperlo quando si è nel ventre della propria madre.

La foresta mi soffiava addosso il suo alito, fragrante e pestifero di volta in volta, a secondo del suo umore o dei miei stati d'animo. Se non riesci ad entrare in sintonia con questo respiro rischi di soffocare, rischi dei essere sopraffatto dalle tue paure, dalle malattie e dalla morte incessante che ti circonda.

Risalendo il grande fiume ci si avvicina al cuore della foresta, al cuore del continente, al cuore della guerra e di sicuro al cuore degli uomini. Anche di quelli morti, che qui sono quasi una presenza forte come quella dei vivi.
I cadaveri, scivolano lungo la corrente come tronchi d'albero flosci, rigidi nella forma ma molli nella direzione, lascivi con le grandi radici degli alberi che si tuffano nel fiume ma ostinati con le acque che faticano a trattenerli sotto la superficie.
Capitava molto, troppo spesso di scorgere cadaveri attorcigliati dalla corrente contro qualche ansa oppure di sentirli strisciare all'imbrunire contro le basse sponde delle chiatte.
Spesso la gente li osservava scorrere lenti, senza nemmeno interrompere le faccende della giornata.
Più si arrancava verso nord- est e più gli incontri con i cadaveri erano frequenti. lassù la guerra non dava nemmeno degna sepoltura ai suoi figli.
Quasi sempre i cadaveri scendono a faccia all'ingiù e questo è un bene perché vedere la faccia dei morti porta male e fa dormire male la notte e la notte è meglio dormire perché ci sono troppi rumori nella foresta ed ascoltarli tutti si dice che porti alla pazzia.
é strano a dirsi ma di giorno la foresta pare più silenziosa.

Ho passato dieci anni a fare su e giù per questo fiume, sette consegne le ho fatte con Francine al mio fianco e poi con i due piccoli che abbiamo avuto, ma la maggior parte me le sono dovute fare da solo. Ho incontrato amici leali e persone truci e pericolose, si, molto pericolose, perché se non stai più che attento sulla tua chiatta ci possono caricare cose che sono addirittura difficili da immaginare. Noi tutti trasportiamo cose povere, merci da poco, che hanno valore solo in enormi quantità come mais o farina di manioca, ma chi può sapere cosa c'è nella stiva della chiatta di fronte?
Si racconta di personaggi padroni di chiatta e di gerenti di Pusseur che con due viaggi sono diventati mezzi ricchi e si sono ritirati, ma poi sono morti giovani di tremende malattie. 
Di sicuro una volta è stato ritrovato un pusseur con tanto di chiatte arenato su una secca in mezzo al fiume, in un canale secondario, tutte le duecento persone morte e putrefatte e mezze divorate dai rapaci. Tutti morti di una strana malattia, tutti morti rapidamente, nessuno fuggito e le stive mezze vuote.
Ecco che alle volte la morte te la trascini dietro e nemmeno lo sai.
Comandanti disposti a tutto ed equipaggi votati al sacrificio  per un pugno di dollari.
Ma in mezzo a tutto questo la maggior parte di gente che ho incontrato è gente buona, gentile, persino dolce, mille volte più solidale di quelli che vivono nelle città.
Adepti di strani ed antichi riti accostano il convogli su piroghe decorate da demoni o dei della foresta, qualcuno maledice il convoglio e poi fugge aiutato dalla corrente per evitare gli sputi o il linciaggio. Altri accostano per benedire il viaggio e per toccare il ferro che è un elemento che si dice porti buona sorte.
Ma la maggior parte degli abitanti della foresta accosta le chiatte in movimento per fare baratto e commercio.
Scimmie in cambio di abiti, aquile da cibo in cambio di scarpe, tamburi in cambio di polli e poi pesce e manioca, olio di palma e chicuan in cambio di qualche franco.
E noi lì, a continuare il nostro viaggio rosicchiando scimmie magre come chiodi e non grassi polli perché anche se sai che non è vero, ti convinci che è meglio, ti convinci che la scimmia ti da forza e l'aquila coraggio, il verme nutrimento e l'acqua del fiume longevità.
Quando passo qualche settimana in città mi rendo conto della follia di tutto ciò, mi rendo conto che in mezzo al cuore della foresta il mondo si capovolge, la scienza scompare e lo spirito prende il sopravvento sulla carne e l'animale sull'uomo, l'istinto diventa primario e la ragione una cosa buona per i bambini.
Così, seduto in un ristorante di Kinshasa capisco che la scimmia non ha carne e porta malattie, che l'aquila non da coraggio ma ci vuole coraggio per mangiarne la dura carne, che una bistecca è meglio di dieci vermi e che l'acqua del fiume ci fa crepare giovani.
Poi, un mese dopo sono lì, a scambiare un pollo sano con una pentola di vermi, a tirare su l'acqua dal fiume con un secchiello sudicio ed a osservare la foresta che scorre, lenta come i miei pensieri e grande come un continente. 
Da lì, in mezzo al fiume, con fatica, ripenso a me, ben vestito, seduto in un discreto ristorante di Kinshasa e mi vedo come una femminuccia, flaccido e debole, circondato dagli agi e mosso dagli ozi. Tutto si rovescia e si capovolge, ad ogni partenza, ad ogni arrivo mi sento sempre diverso e meno propenso a capire ma sempre più disposto ad accettare l'esistenza di due persone dentro allo stesso corpo.
Queste piccole cose fanno parte della magia, parte del regno magico che almeno due volte all'anno attraverso e con il quale mi confronto. Fatica e paura, gioia e speranza sono le forze che mi fanno continuare.

All'ottava consegna della mia vita, dopo un mese di navigazione, ormai avevo stretto amicizia con Paolo, l'italiano fece tutto il viaggio con noi. Paolo si trovava bene con me, parlava con tutti e viveva proprio come noi, infatti si prese malaria, vermi, infezioni e funghi, tutti più di una volta e tutti durante un solo viaggio.
Parlavamo spesso,  e spesso si mangiava assieme, lui comprava un po’ di roba dalle piroghe ed io ci mettevo legna e cuoca.
Non riuscivo bene a capire perché Paolo fosse lì con tutti noi su quella chiatta. 
Era una domanda che gli facevo spesso e lui alle volte sembrava addirittura non capire, altre mi rispondeva che era lì per lo stesso motivo per cui c'ero anch'io. Ma a me i conti non mi tornavano. Proprio no. Io ero lì perché era il mio lavoro!
Quando rispondevo così Paolo mi diceva che lavorare per lavorare avrei potuto farlo a Kinshasa magari anche vicino a casa.
Capivo solo ogni tanto che aveva ragione, lo capivo solo qualche volta perché spesso, dovevo mentirmi. Insomma, la vita sulla chiatta era estremamente dura ed io dovevo credere che ci fossi costretto, altrimenti non lo avrei sopportato. Altre volte, quello che invece mi faceva resistere era esattamente l'opposto, ovvero sapere che era una vita che mi ero scelto ed allo stesso modo avrei potuto sceglierne una diversa.
Paolo, quando lo incontrai, erano due anni che girava per tutto il continente, aveva visto posti che noi sulla chiatta non potevamo nemmeno immaginare ed arrivato a Kisangani avrebbe continuato il suo viaggio mentre tutti noi saremmo tornati indietro.
quante volte la sera, sul tetto del pusseur o sulla poppa della prima chiatta ho fantasticato di scendere a Kisangani e poi di proseguire il mio viaggio fino ai confini dello stato e poi proseguire oltre, magari arrivare al mare e poi continuare, a nord o a sud, oppure salire su una nave ed andare verso l'Asia. Comunque non potevo, il mio passaporto, come il novanta per cento dei passaporti congolesi, non era valido per l'espatrio.
Paolo sul suo passaporto aveva decine di visti e timbri e me lo fece vedere più di una volta. Un Bellissimo passaporto viola, spesso il doppio del mio ed all'apparenza molto più come dire... serioso.
Il mio passaporto era verde e sottile, sgualcito e vecchio e con solo qualche timbro di Brazzaville, l'unico posto in cui mi era concesso di andare.
In somma, Paolo era, se avevo capito bene, una specie di esploratore moderno, era, a dirla alla congolese, "in missione di esplorazione". Però era un esploratore senza capi ne padroni, senza rotta ne destinazione. In ogni momento poteva decidere di fermarsi o di cambiare strada e meta. Tutto questo mi appariva bello da un lato ma terribile da un altro. La libertà totale di cui godeva quel ragazzo, a dir la verità un po’ mi spaventava. Non credo sia molto facile arrivare ad un bivio e dover decidere da che parte svoltare senza avere ne pressioni ne consigli, dover capire semplicemente da che parte vuole girare il tuo cuore. Quale sarà mai la scelta giusta? Non esiste la scelta giusta, e qui sta la difficoltà.
Comunque Paolo sapeva tante cose, aveva lavorato in tanti paesi diversi ed aveva viaggiato tanto ed a me faceva piacere starlo ad ascoltare la sera dopo mangiato.
Storie lunghe e storie brevi, storie interessanti e storie noiose, storie magiche e storie troppo vere per essere vere per davvero. Tutti i suoi racconti facevano capo alla fine allo stesso argomento, ovvero che non aveva mai trovato un continente come questo, così disastrato, così inesplorato, così difficile ma allo stesso tempo così bello ed ospitale.
Una sera Paolo fece qualcosa che cambiò radicalmente la mia vita.
Essendo bianco aveva dei privilegi scontati. Essendo io suo amico avevo dei privilegi scontati.
Ad esempio Paolo poteva passare tutta la giornata e anche la notte su piano superiore del pusseur,meno al caldo di giorno e più lontano dagli insetti di notte. Io potevo andarlo a trovare quando volevo ed al tramonto, mentre Francine cucinava andavamo sul tetto del Pusseur a guardare il tramonto ed a parlare lui dell'Italia ed io della mia terra. 
Una sera, mentre eravamo lì, accovacciati a guardare il fiume Paolo tira fuori dallo zaino tre grossi fogli ripiegati, li stende sulle lamiere del tetto, li compone uno con l'altro li tiene fermi ai bordi con scarpe accendino ed un libro e poi, indicando un punto in mezzo a quei quattro metri quadrati di carta, mi dice: "Guarda, più o meno noi siamo qui!"
"Qui dove?" gli faccio io?
"Qui sul fiume vedi? Qui c'è Kinshasa, Qui Kisangani e Qui, dov'è, ah si ecco, qui Bumba e qui Lisala."
"Ma veramente non..."
Poi ho come un'illuminazione.
Carte geografiche ne avevo viste, ne ricordo una dell'esercito dove si vedevano tutte le strade ed i villaggi del sud Kiwu, un'altra che aveva un amico di Kinshasa dove erano riportate strade e fiumi della zona sud della provincia dell'Equateur ed una di Kinshasa dove c'erano segnati anche i nomi delle strade, anche nomi che nemmeno io conoscevo.
Ma quello che avevo davanti era incredibile.
Avevo di fronte a me le tre carte della Michelin,  che compongono l'Africa per intero ed io ero la in mezzo, senza saperlo nel cuore di quell'immenso continente.
"E l'Italia dov'è?" Gli chiesi.
"Beh, l'Italia" mi rispose Paolo "è quassù, non si vede, ma è proprio qui, vedi, una decina di centimetri oltre al bordo della mappa."
"E quanti chilometri sono da qui a lì?" gli chiesi.
"Non saprei, tanti, direi almeno diecimila, in aria magari, con l'aereo sei o settemila, ma per strada forse anche dodici o tredici."


Ciò che mi cambiò la vita fu che Paolo quella sera mi regalò le sue carte ed io le custodii come un tesoro per diversi anni e le guardai così tante volte che la carta nelle pieghe si consumò e divenne fragile e cominciò a strapparsi e dovetti fare mille pezze con lo scotch trasparente.
Le guardai così tante volte che conoscevo nomi e confini a memoria, riconoscevo strade e frontiere a colpo d'occhio.
Le guardai così tante volte che dopo sette anni decisi che era l'ora di scendere dalla chiatta e partire per l'Italia, ero partito lungo il fiume per conoscere la mia nazione e per entrare nel cuore della mia terra, adesso volevo vedere il continente intero ed uscirne fuori e capire cose che altrimenti non avrei mai capito.  




Mi ci vollero due anni interi per riuscire a sbarcare a Lisala, due anni di pratiche, documenti e piaceri fatti e ricevuti, mi ci volle tutto il coraggio e la tenacia di cui ero capace.
Così quando il convoglio accostò alle rive terrose del porto di Lisala io saltai giù con uno zaino in spalla, una carta di credito in tasca e, ben nascosto nelle mutande un pacchetto di dollari nuovi fiammanti.
Non mi voltai, non potevo, avevo gli occhi inondati di lacrime e così camminai senza voltarmi a testa bassa.
Sapevo che sulla chiatta c'erano i miei due fratelli che salutavano e soprattutto Francine che piangeva.
Percorsi tutto il piazzale di terra e poi svoltai su per la strada fangosa, girai attorno agli alberi che mi nascondevano la vista del fiume e del convoglio e da lì alzai la testa per guardare avanti, con gli occhi pieni di lacrime guardai avanti e da quel momento, per molto tempo non mi voltai più in dietro, nemmeno una volta.


"Facile come bere un bicchiere d'acqua." Disse con sicurezza Chef. "Arrivi giù all'incrocio, quello con la polizia con la camicia gialla, svolti a destra, trovi Place Emerità, svolti a sinistra e poi vai sempre dritto."
"Ma..." intervengo io "...sono settecento Km, scusa ma io intendevo..."
"Ma che cazzo dici Chef, uscire dal villaggio lo sa fare anche un bambino." ci interruppe Donato, "il problema secondo me è come muoversi, a piedi magari o con una moto, in bici forse."
"Che cavolo dici tu"lo sgridò Chef, "e non usare quelle parole, cazzo o roba del genere davanti a me non lo puoi dire, soprattutto in casa mia mentre ho degli ospiti. Comunque basta prendere un camion."
"Sii. Un camion del passato," disse ridendo Donato "il camion dei tuoi sogni, saranno dieci anni che dall'Ubangui non arriva un mezzo a quattro ruote e se è per questo nemmeno da Gemena. Mi pare che quattro anni fa è venuto giù un trattore con il carro da Tanga e ci ha messo così tanto che alla fine l'autista, un mese dopo se n'è tornato su con un motorino ed ha lasciato qui il trattore. Credo lo abbiano licenziato o peggio, comunque nessuno è più venuto a prenderselo, è laggiù che marcisce nel piazzale di Bienvenue." Detto questo Donato si abbandonò sullo schienale della sedia e guardò oltre il recinto della casa.
"Ma quindi cosa mi conviene fare signor Donato?" Chiesi io.
"Ti conviene cominciare a cercare un passaggio" Mi rispose prontamente Chef.
"Un passaggio inventato", lo pungolò ironicamente Donato "visto che nessuno va su da almeno due anni. Potresti cercare qualcuno che se la sente di provare in motorino ma non sarà facile, troppi rischi, se lo trovi ti chiede un sacco di soldi e poi magari alla prima opportunità scappa indietro. Per me la cosa migliore è che resti qui con noi fino a che non passa qualche Masùa che scende verso Kinshasa ci salti su e tanti saluti." Detto questo Donato si alzò per stirarsi la schiena ed intanto sbirciò con lo sguardo giù, lontano verso la strada.
"Bella soluzione," disse con sufficienza Chef, "come faccio a mangiare se ho fame? Beh la miglior soluzione è tenerti la fame e non mangiare. Bella risposta. Bravo Donato."
"Ma se non c'è niente da mangiare" disse Donato divertito continuando a cercare qualcosa con lo sguardo oltre la recinzione," è la sola risposta. Realismo caro, realismo."
"Realismo un bel corno, a ragionare così ci rimetti la pelle al primo problema. Del resto tu dormi in una baracca che non ha nemmeno il tetto, io in una casa e quando piove mica te ne stai sotto l'acqua, vieni qui e dormi sotto alle mie lamiere." Disse Chef con finta aria arrabbiata.
"Appunto, vengo qui e dormo sotto le tue lamiere, problema risolto senza dover costruire la casa." Rispose Donato con una punta di soddisfazione nella voce.
"Tu! non costruisci la casa, qualcun altro si, ad esempio io." Disse Chef.
"Se tu, tu non hai costruito un bel niente," riprese Donato sempre guardando altrove, "questa l’hanno fatta i belgi, è già tanto che tu non te la sei fatta cadere sulla testa in questi anni."
"Spero che il giorno che viene giù ci sia anche tu a godere del riparo delle mie lamiere e che una ti tagli di netto la testa." Gli fece eco Chef strizzando l'occhio nella mia direzione.
"Comprarmi magari una bicicletta e provare con quella cosa ne dite?" Chiesi io che non ascoltavo molto i loro discorsi ma cercavo qualche buon consiglio per risolvere il mio problema. "Da quello che ho sentito in questi giorni" continuai "mi pare la soluzione più logica. La migliore insomma."
"Con il motorino ci si mettevano cinque sei giorni" mi disse Donato, "e la strada sarà peggiorata in questi anni, ti ci vorranno una o due settimane a parer mio".
"Beh, di Tempo ne ho." gli dissi pensando che forse ne avevo persino troppo.
"Ma che due settimane" sbottò Chef, "e che cacchio, mica deve scendere all'inferno, secondo me in tre quattro giorni è arrivato."
"Magari mi cadesse addosso la casa e mi si staccasse la testa" disse Donato sorridendo rivolto a me, "così non sentirei più certe stupidaggini. Aprite le finestre e fate uscire le idiozie che ne siamo circondati..."
"Ma se siamo all'aperto grosso stupido" gli disse Chef, "e poi vedo più idioti che idiozie ed in quel caso sono più adatte le porte che le finestre."
"Comunque, quattro giorni o tre settimane" continuò Donato facendo finta di non aver sentito, "la bici da queste parti è sempre la soluzione migliore se te la puoi permettere. E tu te la puoi permettere?" Mi chiese guardandomi di sottecchi come per studiare a fondo la mia risposta.
"Dipende", risposi "conoscete qualcuno che vende una bici?"
"Beh dipende da quanto sei disposto a pagare" mi disse Donato guardando Chef con aria di intesa, "se paghi bene praticamente tutte le bici della città sono in vendita". Mi disse sempre guardando Chef, e poi mi guardò dritto negli occhi dicendomi:"Quaranta dollari e te ne porto una qui subito, con tanto di pedali  manubrio portapacchi e sellino di lana."
"Freni?" Chiesi io tempestivamente.
"Freni niente" intervenne Chef, "non chiedere troppo, tanto qui non vai mai così forte da dover frenare. Forse a Kinshasa sulle bici c'è bisogno dei freni, qui proprio no".
"Trenta dollari prendere o lasciare." Dissi rivolto a Chef, tanto ormai avevo capito che quei due li facevano assieme.
"Trentasette perché sei amico dello chef". Mi disse Donato.
"Altrimenti ti faceva venti da subito." Disse Chef ridendo. 
"Trentadue." Dissi con poca convinzione. Normalmente ero un ottimo contrattatore ma insomma, questi uomini mi avevano accolto come un amico e non mi andava di fare il pidocchio con loro, ma non mi andava nemmeno di calarmi subito i pantaloni.
"Trentacinque oppure ti arrangi e te la vai a cercare da solo." Rispose Donato.
"Trentatré". Proposi.
"E dai, non fare il miserabile, Se arrivi in R.C.A. la rivendi a settanta ottanta dollari." Disse Chef.
"Trentatré." Ripetei.
"Trentaquattro" Disse Donato con aria afflitta, quasi da cane bastonato. 
"Va bene". Dissi io e ci stringemmo la mano.

Così Donato si allontanò a procurarmi una bici. 
Ormai avevo deciso, almeno fino A Zongo e magari oltre ci sarei andato in Bici, avrei proseguito pedalando e spingendo fino a dove non sarebbero ricomparse strade praticabili e camion.
Il giorno del mio arrivo a Lisala, mentre risalivo la strada fangosa che dal porto dei grimm sale alla piazza principale, per altro più fangosa ancora della strada, un ragazzo mi aveva avvicinato e mi aveva avvertito che lo chef de poste mi voleva vedere.
Mi sembrava strano essere sbarcato senza che nessuno mi chiedesse qualcosa.
Così andai alla casa dello chef e ci rimasi per quasi tre settimane.
Dopo aver tentato di estorcermi dei soldi, si era reso conto che non gli avrei dato nulla e soprattutto quando vide i visti ed i lasciapassare firmati dal illustre sig. Presidente in persona, si era messo in testa di aver a che fare con qualcuno di importante e quindi ero diventato suo ospite. 
Quando poi, dopo qualche giorno, si rese conto che non ero proprio nessuno non ci rimase nemmeno poi tanto male, visto che comunque tutti i giorni gli raccontavo qualcosa di nuovo su Kinshasa e sulle altre città  che vivevano ma non prosperavano lungo il fiume. 
Notizie fresche per lui, anche se avevano qualche anno. 
Notizie che aumentavano la sua autorità come capo del porto e come membro del consiglio cittadino. Sembrava si stesse avviando alla carriera di saggio del villaggio e la mia presenza in casa sua ne aumentò a dismisura la credibilità.
Solo Donato gli teneva testa e lo faceva di continuo, erano amici da tanti anni che nemmeno se lo ricordavano più. Passavano tanto di quel tempo assieme a punzecchiarsi che, non fosse stato per il colore della pelle, avrebbero potuto essere scambiati per fratelli.
Donato era grande, grosso e nero come il carbone, nero come me.
Chef era giallo scuro scuro e in città tutti lo chiamavano Le Blanc. 
In realtà di sangue bianco ne aveva poco, un Portoghese tre generazioni prima, ma comunque un portoghese dai geni resistenti direi.
Chef aveva una gamba storpia rimasta così dopo quattro operazioni mica tanto riuscite, se l'era rotta cadendo dalla veranda di casa. 
Chef diceva che era buio e Donato diceva che era ubriaco.
Passavano le giornate seduti nella veranda, a discutere e ad aspettare che il tempo passasse.
Donato, grande come una montagna era sempre nervoso sudato ed agitato, non stava mai fermo, se non faceva andare la lingua muoveva freneticamente i piedi o le mani e si guardava sempre attorno come se stesse aspettando qualcuno che non arrivava mai.
Chef era più calmo e flemmatico ma una decina di tic differenti che continuamente gli deformavano la parte alta del volto tradivano la sua inquietudine.
Certo Lisala non sembrava il posto adatto per quei due.
A Lisala non c'è nulla da fare, forse un masùa ogni due mesi attracca e si ferma al massimo un giorno. Niente o quasi da caricare e niente da scaricare. 
A Lisala non si produce niente e si consuma ancor meno. 
Problemi alle strade la isolano dal mondo da ormai quindici anni. 
Un aeroporto di terra dove due volte al mese arriva e riparte un piccolo apparecchio della MONUC che di quando in quando sposta preti e poco altro.
Così questi due se ne stavano nella veranda a parlare, magari per mezza giornata attorno ad un ananas e magari ad elogiarne le qualità e magari ad inveire l'uno contro l'altro per accaparrarsi il diritto di tagliarlo.
In queste liti succedeva sempre la stessa cosa. 
Moralmente e dialetticamente vinceva sempre Donato, le decisioni le prendeva sempre Chef.
Così chef si alzava, camminava fino sul retro, prendeva il machete, tornava alla seggiola e, lentamente, molto lentamente, tagliava l'ananas e lo distribuiva con parsimonia 
Un po’ ai bambini, figli di moglie, di sorelle e di cognate, che correvano li attorno, un po’ a Donato e magari, se ne avanzava, ne mangiava una o due fette pure lui.
Tra l'altro Chef viveva credendo alla magia, ai feticci e soprattutto agli spiriti di fiume e foresta. E quindi molti dei gesti che faceva li compiva come se fossero riti, scanditi da simboli ben precisi e sempre con uno scopo che andava al di là della comprensione di Donato. 
Donato sembrava invece una specie di scienziato illuminista, pragmatico e realista come pochi altri in  città. Aveva studiato a Kinshasa ed era stato persino un mese in Belgio quando aveva tredici anni. 
Insomma si completavano l'uno con l'altro.
Certo che a volte Dio qualche stranezza la fa, e non parlo di polli con due teste o scimmie a tre code. Se proprio vai a vedere quelle sono cose quasi normali. 
No, parlo di cose come queste, di questi due che avrebbero dovuto essere un solo uomo ed invece erano un uomo diviso in due e poi parlo di me che in un solo corpo ho due persone diverse, persone che si mostrano alternandosi, l'uomo animale e l'uomo divino, l'uomo di città e l'uomo di fiume e foresta. Chissà chi avrebbe poi pedalato su quella bicicletta nei giorni che seguirono.
Comunque uomo-bestia o bestia-umana, qualcuno avrebbe pedalato il catorcio che mi aveva procurato Donato. 
I giorni a Lisala erano finiti, erano finite le passeggiate alla vecchia e mastodontica villa ormai in rovina del nostro amato Primo Presidente ed erano terminate le lunghe chiacchierate con Chef e Donato. L'indomani sarei partito, con la mia scorta di manioca, ed un po’ di chicuan già pronta.
Donato aveva preso i trentaquattro dollari della bici e me ne aveva restituiti quattro, poi mi aveva detto che se un giorno fossi tornato li, in cambio dello sconto, mi sarei dovuto fermare qualche giorno a raccontare quello che avevo visto. 
Su questo non si discuteva, avevano bisogno di notizie come il corpo ha bisogno dell'acqua. Chef e Donato mica erano due cervelli stanchi come quasi tutti gli abitanti della città.
Chef assentì con il capo e ci salutammo.
Ci salutammo da amici, quasi da fratelli ed io cominciai a pedalare, storto ed incerto, già sudato prima di aver fatto venti metri.

Attraversai Place Indipendance, scesi lungo il dissestato Boulevard, girai a destra, attraversai Place Emerità e  presi la strada verso nord. Un chilometro pedalando in Piedi con le ruote che slittavano sui crostoni di fango secco e poi scesi e cominciai a spingere bici e pacchi su e giù per una strada che sembrava più un torrente di fango in secca che una via per gli uomini.

Il periodo passato a Lisala non mi era nemmeno sembrato un periodo di allontanamento da casa. Per dieci anni avevo fatto su e giù per il maestoso Zaire e tutto ciò che stava sulle sue sponde mi appariva familiare come casa mia. 
Adesso invece mi stavo allontanando, a fatica, a tratti spingendo la pesante bicicletta ed a tratti caracollando giù lungo discese irte di pennacchi di fango secco e percorse da canaloni tanto profondi da rischiare di caderci dentro.
Il caldo ed il sole dell'Equateur sono qualcosa di assolutamente infernale, la vita si immobilizza alle undici del mattino e fino alle tre non è più in grado di riprendere il suo corso.
La vegetazione si acquieta, le foglie si ammollano  e per qualche ora danno l'idea di essere sul punto di appassire, gli animali si rintanano all'ombra cercando un refrigerio che scompare al minimo movimento del corpo. Gli uomini non sono da meno, si mettono all'ombra, sotto agli alberi nei villaggi o tra le fronde nella foresta e, proprio come animali attendono che l'inferno pomeridiano si esaurisca. Ogni attività cessa, tutto diventa silenzio e quiete bollente.
io ho tentato di proseguire anche durante le ore più calde ma in certi casi è davvero impossibile.
Nei tratti dove la strada è coperta dalla alta vegetazione degli alberi si riesce, a fatica, a camminare anche tutta la giornata, ma nelle zone di radura, nei tratti dove una vegetazione troppo bassa non riesce a coprire la strada, lì è impossibile far altro che sedersi all'ombra, cercare un po’ d'acqua e riposare ed attendere.
Quando avanzavo coperto dalle fronde il bruciore del sole mi lasciava in pace, ma l'umidità aumentava a tal punto che delle volte la sensazione era quella di essere un pesce, di avanzare in un'atmosfera densa e quasi liquida,troppo calda e soffocante per i polmoni di un uomo. Mi sembrava di respirare acqua tiepida.
Credo che un giorno, tutti gli abitanti di questa regione si trasformeranno in anfibi e piano piano torneranno strisciando verso le pozze, i laghi, le paludi ed i fiumi e qui non resteranno che insetti e piante.

Impiegai diciotto giorni per raggiungere il corso dell'Ubangui, quattro chilometri dalla R.C.A.
Non incontrai un mezzo a motore che fosse uno, solo poche e sovraccariche motorette di marca cinese talmente cariche che il più delle volte venivano spinte a mano dai tre passeggeri e quindi utilizzate più come carriole che come mezzi di trasporto.
la gente non faceva molto caso a me durante il giorno, solo all'approssimarsi delle tenebre, quando attendevo il calare della notte seduto su qualche sasso o su qualche tronco all'ingrasso del villaggio, allora si avvicinava qualcuno.
Capivano subito che ero un viandante e così tra una parola e l'altra qualcuno mi invitava a passare la notte nel suo cortile, al riparo magari di un tetto di paglia e con qualcosa da mettere sotto ai denti.
Ad onore del mio grande e povero popolo devo dire che nessuno in diciassette notti mi ha mai chiesto niente in cambio del poco che avevano da darmi. Tutti, nessuno escluso, di coloro che incontrai e che mi ospitarono,chiesero solo di ascoltare qualche storia che venisse da lontano, qualche notizia sulla povera economia del paese e se possibile qualche pettegolezzo sui segreti di palazzo a Kinshasa
Più mi allontanavo dal fiume e più mi sentivo solo e lontano da casa. Nelle brevi notti passate all'aperto o sotto qualche sconosciuto tetto di paglia, sentivo la mancanza del respiro di Francine, il russare di amici e fratelli e, inspiegabilmente sentivo la mancanza anche del sommesso brontolio dei motori diesel del pusseur e dello sciabordare lento e continuo delle acque del fiume contro al metallo delle chiatte.
Rumori che negli ultimi anni mi avevano quasi infastidito, adesso mi apparivano cari come stretti parenti e l'assenza della loro monotona e continua voce mi svuotava come una malattia.
I nuovi rumori, quello dei passi sulla dura terra, quello delle suole che risucchiano fango e quello della foresta che mi avvolge fino quasi a soffocarmi,non mi erano familiari e non credo lo sarebbero mai diventati, perché la foresta prima o poi finisce. come tutto del resto.
Gli ultimi cinque giorni furono rinfrescati da piogge notturne e temporali pomeridiani. La foresta però non da niente in cambio di niente. In pochi minuti la crosta di fango secco che ricopriva la strada si scioglieva e mantenere l'equilibrio sulla bici diventava impossibile. Camminare, spingendo la bicicletta con le ruote mezze affondate nel fango diventava un impresa.
Fango ovunque, in ogni anfratto e piega, della pelle e dei vestiti. 
Quando cessava la pioggia in poche ore tutto tornava secco e sterile lungo la carreggiata e la terra rossa creava un contrasto così netto con la vegetazione verde smeraldo che tutto intorno si aveva l'impressione di vivere in un quadro. 
Da Lisala a Gemena, da Gemena a Zongo, strade impervie e difficilissime ma nessun problema con i Barrage. 
Ad ogni entrata ed uscita di villaggio la Gendarmerie e la Police mi fermavano ma appena vedevano le mie credenziali mi facevano passare quasi con rispetto e reverenza.

nei due anni passati a preparare il mio viaggio e le mie carte e documenti ero stato bravo e fortunato.
Le mie conoscenze a Kinshasa le avevo, soprattutto tra i bianchi amici dello zio Françoise. Tramite loro conobbi persone abbastanza influenti e così riuscii ad ottenere un passaporto valido per l'espatrio, una serie di visti per quasi tutti i paesi che avrei dovuto attraversare e soprattutto un visto di sei mesi per l'Italia. Quest'ultimo mi era costato davvero caro ma adesso era lì, nella tasca interna della mia giacca, pronto ad essere vidimato.
Ma non potevo immaginare quanto fosse ancora lunga la strada per arrivare in Europa.

A Zongo arrivai di sera e mi diressi subito sulla sponda dell'Ubangui dove stavano le baracche dell’O.C.C., della Gendarmerie, dell'Immigration ecc ecc.
Da Kinshasa avevo il nominativo di un certo Michelle Detruit. Mi avevano detto di contattare lui che mi avrebbe fatto passare in R.C.A. senza fare problemi e senza spendere un soldo. Avevo una raccomandazione talmente importante che non avrebbe potuto esimersi dal prestare il suo aiuto. Mia mamma era la migliore amica di questo Michelle.
Arrivai troppo tardi alle baracche della sicurezza così non potei profittare dell'ospitalità che sicuramente mi avrebbe offerto Michelle.
Dormii sui gradini della veranda e la mattina, intorpidito dal duro pavimento, fui svegliato dai caldi raggi del sole. Una decina di mocciosi coperti di stracci erano attorno a me che mi osservavano come se fossi un cadavere e, quando aprii gli occhi saltarono indietro come se fossi stato un serpente che tentava di morderli.
Arrivò allora Michelle, scacciò i mocciosi e ci presentammo.

In quattro ore ero fuori dal Congo. Un record assoluto da queste parti direi.
Salutai Michelle che mi lasciò una lettera scritta da lui per un amico che viveva in Italia, salii su una piroga carica di gente ed in mezz'ora fui sulla riva destra dell'Ubangui, in terra straniera, pronto ad affrontare quello che mi aspettava.
Mentre arrancavo per la spiaggia in salita, spingendo la bicicletta nella sabbia calda, mi voltai a guardare la riva opposta del fiume, guardai il profilo dell'orizzonte pensando che quella era la mia terra e chiedendole scusa perché me ne stavo allontanando.
Mi infilai tra due catapecchie, trovai dell'asfalto sbrecciato, voltai a Destra ed il fiume e tutto ciò che lo circondava sparirono dalla mia vista. 



  


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