venerdì 22 marzo 2019

MUZUNGU (Pas de probleme, pas de solution)




Nota: in fondo al racconto trovi la mappa del viaggio.





Durban non è un dentifricio.

Sono passati nove mesi da quando, imbarcate le macchine da Durban, Cecilia, Federica ed io siamo rientrati in Italia.
Dopo i tre mesi che abbiamo impiegato per attraversare l’Africa dall’estremo nord marocchino all’estremo sud mezzo colonizzato dagli indiani; dopo il rientro a casa e otto mesi passati a progettare un nuovo viaggio; dopo quindici ore di volo e dodici di autobus; Diego ed io siamo nuovamente seduti di fronte all’Oceano Indiano a guardare i surfisti, forse sempre gli stessi, che compiono evoluzioni su onde nane.
Da Nando’s il pollo si mangia con le mani, se vuoi puoi chiedere le posate ma qualcuno ti guarda storto.
Da Nando’s il pollo si ordina piccante, mediamente piccante o molto piccante.
Io mi stò letteralmente divorando un mezzo pollo molto piccante, Diego di fronte a me stà mangiando un pollo intero solo piccante.
Mangiamo in fretta per spostarci nel locale vicino a bere una o due birre. Da Nando’s non si servono alcolici.

Siamo atterrati quattro giorni fa a Johannesbourg, a Joburg come dicono qui, abbiamo fatto una gara contro il tempo per prendere un bus in giornata e percorrere i seicento chilometri che ci separano da Durban dove avremmo dovuto ritirare i nostri due Land Rover e partire alla volta dello sterminato nord africano.
Tra due giorni è capodanno, le nostre macchine sono bloccate in porto per le pratiche di sdoganamento, il nostro referente per la Messina Lines, il Capitano Del Vecchio, non lavora più qui, così ci dobbiamo configurare con un ragazzo di origine indiana che pensa più ad organizzarsi la festa di fine anno che a fare uscire le nostre macchine dal porto.
Il porto di Durban sembra essere l’unico angolo di Sud Africa dove tutte le leggi vengono applicate con meticolosità.
In Sud Africa, pare, non possono entrare veicoli con guida a sinistra. Molto strano visto che pochi mesi prima abbiamo circolato per la Repubblica per un mese con le stesse auto e le abbiamo imbarcate per l’Italia da questo stesso porto.
Così siamo bloccati a Durban per chissà quanto tempo. Bisogna aspettare che inizino le feste, bisogna aspettare che le feste si svolgano e bisogna attendere che le feste finiscano.

Arriva il capodanno che siamo stanchi e sfiancati da quattro giorni di liti negli uffici dell’agenzia che si occupa delle macchine.
Per tutto il giorno la città è a soqquadro, poliziotti e uomini della municipalità spostano Jersey di qua e di là, sbarrano strade ed accessi pedonali e barricano l’intero Water Front. Le milizie si schierano in assetto da guerra vestite con le attrezzature anti sommossa. Nel nostro Backpackers si raccolgono le firme per il Barbecue di fine anno. Noi, ignari di tutto alle nove usciamo e ci dirigiamo verso il mare. Le strade brulicano di decine di migliaia di persone che bevono e festeggiano. Noi gironzoliamo qua e là fino ad arrivare sull’ampia passeggiata che costeggia l’oceano. Un fiume di persone si sposta incessantemente su e giù, io e Diego ci buttiamo nella corrente e ci lasciamo trasportare verso nord, verso la zona che normalmente è frequentata dai Surfisti e dalle famiglie di turisti.
Nell’aria c’è qualcosa di strano, si sente la tensione che precede una festa, ma moltiplicata per mille. Mi sento addosso gli occhi di tutti. Forse è solo una sensazione. Controllo. Eppure… tutti ci guardano. Guardo Diego , in mezzo a quel milione di facce e sto per chiedergli che cosa ne pensi. Diego è bianco come un cadavere, o meglio, è bianco e basta, come me del resto. Il problema e che siamo gli unici bianchi in mezzo a milioni di facce nere come il carbone. Mi gira la testa.
Noi facciamo finta di niente e continuiamo a camminare, molta gente ci saluta con affetto e ci augura buone feste, altre persone ci guardano storto e qualche gruppo di ragazzi ci guarda chiaramente male e con aria di sfida.
Ci infiliamo in un ristorante dove una bottiglia di vino bianco, un po’ di pesce e qualche birra ci aiutano ad allentare la tensione.
Il cameriere ci dice che dobbiamo fare presto, sono quasi le undici e devono chiudere, inoltre vuole obbligarci ad andare via solo se un taxi ci viene a prendere.
Noi, noi che abbiamo compiuto l’impresa di attraversare tutta l’Africa da nord a sud, venticinquemila chilometri di puro inferno; noi non abbiamo paura di niente. Quindi usciamo e ci dirigiamo a piedi verso le vie dell’interno.
La tensione è più alta, la gente è ubriaca. Noi, così coraggiosi dobbiamo faticare a non camminare più veloci, ogni tanto mi viene voglia di mettermi a correre, per scappare da lì. La sensazione è che la gente che mi guarda, la gente che ci scontra lo faccia per cercare un pretesto per poterci mettere le mani addosso, per linciarci.
Un poliziotto che presiede l’ingresso di una via ci vede, sgrana gli occhi e poi ci fa il gesto di correre, ci dice di attraversare la strada e di andarcene di lì velocemente.
“Fast, fast, go, go, not here!”
Noi attraversiamo la strada di corsa e sentiamo botti e spari provenire dalle vie alle nostre spalle. Un Taxi ci accosta e ci carica; riparte in tutta fretta.
Sono sudato, non sto bene ma siamo scampati a qualche pericolo.
Il taxsista ci spiega che girare per Durban la notte di capodanno non è per niente salutare, specialmente in quella zona e soprattutto per un bianco.
“La gente spara e si spara” ci dice.
La città sembra in assetto da guerra, il taxista ci consiglia uno o due locali nella “zona bianca” dove noi potremmo andare a fare serata. Gli diciamo che va bene.
Mentre guida il tassista tiene informata costantemente la centrale della nostra posizione, segnala via radio le vie e gli incroci che mano a mano passiamo.
Poco dopo la città cambia, le strade sono sempre meno affollate, le vie più larghe, le case più belle e le aiuole più verdi.
L’autista si rilassa e smette di comunicare con la centrale.
Siamo nella Durban abitata dai bianchi. Vie larghe costeggiate da villette con giardino o da palazzi in stile colonial perfettamente restaurati.
I semafori qui fanno il loro dovere ed al rosso la nostra auto si ferma e con il verde riparte.
Finiamo il 2006 in un locale molto grande e bello pieno di gente ubriaca che festeggia l’arrivo del 2007. Ci saranno un migliaio di persone e l’unica persona di colore che vedo in tutta la serata è un enorme buttafuori che sorveglia l’entrata.

L’apartheid è finito da molti anni ma qui l’unica soluzione possibile mi pare possa essere solo un gigantesco frullatore, visto che i neri festeggiano per strada ed i bianchi in un quartiere che sembra di stare nel New England.



Johannesburg in un solo minuto.


Cinque milioni di abitanti. Mica noccioline.
Noi abbiamo potuto darle solo una fugace occhiata. L’abbiamo attraversata da cima a fondo una volta di giorno ed una di notte. Le storie che mi sono state raccontate su Johannesburg sono mille, i momenti in cui l’ho vista sono solo due.
Nel 1886 Johburg non esisteva, al suo posto sorgevano, sparse, quattro fattorie. Un tal Gorge Harrison, cercatore d’oro australiano, trovò quello che venne poi definito il più grande giacimento d’oro di tutti i tempi.
1889, tre anni dopo. Johannesburg conta centomila abitanti, centinaia di bordelli e bar (saloon?).
In pochi anni la città diventa la più grande dell’Africa meridionale, cercatori d’oro, avventurieri e disperati di ogni razza e colore arrivano da ogni parte del mondo contribuendo a rendere il Sudafrica noto come la “Nazione Arcobaleno”.
Governo e boeri abrogano leggi per tenere lontani neri e stranieri. I signori del Rand (Randlords) e gli avventurieri si alleano contro il governo e le guerre anglo-boere del 1899-1902 trasformando Johburg in una città fantasma.
L’oro però farà in modo che la città torni ad essere il fulcro economico del Sudafrica. Questa volta sotto il controllo degli inglesi le attività estrattive riprendono e la città cresce a ritmi vertiginosi per decine di anni.
Oggi a Johannesburg ci sono i grattacieli, le Township e le ville dei miliardari; ci sono gli ospedali, i musei ed i centri internet.
Noi attraversiamo la città dall’aeroporto fino alla stazione dei bus e da li fino all’estremo sud per poi dirigerci nel Mpumalanga e quindi a Durban.
È giorno e Johburg è una città più che normale, almeno per i canoni sudafricani. Code di macchine per strada e viavai di gente sui marciapiedi, bancarelle e negozi si mischiano senza soluzione di continuità. Indiani, arabi e cinesi si mischiano per le strade con cingalesi e africani di ogni nazione. Inglesi ed olandesi chiacchierano con giapponesi e…. chissà chi altro.
Noi partiamo per Durban e quindici giorni dopo siamo di ritorno. Questa volta attraversiamo tutta la città di notte, da sud all’estrema periferia a nord.
Diego ed io ci abbiamo messo quindici giorni per far sdoganare le macchine e tutto quello che siamo riusciti ad ottenere è stato che i due Land Rover fossero caricati su un tir e fatti partire alla volta del confine con lo Zimbabwe.
Viaggiamo da Durban a Johannesburg in bus e durante il tragitto ci vediamo sorpassare dalle nostre macchine ben legate al secondo piano del tir.
Siamo in contatto telefonico con un certo Patrick il quale, a sua volta, è in contatto con i due autisti. Noi volevamo viaggiare sul tir con le nostre macchine sino dalla partenza ma le autorità ce lo hanno impedito. Adesso però prendiamo accordi con Patrick.
Se siamo disposti a pagare una “mancetta” agli autisti, loro ci aspetteranno in un’area di servizio appena a nord della città e ci faranno salire in cabina con loro.
“No problem for the tip, But you say at the driver to wait us. We arrive!”
“Ok.They wait in the nord station called Total Station. Ok? 40 Km at nord Ok?”
“Ok. No problem.”
Parlare inglese senza averlo studiato, su un telefono che funziona a scatti e con un ritardo di almeno dieci secondi e con uno sconosciuto è davvero un’impresa. Se ci aggiungiamo che bisogna prendere accordi sui tempi ed i modi per incontrare un tir tra gli svincoli di una città africana di cinque milioni di abitanti, allora l’impresa può risultare impossibile. Ma Diego si destreggia egregiamente.
Chiediamo a Patrick come faremo a riconoscere il nostro Driver e ci sentiamo rispondere di non preoccuparci perché sarà lui a riconoscere noi. “Due Bianchi in giro per Johannesburg, in periferia in piena notte risaltano come una pisciata nella neve fresca”. Patrick è stato abbastanza chiaro.
Il terminal dei bus durante la notte sembra una zona militare: guardie armate sorvegliano i cancelli agli ingressi, qualcuno ci dice che le recinzioni sono elettrificate e le poche persone nelle sale di attesa ci fanno capire che per uscire bisogna aspettare la luce del giorno.
Fatichiamo per più di un’ora per trovare un taxista disposto a portarci al rendez-vous con gli autisti del tir. Ovviamente, visto che i taxi di notte non circolano ci vuole una bella “mancetta” per convincerlo. In Africa con i soldi ottieni tutto, questo si sa. Ma questa volta la mancia è davvero salata: “La mancia è proporzionale al rischio” ci dice il taxista.
Questo non mi rilassa per niente.
Partiamo su un Mercedes scassato che ha almeno vent’anni, tutto tappezzato di stoffe leopardate e zebrate, perfettamente in tema con il continente in cui ci troviamo.
L’autista paga a sua volta una mancetta alle guardie dell’ingresso che, guardandosi attorno furtive, ci aprono i cancelli. L’autista pagherà altre mance lungo il percorso, pagherà dei passanti per avere informazioni su dove si trova il luogo in cui dobbiamo andare.
In tutta l’Africa funziona così: tu paghi delle mance che a loro volta serviranno a pagarne altre decine. Il sistema alla fine funziona sempre.
Johannesburg di notte è uno spettacolo affascinante, di notte è un’altra città.
Escludendo qualche catorcio guidato da bande di neri, la città è completamente senza macchine, le strade sono deserte e quindi sembrano larghissime. Non ci sono auto parcheggiate, non ci sono auto in coda e nemmeno rumore di motori di clacson o di voci.
Forse quello che colpisce di più è proprio il silenzio che si sente passando tra gli alti grattacieli.
Qua e là qualche bidone pieno di legna e rifiuti brucia per scaldare uomini di colore vestiti con un cappotto sdrucito, con guanti strappati e senza le dita che si fanno compagnia con carrelli della spesa colmi delle loro sudice cose. Mi aspetto da un momento all’altro di vedere passare Rocky Balboa nella sua tuta grigia in pieno allenamento. New York primi anni ottanta. Ecco cosa sembra Johannesburg di notte. Ci sono persino i tombini che fumano. La differenza è che qui si muore dal caldo e che quindi quello che esce dai tombini non è vapore ma chissà quale fumo. E poi mi domando perché queste specie di barboni portino cappotti e guanti senza dita, forse è uno status-symbol, come i vostri Rolex e le vostre borsette LV, come le mie felpe con il cappuccio e le scarpe da ginnastica.
“Fate finta di non essere bianchi!”
Questa frase mi coglie un po’ di sprovvista.
L’autista ci chiede di “far finta di non essere bianchi”.
E come si fa a far finta di non essere bianchi?
Fermatevi a questo punto della lettura, non andate avanti e per dieci minuti provateci; provate a far finta di non essere bianchi. Tanto non ci riuscirete mai, vi verranno in mente un sacco di stupidaggini, roba da riderci sopra, ma non ci riuscirete.
La soluzione è semplice: io mi tiro su il cappuccio della felpa, nascondo le mie mani bianchicce e chino la testa. Diego si mette un berretto e fa la stessa cosa.
“Ben fatto” ci dice l’autista.
Eccoci qui che sfrecciamo di notte per la periferia di Johannesburg trasformati in due cazzo di rapper americani. Speriamo che non ci fermino per chiederci gli autografi.
Così, a capo chino, quasi fosse una penitenza, guardiamo di sottecchi la periferia degradata, distrutta e violenta; brutti aggettivi che però danno il senso di quello che si vede dal finestrino. Ma questa potrebbe essere solo l’impressione di una persona che questa città l’ha vista e la vedrà solo per poche ore.
In un’ora siamo alla stazione di servizio. L’autista ci aiuta a scaricare i bagagli in fretta e furia, ci stringe le mani, salta in macchina e sgomma via.
La periferia fatta di svincoli e baracche ci circonda.
Dietro di noi la stazione di servizio, con le pompe e la tettoia lucidissime e lo spaccio di bibite, panini e chewingum così pulito, illuminato e asettico da non sembrare vero. La stazione di servizio qui in mezzo, con le sue luci al neon ed i suoi colori brillanti sembra un’astronave appena arrivata da marte.
Dentro due marziani in divisa giallo rossa fanno le pulizie.
Ci sediamo vicino ad un tavolinetto di legno con tanto di ombrellone, facciamo un mucchio dei bagagli e lo usiamo come divano.
“Che provino a rubarmi qualcosa” penso. “Dovranno passare sul mio cadavere, o per lo meno spostarmi”
Mentre ce ne stiamo seduti sui nostri bagagli ci avvicina un tipo davvero brutto. Come si dice nei libri? “Un tipo poco raccomandabile”.
Ci viene incontro un uomo di colore ma con la pelle giallastra, porta i capelli a riccioli cortissimi ed ha due baffetti sottili sottili. Jeans, camicia aperta e ciabatte. Sembra un trafficante di coca portoricano.
Si siede accanto a noi
“Avete una sigaretta?”
“Certo. Eccola” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di niente.
“Da dove venite?” Mi chiede.
“Da Durban” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di niente.
“Nel senso di dove siete!”
“Italiani” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di niente.
“E dove andate?”
“Senti: se ti do tutto il pacchetto di sigarette poi mi fai il piacere di andartene?” Gli passo il pacchetto, mi giro dall’altra parte e però non riesco a fare finta di niente.
Lo guardo di nuovo.
“Guarda che non le voglio le sigarette” mi dice “ ne fumo solo una ogni tanto, fanno male.” E mi passa il pacchetto indietro. “Era solo per fare due parole.”
“Senti” gli dico con tono paziente “ io non ho problemi con te, però stiamo aspettando una persona, ‘un driver’ capisci? E se ti vede qui magari non si avvicina.”
“Perché no?”
“Perché….. perché….. perché non ti conosce, ecco perché” non so che dire, sono un po’ a disagio.
“Forse perché sono nero?”
“No..no.. figurati…solo che… che non ti conosce… e…”
“Perché a voi vi conosce?”
Ecco, l’atmosfera si sta scaldando, cosa gli dico ora? “Senti: questo Driver arriva da Durban con le nostre macchine, abbiamo appuntamento qui, si aspetta di trovare due bianchi e non due bianchi ed un nero e tu… poi… alla fine dei conti… non presenti nemmeno tanto bene…” ecco l’ho detto”
L’uomo non ci fa nemmeno caso, lo dicessero a me mi guarderei subito i vestiti e chiederei cosa vuol dire “non presenti tanto bene.”
“E poi dove andate con questo camion?” mi chiede.
“Uffa, che palle. Andiamo a nord, al confine con lo Zimbabwe, in una città che si chiama Messina.”
L’uomo estrae dalla tasca un cellulare, compone un numero e dopo qualche istante parla:”Ciao Patrick, sono io, tutto ok, sono due bravi ragazzi.”
Mi guarda e sorridendo compiaciuto mi dice :”I’m your Driver”. “Sono io il vostro autista.”
Me le ricorderò per sempre queste parole, le ricorderò per sempre perché hanno trasformato un uomo, per lo meno lo hanno trasformato ai miei occhi. Prima avevo di fronte un brutto ceffo, una specie di barbone, un probabile aggressore, brutto e sporco. Adesso di fronte a me c’è un ragazzo, che stà facendo il suo lavoro, ha i lineamenti fini e la faccia intelligente.
Anche lui si è rilassato. È incredibile, ma la diffidenza porta a questo. Il nostro autista, un uomo abituato a guidare tir nella sconfinata cintura del sud (Sudafrica, Botswana, Namibia e Zimbabwe) che prende informazioni prima di dare confidenza, a due ragazzi, bianchi e ben vestiti.
Cosa posso pensare? L’unica cosa che mi viene in mente è che non voglio nemmeno sapere perché un povero diavolo di colore debba avere paura di due ragazzi bianchi ben vestiti, nel cuore della notte e nella sua città.

Camminiamo mezz’ora con i bagagli in spalla, percorriamo il bordo della superstrada muovendoci nell’erba alta.
Arriviamo al tir.
Finalmente ci siamo definitivamente ricongiunti ai nostri Land Rover.
Conosciamo l’altro autista: un uomo o molto vecchio o molto stanco, con il viso coperto di rughe ed un cappellino unto sulla testa. Pelle nera, capelli neri, occhi neri e cornee gialle. Black man. Very black man. Non parla inglese, parla solo il suo dialetto. Ma tanto basta, basta un autista che conosca un po’ di inglese.
Ci mettiamo d’accordo sul sovrapprezzo, in fondo ci danno un passaggio.
Dietro ai sedili c’è un tavolaccio con due coperte, una fa da materasso, l’altra da coperta. Diego ed io ci rannicchiamo lì dietro, con le ginocchia al mento, sprofondati tra i nostri bagagli.
Gli autisti in cambio della mancia per portarci non useranno il lettino questa notte.

Si parte, seicento chilometri, un po’ su asfalto un po’ su sterrato, tutti con il culo su una panca di legno.
Dormo a tratti, ogni tanto una buca mi fa dare delle testate che mi svegliano. Stiamo scomodi, cominciamo a puzzare un po’. I vestiti ci si appiccicano addosso per il sudore e poi, quando vengono aperti i finestrini la polvere ci aggredisce e l’aria ci congela. Crampi alle gambe, insonnia, caldo e freddo, sporco e polvere, le voci incomprensibili degli autisti che fanno da sottofondo, gli scrolloni ed i fari fiochi del camion che illuminano una strada ormai diventata stretta e sconosciuta. Le fugaci apparizioni di animali e persone che fuggono dal centro della strada per non essere investite, il camion che non rallenta e gli autisti che si lamentano della lentezza dei pedoni nel saltare di lato. Le leggi di vita invertite. Qui per esempio il pedone ha sempre torto. Il confine con lo Zimbabwe che ci aspetta. La luce del giorno che si fa attendere ma che illuminerà un mondo completamente sconosciuto ai nostri occhi, sconosciuto in ogni suo minimo particolare, sconosciuto in tutta la sua immensità. L’immensità africana.

Non lasciateci, noi dormiamo un po’ ma domani mattina saremo al confine, dove nuove avventure ci accompagneranno per tutta la giornata.
A domani e buona notte.




La sindrome americana.

(Tex Willer, a cavallo, ci avrebbe lasciato le piume.)


Da Beitbridge-Messina costeggiamo la border-line tra Repubblica Sudafricana e Zimbabwe per centoventi chilometri. La strada è piatta, a tratti perfettamente asfaltata, a tratti perfettamente sterrata. Nuvole di polvere si alzano al nostro passaggio e dall’alto sorvegliano il nostro viaggiare.
Costeggiamo il Limpopo che a sua volta costeggia i fili spinati del confine. La terra è piatta e arida, il caldo soffocante.
In un’ora siamo al confine con il Botswana, noto come “il segreto meglio custodito dell’Africa”.
Sono ormai due anni che sento Diego elencare le meraviglie di questa terra; un po’ gli credo un po’ no. Realtà o stati d’animo? Nei racconti le due cose sono troppo difficili da scindere.
Confine, dogana, funzionari rilassati e sorridenti. I documenti sembrano non in regola. Manca l’indispensabile Carnet de passage.
All’ombra di un mopane due sorrisi con i poliziotti ed un’occhiata alla cartina che segna il nostro infinito tragitto sulle portiere delle macchine e tutto è risolto.
Passate pure, nessun problema, nessuna firma nessun timbro. Dobbiamo insistere per avere il visto di uscita dal Sud Africa. Qui fa troppo caldo per entrare in una baracca di lamiera a compilare documenti.
Un bracciante, seduto accanto al suo scassato trattore vecchio di un secolo, si incarica di attraversare la strada polverosa e di andare a prendere il timbro.
Il cofano del mio Defender, bollente, diventa una scrivania.
Due timbri e due pacche sulle spalle.
Ripartiamo, siamo nella striscia di terra di nessuno che divide tutti i paesi africani.
La strada scende e si infila nella folta vegetazione che fa da cornice al Limpopo.
Diego è davanti a me di qualche centinaio di metri.
Giro una curva e vedo l’Africa in tutto il suo splendore abbigliata del suo miglior abito da sera.
Diego stà guadando il Limpopo, largo qualche centinaio di metri e profondo non più di ottanta novanta centimetri.
Mezzo Land Rover spunta dalle placide e tiepide acque del fiume e sulla riva un branco di elefanti si crogiola nell’acqua.
Anche le verdi sponde del fiume sono invase dai mastodonti.
È la prima volta in vita mia che vedo degli elefanti in libertà. Lo spettacolo è favoloso. Abituato ad un mondo dove ogni animale anche minimamente fastidioso per l’uomo è stato fatto sparire, vedere venti o trenta bestioni di diverse tonnellate è uno spettacolo che non si può descrivere.
Ingrano la prima ed entro nel fiume come se fossi in barca. I nostri Land Rover passano a pochi metri dagli elefanti.
Risaliamo la sponda fangosa del Limpopo ed in pochi minuti siamo alla frontiera del Botswana.
Qualche turista sudato e rilassato è seduto sui fuoristrada da safari ad aspettare che la guida gli sbrighi le pratiche doganali. Tre babbuini rovistano nelle auto lasciate incustodite cercando cibo o qualunque cosa possa apparire interessante: un telefonino, un paio di forbici o anche dei fogli di carta.
Due battute sul calcio italiano ed il gioco è fatto, passaporti timbrati e firmati. Possiamo risiedere legalmente in Botswana per tre mesi. Spendiamo venti dollari.
“Welcome to Botswana.”
Non serve nemmeno il cartello con questa dicitura, basta il comportamento di elefanti e doganieri. Splendido paese.
Filiamo come treni su piste di sabbia rossa incandescente.
Il caldo è allucinante, persino più insopportabile di quello del Sahara. Le temperature superano i cinquanta gradi e solo mantenendosi in costante movimento con i finestrini aperti si riesce a respirare.
Ci fermiamo per fare delle fotografie ma, al secondo scatto saltiamo in macchina e ripartiamo.
In macchina a gennaio in Ungheria a meno trenta non riuscivo a stare fuori dall’abitacolo per più di un minuto o due, qui è la stessa cosa. Il caldo è talmente forte da sentirlo addosso come un peso. Ottantacinque gradi di escursione termica, dai meno trentadue dell’Ungheria ai cinquantatrè del Kalahari. In mezzo la quiete climatica delle alture della Liguria.
Dopo un centinaio di chilometri di piste sabbiose arriviamo a Bobonong, ridente villaggio-fornace situato alle propaggini del più antico deserto del mondo.
Qui, qualche casa in mattoni la fa da regina in mezzo alle capanne ed un benzinaio con insegna svetta come un grattacielo.
A Bobonong non si accettano Rand sudafricani, Dollari Usa o Euro. Noi li abbiamo tutti e tre e abbiamo anche una sete mortale che ci fa bruciare la gola ed i polmoni.
Ci dicono di provare al “negozio dell’indiano” distante solo qualche isolato.
Mi sembra di fare cento chilometri, invece ne percorriamo uno o due.
Il “negozio dell’indiano” è una specie di rosticceria, la gente viene qui a piedi con cinquanta gradi di temperatura nell’aria ed acquista pollo e carne cucinate sul momento e poi si allontana mangiando. Un gelato no? È un’idea troppo stupida rinfrescarsi con il caldo?
L’indiano è proprietario anche di due vetrine frigo della Coca Cola piene di ogni ben di Dio. Acqua, Coca Cola e Sprite.
L’indiano non accetta Rand Sudafricani, Dollari Usa e nemmeno Euro. Noi li abbiamo tutti e tre.
Ci dice di aspettare che finisca di servire dei clienti, poi ci accompagnerà in un posto dove forse ci verranno cambiati i soldi.
Io non riesco più a parlare da quanto ho la bocca e la gola secche.
L’indiano manda un inserviente a vedere se all’ufficio di non so che cosa hanno da cambiare soldi.
Dopo un quarto d’ora e venti polli bollenti venduti, l’inserviente torna: “Purtroppo all’ufficio non accettano Rand Sudafricani, Dollari USA e nemmeno Euro.”
Non ci posso credere. “E allora cosa accettano?” domando con un filo di voce.
“Pula” mi risponde beatamente l’uomo.
Ma maledizione, se avessi della moneta locale cosa me ne farei del cambio?
Credo di cominciare a delirare.
Diego riesce ancora a parlare e si mette a conversare con un gigantesco omone nero alto almeno due metri e con un’infinità di rotoli lardellosi che gli coronano il collo da toro. Occhiali e baffi lo fanno somigliare più ad un professore che ad un Boxer.
È il sindaco della municipalità, e con un gesto che ha del magico si fa dare tre bottiglie di acqua ghiacciata.
Una la da a Diego, una a me ed io risorgo dall’incubo della sete.

Il sindaco ci porta in giro per la “città”, tutta incredibilmente uguale a se stessa: qualche casa in mattoni, molte capanne e tantissima terra.
Ci chiede di noi, ci racconta di lui e ci invita a spedirgli dall’Italia le divise per un’intera squadra di calcio.
Sul sedile posteriore una bibbia con copertina in pelle mi guarda di sbieco e mi sorride.

A casa di un amico del gigante troviamo una signora che ci cambia dei dollari.
Tutto è a posto, ora anche le macchine potranno bere.
Tra centocinquanta chilometri troveremo la statale asfaltata che conduce a Francistown.
Sempre più dentro ad un deserto infuocato, sempre più smarriti ed abbagliati da paesaggi che sembrano addirittura caricature dell’ultima frontiera americana, quando ancora i cowboy sparavano agli indiani.
Qui tutto è esagerato: il deserto è più arido, l’aria più calda ed i panorami più sconfinati. I fili spinati sono più arrugginiti ed i pick up più consunti, gli indiani più scuri ed i cowboy più giovani di un secolo.
In due giorni arriviamo al cartello di ingresso di Maun, leggendaria terra di safari, ultimo avamposto civile prima degli sconfinati e meravigliosi parchi del nord.
Maun, una cittadina del far West collegata ad Internet.

Pont Drift – Maun cinquecento chilometri, gennaio 2007 temperatura media cinquanta gradi centigradi.
N.B. non si accettano Rand, Dollari e nemmeno Euro.




Maun



Arriviamo a Maun durante un periodo di caldo eccezionale anche per queste zone.
Mi chiamano da casa e mi dicono che fa un caldo incredibile, a Savona sono arrivati a 27 gradi.
Quando noi ci fermiamo in centro a Maun a bere una birra al riparo di un’acacia, il termometro ne segna 46.
I marciapiedi sono deserti ed il caldo lo senti come una presenza fisica.
In quattro e quattr’otto saliamo sulle macchine e facciamo il giro della città con i finestrini aperti che fanno entrare un’aria comunque calda.
Facciamo un giro perché Diego vuole vedere cosa è successo qui negli ultimi anni. Nel 2000 questa cittadina era una specie di avamposto per coloro che volevano spingersi nei parchi più a nord. Un piccolo aeroporto con la pista in terra battuta era il modo più comodo per giungere qui, poi c’era un solo supermercato con i generi di prima necessità, un ambulatorio e qualche abitazione.
Oggi Diego non riesce ad orientarsi, le strade sono state tutte asfaltate, la città è decuplicata e da ogni parte lavori in corso indicano il sorgere di nuove strutture. Due internet cafè ed un modernissimo aeroporto hanno soppiantato l’ufficio postale ed il gabbiotto in lamiera dell’ Air-Botswana.
Però la sensazione di essere in un avamposto di frontiera persiste, l’aria che si respira è quella di una cittadina dove ancora si possono incontrare avventurieri e furfanti, commercianti di diamanti e piloti di piper in tuta grigia. Arrivano molti più turisti di un tempo ma il turismo quello vero e proprio di massa è ancora molto lontano.
Arrivano piccoli aerei con comitive che vengono subito caricate su Land Rover o Toyota allestite per fare safari. I turisti scompaiono in un lampo in qualche alberghetto ed il giorno dopo partono subito per i parchi.
Così in città si incontrano principalmente le persone del posto o le guide che fanno scorte di cibo e acqua. Qualche viaggiatore zaino in spalla si trascina per le vie assolate alla ricerca di un passaggio per arrivare ai camp site fuori città.
Noi compriamo dieci litri di acqua due bistecche grosse come una mucca ed usciamo da Maun.
Arriviamo all’Audi Camp a metà pomeriggio.
L’Audi camp non è un posto propriamente spartano è invece un paradiso dal quale non ci scolleremo per almeno quindici giorni. Le piazzole sono provviste di BBQ con tanto di griglia girevole. Le acacie fanno ombra alle tende ed alle macchine e uccelli dai mille colori si posano ad un metro da noi in attesa di una briciola.
Una struttura in legno con il tetto in paglia ospita un formidabile bar con un bancone a s lungo dieci metri. Un’altra capanna enorme senza pareti è il ristorante dal sapore coloniale e poco più in basso una piscina protetta dalle fronde delle acacie e dei baobab è la nostra isola felice nell’asfissiante caldo del gennaio più caldo della storia.
Così piazzati, tra serate fatte di bistecche e gin and tonic e giornate in cui visitiamo i dintorni e ci informiamo sui prezzi dei terreni in vendita nella zona, aspettiamo l’arrivo di Federica e Cecilia.
Passo almeno quattro ore al giorno immerso nell’acqua della piscina. In pomeriggio il caldo è talmente insopportabile che bisogna stare immobili, all’ombra e si fa fatica persino a pensare. Qualche volta provo a leggere ma il solo reggere il libro (il mago di Oz) mi fa sudare. Sfogliare le pagine mi fa sudare le mani e poco dopo tutte le pagine sono umide, così mi tuffo in piscina con i compagni di queste lunghe giornate, un bastardino nero ed un pastore della Rodesia che regolarmente fanno il bagno con me.
Poco più lontano un torrente scorre placido nella savana e la sera si vedono le antilopi che vanno a bere.
Come ormai ci capita sempre più spesso, siamo diventati un po’ l’attrazione del camp site. Tutti vogliono sapere come è stato arrivare sino a lì attraverso tutta l’Africa dell’ovest e che strade intendiamo percorrere per tornare in Europa.
Campeggiatori sudafricani super attrezzati con cucine da campo degne di un ristorante, vengono a vedere interessatissimi la nostra cucina-cassettone fatta in casa con tavole di recupero e ne restano affascinati.
Molti non possono credere che siamo riusciti a discendere l’Africa dell’ovest, troppa strada, troppi problemi, troppe guerre.
Il giorno che arrivano Federica e Cecilia, è ormai qualche settimana che Diego ed io ci aggiriamo per il Sud Africa ed il Botswana e, di conseguenza, la nostra pelle si è già scurita. Cecilia e Federica invece scendono dall’aereo bianche come il latte. Chi arriva fresco fresco dall’Europa fa sempre uno strano effetto, sembra malaticcio e fuori luogo. Faranno presto ad abituarsi, anche perché il caldo quello esagerato, quello che rimarrà storico, pare sia finito il giorno prima e nuvole provvidenziali oscurano il sole durante il pomeriggio.
Lasciamo passare due giorni in cui Cecilia e Federica si riposano e si ambientano. In realtà io non andrei mai via dall’Audi Camp. Troppo bello, troppo comodo e soprattutto troppi i chilometri che ci aspettano nei prossimi mesi. La felicità e la gioia di dover continuare un viaggio che durerà mesi, si mischiano con una profonda stanchezza del corpo e dello spirito.
La sera guardo le stelle, più vicine, brillanti e soprattutto più numerose che nel nostro emisfero. Non so ancora cosa ci aspetta, dovremo percorrere decine di migliaia di chilometri attraverso terre sconosciute e spesso pericolose. Terre infestate dai banditi e da autisti pazzi che incroceranno le nostre macchine di giorno e di notte. Dovremo guidare attraverso savane e deserti, guerre e temporali africani. Spesso dovremo guidare giorno e notte senza sosta. Ma non è tutto questo che mi fa paura. Quello che più mi spaventa e mi opprime e che questa lunghissima risalita dell’Africa sarà un ritorno, ogni metro ci avvicinerà a casa, ogni giorno trascorso sarà un giorno in meno da vivere ed ogni chilometro percorso un chilometro in meno di possibilità.
Così, questi pensieri si trasformano in ozio ed indolenza, in una strana voglia di restare qui a Maun, ad aspettare e raccontare ai tedeschi ed agli inglesi di passaggio la storia della discesa dall’ovest e quella ancora da venire della risalita per l’est.

Non ho voglia di ripartire. Sono già qui.

Passiamo l’ultimo giorno ad attrezzarci per passare vari giorni in zone dove non si troverà niente, nè cibo, nè acqua, nè sigarette, nè birra.
Andiamo a razziare lo Shoprite. Facciamo il pieno di gasolio, di acqua potabile e di tutto quello che potrà servirci; poi, una mattina che potrebbe essere una mattina qualunque, diventa la mattina della partenza.
Lasciamo la cittadina, poi lasciamo l’asfalto e poi gli ultimi villaggi di capanne. Presto la polvere comincia ad essere la materia prima della quale viviamo, i Land Rover ricominciano a fare il loro mestiere fatto di sobbalzi, urti e torsioni. Il motore canta potente per uscire dalle buche e la carrozzeria scricchiola felice. Nessuno mi toglie dalla testa che queste macchine hanno una specie di anima, un’anima che si rallegra quando sotto di loro scorre terra nuova e nuove speranze di scoperta.
Naturalmente lo so che le nostre macchine sono pezzi di ferro inanimati ma questo lascio che lo pensiate voi che non le avete mai sentite scricchiolare di fatica arrancando su terre lontane.
Per me oggi siamo partiti in sei da Maun ed in sei facciamo rotta nord nord-est, “in direzione ostinata e contraria.”
Ma per ora ci attendono “solo” i grandi parchi del nord, i paradisi del Moremi e del Chobe. Se tutto va bene, tra una settimana saremo ad ammirare gli arcobaleni che uniscono Zambia e Zimbabwe creando ponti colorati sulle smisurate Victoria Falls.




RIFLESSIONI DA CAMPO



ELEFANTE AFRICANO. (Leoxodonta africana)
Di solito vive in piccoli gruppi di 10 – 20 individui che spesso confluiscono in mandrie molto più grandi che si incontrano presso le fonti d’acqua o alle fonti comuni di cibo. Le società degli elefanti sono matriarcali e sono dominate dalle femmine anziane. I maschi vivono da soli o in piccoli gruppi di subadulti e si uniscono al branco solo durante il periodo dell’estro femminile.
Mediamente un individuo adulto ingerisce ogni giorno 250 – 300 kg di erbe, foglie, corteccia ed altri vegetali.
Anche se l’età media dell’elefante africano si aggira attorno ai 75 anni alcuni individui possono viverne anche 100 o più.
Dimensioni: altezza alla spalla fino a 4 metri, peso fino a 6,5 tonnellate.

Forse se non ci capiti in mezzo nemmeno una volta nella vita non puoi averne un ‘idea chiara. Sto parlando di una carovana di elefanti.
Stiamo attraversando il Chobe National Park: 1.056.600 km quadrati di paludi, fiumi e savane. Attraversare regioni come questa costituisce di per sé un’avventura straordinaria, che trascende il viaggio nello spazio. Attraversare foreste millenarie e savane che si alternano a montagne ricoperte di piante e liane è come andare indietro nel tempo, è come viaggiare nella preistoria.
Gruppi di antilopi di centinaia di individui fuggono al nostro passaggio. Il cielo sopra di noi è piatto, basso e sterminato. I Land Rover arrancano con le ruote immerse nella sabbia, avvolte dalla polvere o sprofondate nel fango. Non esistono vere e proprie strade qui, piuttosto ci si muove su piste o sentieri appena accennati. Non ci sono aree di accoglienza per centinaia di chilometri. Può capitare che dopo mezza giornata di viaggio si debba tornare indietro perché scopri che la regione è stata allagata dalla piena del fiume. Quando si incontra qualcuno bisogna sempre chiedere informazioni.
Pochi chilometri prima un enorme elefante maschio che stava al centro della strada ci ha visti arrivare, ha allargato le orecchie, ci ha puntato e poi, con un barrito da far accapponare la pelle si è voltato ed è partito correndo nella savana.
La corsa di un elefante è qualcosa di portentoso: il corpo quasi fermo e le enormi zampe che si muovono al di sotto ne fanno una specie di edificio mobile. Le sue dimensioni assumono, in corsa, proporzioni allucinanti. Al suo passaggio può travolgere qualunque cosa, anche un Land Rover, può passarci sopra senza problemi.
Ci stiamo muovendo su un sentiero in mezzo alla savana. La pianura è costellata da basse colline di massi e vegetazione. Diego ferma la macchina e mi dice via CB di guardare sulla mia destra.
Mi volto e vedo una decina di elefanti che passeggiano con tutta calma. Cecilia, seduta di fianco a me mi tocca una mano e mi dice di guardare a sinistra. Altre decine di elefanti.
Guardo nello specchietto retrovisore e vedo che una colonna di esemplari enormi stà attraversando il sentiero proprio pochi metri dietro a noi.
Siamo capitati in mezzo ad una mandria di centinaia di esemplari che si stanno spostando. Con le macchine spente stiamo a guardare il passaggio degli animali. È come fermarsi in mezzo ad un gregge di pecore che si muove, solo che queste sono pecore di 7 tonnellate ed ognuna di loro ti può fare in piccoli pezzettini.
Inizialmente, chiuso nel tuo bel fuoristrada, ti senti al sicuro, ma quando un elefante ti passa a due o tre metri di distanza e ne comprendi le reali dimensioni, allora capisci che essere in macchina o a piedi, fa poca differenza. Non sta a noi proteggerci, ma sta a loro non attaccarci.
La sera facciamo campo in quella che dovrebbe essere un’area sicura. A qualche decina di metri da noi due elefanti strappano rami grossi come un braccio per poi mangiarne le tenere foglioline. Cecilia e Federica armeggiano dietro ad un rubinetto affogato in una piramide di cemento alta un metro costruita per difenderlo dai pachidermi.
Io e Diego, da veri maschi scoliamo birra ed osserviamo il recinto in cemento armato e terra che protegge i due serbatoi dell’acqua.
Birra in mano, infradito inforcate, posa da sapientoni, stimiamo le dimensioni della struttura: il recinto in cemento armato è alto 4 – 5 metri con solo due passaggi per entrare larghi non più di trenta centimetri e chiusi da pesanti cancelli in ferro. All’interno un terrapieno di tre quattro metri fa da sponda al muro. Sembra un rifugio antiatomico. Invece è un recinto per difendersi dagli animali. Roba da matti. Roba da “Jurassick Park”.
Mi viene subito da pensare che forse sia meglio dormire all’interno di questo bunker piuttosto che sopra alle nostre scatolette di alluminio di marca Land Rover.
Ma in realtà ciò che va protetto dagli elefanti è l’acqua, non i quattro italiani di passaggio, sicuramente meno preziosi dell’acqua e molto meno appetibili per gli elefanti.

Abbiamo attraversato tutta l’Africa da nord a sud ed ora la stiamo risalendo; siamo passati per strade infangate ed insanguinate, ci siamo trovati in mezzo a folle di persone arrabbiate ed in laghi di fango da far tremare le vene ai polsi; ma mai come di fronte ad un gruppo di elefanti, ci si sente nudi ed indifesi. Il Land Rover, potente, solido, inossidabile ed inarrestabile, diventa , di fronte a questi mastodonti venuti dal passato, una scatoletta di sardine e noi, sdraiati nelle nostre tende, nella notte africana, in mezzo a centinaia di chilometri di savana, siamo proprio come quattro sardine in scatola.

Facciamo il campo: accostiamo le macchine, apriamo le tende, stendiamo un grosso telo impermeabile da un’auto all’altra, apriamo il tavolo e le sedie.
Cecilia e Federica cucinano la pasta ed io e Diego mettiamo sui nostri Apple le foto fatte nei giorni precedenti.
La giornata finisce, passa il tramonto rosso come il sangue ed arriva la notte , nera come l’inchiostro, profonda come un pozzo.
Come tutte le sere ci siamo accampati a ridosso di un enorme albero.
Che sia mopane, baobab o acacia, non importa. Credo, seguendo un incomprensibile istinto atavico, ogni notte facciamo il campo vicino ad un albero e più è grande meglio è.
Questa notte attorno a noi gli animali diurni dormono o riposano; quelli che di notte cacciano sono in movimento.
Leoni, leopardi e iene si danno da fare per trovare e catturare una preda. Le iene, le più infami, sono anche le uniche che si avvicinano all’uomo quasi senza timore.
Di notte le senti che si aggirano nel campo alla ricerca di cibo e avanzi e la cosa migliore da fare è aspettare che si allontanino e poi rimettersi a dormire. Eppure in nessun posto al mondo si riposa bene come qui, in questa tenda montata sul tetto della macchina in mezzo ad un mondo preistorico grande quanto l’Italia. Per centinaia se non migliaia di chilometri non ci sono costruzioni attorno, non ci sono motori accesi e nemmeno persone che sfidano la notte a colpi di bevute.
Attorno solo piante e animali, distese di savana e fiumi che scorrono placidi e dissetano gli assetati animali.
L’uomo qui è in minoranza assoluta e vive senza il perenne peso della responsabilità di essere una creatura superiore. Qui l’uomo può lasciarsi trasportare e cullare dalla corrente, senza dover affannosamente lottare con il suo ruolo di superbo essere vicino a Dio. Qui sei vicino a Dio come lo è uno sciacallo, come lo può essere un’antilope e come loro, le tue uniche preoccupazioni sono i rumori sospetti.
Come in un passato leggendario vivi con accanto il coltello, vivi con un’arma a portata di mano e lanci sempre un’occhiata alle scorte di acqua.
Passi le giornate controllando il livello del gasolio e quello dei tuoi stati d’animo. Attorno a te la corrente infinita della storia e quella del ripetersi eterno delle cose, del succedersi delle stagioni e degli accadimenti, ti trasportano in un flusso che è sicuramente più vicino alla natura umana di qualunque manufatto o tecnologia abbiamo la pretesa di inventare.
Questo mondo ti stravolge, ti capovolge e ti fa girare la testa. La macchina diventa un pezzo di latta e la tenda uno scampolo di stoffa. Tutto assume la sua forma originaria. Noi diventiamo pezzi di carne ed i nostri cervelli pezzettini di storia. L’insieme perde qualunque significato e quello che resta è poi quello che veramente conta. Ovvero che è scesa la notte.
Domani verrà il giorno e faremo nuovamente i conti con il livello del gasolio, con quello dell’acqua e della rotta da seguire. Sì, della rotta, perché in questo mare immenso che è l’Africa non si segue una direzione ma una rotta.
La mattina si riparte ed il viaggio fatica a riappropriarsi del proprio significato. Tutto pare futile e senza senso. Ma dove stiamo andando? Perché non restiamo qui? Qui a casa nostra? Qui dove siamo realmente nati? Cosa andiamo a fare più avanti? Più su, sempre più a nord, per raggiungere nuovamente l’Europa, il nostro ultimo punto di partenza. Sempre più a nord per tornare all’ultima dimora di cui abbiamo memoria. La nostra memoria ha le gambe troppo corte per tornare fino a qui, per tornare a questi primordi in cui ci troviamo ora ed allora.
Ingannati dai nostri brevi e poco profondi ricordi ci svegliamo, usciamo dalle tende, prepariamo il caffè, disfiamo il campo e ripartiamo verso il nord.

E così, ciechi e mutilati come il capitano Achab, battiamo la nostra pista, seguiamo la nostra strada, tracciamo la nuova rotta senza sapere che comunque sia andremo incontro al disastro ed alla sconfitta.
Proseguiremo verso nord facendo finta di niente, lotteremo con i demoni e con le fatiche per giungere ad una meta che non è altro che il posto da cui siamo partiti.

La savana si stende nuovamente di fronte ed attorno a noi. Questa sera dovremmo trovare la strada che ci condurrà in Zimbabwe, ma per arrivarci manca ancora molto ed io cerco di godere di quello che ho attorno.
Stiamo ormai costeggiando la Caprivi Strip. Poche centinaia di metri verso nord e saremmo nella splendida Namibia, pochi chilometri e saremmo nel poverissimo Zambia, qualche chilometro a nord-ovest e ci troveremmo di nuovo nella lacera ed affascinante Angola. Ma noi sterziamo e ci dirigiamo ad ovest, decisi o quasi a raggiungere lo Zimbabwe in giornata.
La sera, all’imbrunire, in lontananza una colonna di vapore ed un possente boato ci indicano che siamo arrivati.
“The Tunder Smoke” il fumo che tuona, le Victoria Falls, uno degli ultimi atti del Dott. David Livingstone.
Noi ci arriviamo stanchi, di sera, sporchi e sudati, ma invece che scoprire le cascate ci ritiriamo mestamente in un affittacamere con bar e giardino. Un letto vero dopo giorni di campo.
In realtà, se potessi, andrei a dormire in tenda.




Vita e morte di un poeta.



“Il fumo che tuona”, le Victoria Falls, si fanno sentire e vedere da decine di chilometri di distanza. Quando con la macchina ti avvicini vedi in lontananza bianche nubi e ci metti un bel po’ a capire che non è il maltempo che avanza o un temporale che sta per sopraggiungere.
La colonna di fumo che le cascate alzano è impressionante. Il fiume Zambesi si getta in una gola profonda 110 metri e con un fronte di 1600. La gola crea un gorgo immenso e tutto attorno i miliardi di goccioline d’acqua fanno in modo che si insaturi un microclima tropicale.
Noi decidiamo di non andare a vedere le cascate se non il giorno successivo.
Cerchiamo un albergo ma hanno tutti prezzi per noi proibitivi, dai 60 dollari in su a notte. 240 dollari in quattro. Un’enormità se considerata nell’economia di un viaggio come il nostro.
Qualche ora dopo, con l’aiuto della preziosissima Lonley Planet troviamo Lorry’s, un affittacamere che ci fa dormire ad un prezzo decente. Qui tutto è più caro. Le Cascate Vittoria sono molto più visitate di qualsiasi altro posto nel raggio di duemila chilometri. Ed i turisti pagano salata la visita di due giorni.
Lorry’s è uno di quei posti che sembrano rimasti indietro nel tempo. Una piccola costruzione fa da ufficio e bar, un’altra ospita poche camerette.
Strani personaggi Lorry ed il suo compagno. Sono un po’ Yppies ed un po’ colonialisti vecchio stampo. Un po’ sembrano due strani ambientalisti ma potrebbero anche essere due schiavisti. Fumano e bevono senza sosta. Sono gentili e simpatici. Andiamo a vedere le camere che non sono per niente male. C’è un piccolo giardino con una vecchia piscina nella quale ora fanno il bagno i quattro cani di casa. Nel giardino c’è una vecchia enorme voliera piena di uccelli esotici. Ci sistemiamo, doccia, birra e tutto il resto.
Ci toccano due camerette divise da un salottino.
Nel salottino, in mezzo a mille soprammobili accumulati in anni di “Africanità”, c’è, appesa ad un muro una stampa ingiallita che raffigura un uomo sdraiato sul ciglio delle cascate Vittoria. Dietro di lui due indigeni in piedi lo osservano.
L’uomo del quadro è David Livingstone che guarda nell’abisso. Il quadro rappresenta la scoperta delle cascate da parte del primo occidentale.
La vita di Livingstone è qualcosa che si avvicina più alla poesia che alla sua vera professione.
Livingstone parte per l’Africa come missionario nel 1840 all’età di 27 anni. Fu inviato a Kuruman in Beciuania (l’attuale Botswana), quella che allora era la più remota missione africana.
L’esperienza missionaria di Livingstone si rivela però presto un totale fallimento. Sebbene egli nel suo intimo non volesse ammetterlo era molto più esploratore che missionario. Nel suo diario egli scrive che “ non era mai così felice come quando avanzava a fatica nella boscaglia con 40 gradi di temperatura, annotando meticolosamente la natura del paesaggio, la struttura dei termitai, la consistenza delle rocce e delle foglie.”
Livingstone si persuase che fosse di vitale importanza scoprire una via fluviale che collegasse l’interno dell’Africa con l’Oceano Indiano e con quello Pacifico. Probabilmente Livingstone l’esploratore usò questa come scusa per intraprendere esplorazioni che lo condurranno attraverso tutto il continente.
Il 3 agosto 1851 dopo una marcia di 110 chilometri attraverso terre così aride ed assolate che “anche le mosche cercavano l’ombra” egli giunge al fiume Zambesi. Livingstone prosegue poi la sua marcia, ma non verso oriente come ci si sarebbe ragionevolmente aspettati. Per motivi solo a lui noti parte per il nord-ovest. Dopo sei mesi e 1600 chilometri di foreste e paludi egli giunge stremato, quasi morto, in Angola. Qui viene curato e, rifiutando l’offerta di una vacanza in Inghilterra, pochi mesi dopo riparte. L’esploratore ritorna a Lunati sullo Zambesi percorrendo la stessa via. Il viaggio di ritorno quasi lo uccide.
Durante il tragitto vomitò sangue più volte, perse parte dell’udito per un attacco di febbri reumatiche, si ammalò più volte di malaria e fu quasi accecato da un ramo. Al suo arrivo a Linyati, dopo un’assenza di quasi due anni, fu accolto dalla tribù dei Makololo come un eroe. Due mesi dopo, ancora stanco e provato, era nuovamente pronto a riprendere il suo percorso transcontinentale di 4000 chilometri.
Mentre discendeva in canoa il fiume Chobe e poi lo Zambesi si ritrovò di fronte ad uno spettacolo naturale senza paragoni.
I Makololo lo chiamavano “Mosy oa Tunya” ovvero il fumo che tuona e non avevano mai osato avvicinarvisi.
Ed è qui che lo incontriamo noi.
Dopo centocinquanta anni noi lo ritroviamo qui, stampato su un quadro, ancora sdraiato sull’orlo dell’abisso intento a scrutare la profondità del gorgo.
In seguito Livingstone superò questo straordinario ostacolo alla sua marcia e giunse, otto mesi dopo, sulla costa dell’Oceano Indiano. Stanco, allo stremo delle forze e sconfitto: lo Zambesi non era navigabile. Ormai però non poteva più fermarsi.
Negli anni che seguirono esplorò dapprima il lago Nyassa (ora Lago Malawi) che, con i suoi 30.000 chilometri quadrati si spingeva 500 chilometri verso nord.
Spossato dalla dissenteria ormai cronica, distrutto dalle febbri malariche, egli ormai cadeva sempre più spesso nella più cupa malinconia. A più riprese, nel suo diario, l’esploratore, si chiedeva se stesse perdendo la ragione.
Il ministero degli esteri britannico gli ordinò di rientrare in patria ma egli dopo nemmeno due anni era già di ritorno. Nell’aprile del 1866 sbarcò alla baia di Rovuma, sul confine tra Mozambico e Tanzania per cercare la soluzione ad un antico mistero: l’ubicazione delle sorgenti del Nilo. La sua idea era di esplorare il continente ad ovest del lago Nyassa. Egli aveva già scartato le affermazioni di Speke e Burton secondo i quali le sorgenti del Nilo erano i laghi Tanganika e Vittoria. Era invece affascinato dalla teoria di Erodoto, secondo il quale nel cuore più nero dell’Africa si trovavano le mitiche fonti del Nilo che però per metà scorrevano a nord verso l’Egitto e per metà a sud.
Dopo mesi di ricerche, nuovamente allo stremo delle forze ed ormai solo, l’esploratore si unì ad una carovana di mercanti di schiavi arabi. Questa fu per il suo cuore missionario una tremenda umiliazione ma, pur di continuare la sua ricerca, sopportò anche questo.
Dopo quasi due anni Livingstone rimase nuovamente solo e per sei mesi tentò di trovare la sorgente del Lulaba il quale, scorrendo verso nord, lo aveva convinto di aver trovato la soluzione all’enigma. In realtà il Lulaba è il corso superiore del fiume Congo.
Dopo altri sei mesi di ricerche, solo e quasi reso storpio da ulcerazioni ed infezioni ai piedi raggiunse la sorgente del Lulaba.
Mentre l’ormai anziano esploratore sedeva da solo sulle rive del fiume, sconfitto e sconsolato, convinto di terminare la sua vita di lì a poco, ode uno sparo molto vicino.
Dopo anni di vita solitaria in mezzo ai selvaggi Livingstone incontra Henry Morton Stanley, partito un anno prima proprio per ritrovarlo.
Qui venne proferita la frase più famosa di tutti i viaggi di esplorazione. Stanley, con una calma che può essere solo degli inglesi disse “Dr Livingstone I presume?”, “ Dottor Livingstone suppongo”
Per un anno i due esplorarono assieme la regione del Tanganica, poi Stanley rientrò negli USA, la sua patria mentre Livingstone restò.
Otto mesi più tardi, il primo maggio 1873 i suoi servitori Susi e Chuma lo trovarono inginocchiato sulla sua branda, sulle rive del lago Bangweulu dove si era recato per effettuare ulteriori ricerche sulle sorgenti del Nilo. Era freddo e rigido, già morto da molte ore.

Mi devo forse scusare per questa lunga digressione sulla vita di quest’illustre inglese, ma è stata per me troppo affascinante la storia della vita di quest’uomo del quale è stato anche scritto: “Indiscutibilmente Livingstone fu un fallimento come missionario, e come uomo poteva essere arrogante, sospettoso, irascibile ed indifferente alle sofferenze altrui (Come lo era d’altronde alle sue).”
Ma leggo anche:”Egli fu indubbiamente un grande uomo, quasi sovrumano nella sua tenacia, un grande individualista, sinceramente dedito nel suo intimo a quello che egli chiamava “IL SOLLIEVO DELLE MISERIE UMANE”.

Quest’ultima frase la voglio scrivere maiuscola. Questo è il motivo per cui i grandi uomini fanno le cose, nessun altro. Nessun altro motivo esiste, nessun fine più luminoso può far luce sull’agire umano. Tutto ciò che è fatto per qualsiasi altro scopo non è altro che mera sopravvivenza.
Livingstone con il suo peregrinare ha lasciato impronte in tutto il continente. Ha tracciato rotte che disegnano la sua storia ed assieme alla sua quella dell’intera umanità.
Ed oggi noi siamo qui, al limitare delle grandi cascate, ad incrociare il suo cammino per un soffio, un soffio di centocinquanta anni. Noi siamo qui, stanchi di sei mesi di vagabondaggio in auto e tenda. Siamo stanchi ed un po’ dobbiamo vergognarcene, al cospetto di una figura del genere.
Certo non siamo esploratori, abbiamo girato tanto in questo continente, abbiamo fatto molta più strada di Livingstone, ma in fine dei conti torneremo indietro. Torneremo in Europa, a casa. Quest’uomo non tornò mai indietro. Diventò una vera anima errante priva di ogni ritorno.
Noi domani andremo a piedi a vedere le cascate, ci metteremo addosso la cerata per non bagnarci e faremo delle foto. Ma per rispetto di questa enorme figura e di tutti coloro che “cercano il sollievo delle miserie umane” ripartiremo subito verso nord, senza riposarci e senza aspettare che scenda su di noi la calma e la pace.
Quest’ossessione al movimento, ad andare avanti, magari a tornare per poi poter raccontare e poi ripartire è qualcosa che fa male e che ti sfianca.
La sensazione è di conoscere cose nuove ad ogni passo ma il sentimento profondo è un altro e di natura totalmente opposta.
Livingstone descrive così questa sensazione parlando di lui e di Stanley:”un sentimento di comunione condiviso da due uomini erranti che, nei loro viaggi, avevano perso più di quanto avevano acquisito.”
Dai miei viaggi io torno sempre e qualche volta ringrazio di non avere le risorse economiche per non smettere mai di viaggiare.

Stando così le cose l’unica cosa che ci resta da fare una volta che siamo ritornati a casa è ripartire. Ripartire un’altra volta e sempre e stare a vedere cosa succede.


Le Cascate Vittoria, infine, sono uno spettacolo affascinante, ma i turisti che vi confluiscono a frotte, armati di cerata e stivaletti, i venditori di souvenir e di bibite, ne diminuiscono il fascino.
Uno sperduto salto d’acqua di poche decine di metri che però si trova nella foresta del nord del Malawi, raggiungibile solo da strade secondarie, oppure un piccolo lago nascosto nella foresta del Congo dove se non ci capiti non ci puoi andare, quelli si che sono spettacoli che mi rimarranno nel cuore tutta la vita.

Come si dice: ”un ultimo sguardo” al fumo che tuona e via, si ritorna alle camere per dormire e per prepararsi alla partenza all’alba.

In buona sostanza è più forte e sincero il ricordo di quella stampa delle cascate con il Dr Livingstone sdraiato sull’abisso, che il ricordo delle cascate vere e proprie.
Le cascate sono state importanti da vedere e sentire perché l’ho fatto con Cecilia, con Diego e Federica, abbiamo scherzato, riso e ci siamo bagnati. Abbiamo vissuto assieme la sensazione di trovarci finalmente in qualche posto definito e definitivo, un posto che esiste per tutti e molto lontano da tutti. Credo che ci siamo sentiti appagati in quel momento, come, dopo mesi di viaggi, fossimo finalmente arrivati da qualche parte.
Il quadro invece l’ho sentito dentro, l’ho sentito da solo, seduto su quel salotto sgualcito e umido, con i gechi che schizzavano sul soffitto.
In quel quadro non c’è nessuna gioia, nessun piacere. Quel quadro è il lato oscuro delle cose, quel lato che non riesci mai a conoscere e con cui non riesci mai a fare i conti, quella parte di noi stessi che gli altri non potranno mai conoscere; quella parte oscura che, seppure nascosta nel fondo, ha lavorato perchè Cecilia, Federica, Diego ed io ci trovassimo in quello stesso momento, quello stesso giorno, seduti proprio in quel salotto umido e sgualcito.





LE STRADE DELLO ZAMBIA



In Zambia siamo passati come fulmini. Un giorno di marcia, una notte, qualche birra ed un altro giorno. La seconda sera siamo già a Lilongwe in Malawi.
Lo Zambia è il mio ricordo più fugace e confuso. Le piste si trasformano in strade e poi i villaggi in città. La prima ed unica vera città che incontriamo è Lusaka.
Traffico e confusione. Migliaia di poveri e storpi affollano le città. Musulmani corrono a piedi per le vie, affollano i mercati e sfrecciano su Mercedes tanto scintillanti quanto fuori posto.
Al bordo strada si susseguono negozietti cadenti e bancarelle, poi vediamo un enorme mulino e poi di nuovo banchetti di cianfrusaglie e cibi. D’un tratto un concessionario degno del centro di Dallas. Mercedes e BMW, Chrysler e Maserati. Porsche e Wolkswagen. Modelli dei quali ne conosci l’esistenza solo se guardi i cataloghi dai centomila euro in su.
Posso capire se ti compri un SUV (Sigla che peraltro non vuole dire assolutamente nulla. Sport Utility Vagon. Ovvero? Il nulla assoluto. Auto utile per lo sport. Cosa cazzo è? Un cronometro? Una moto da cross? Un’auto da formula uno? No, è una fiat 127 di venticinque quintali). Se ti compri un SUV dicevo, tipo Cayenne per intenderci, magari lo puoi usare un po’ sul fango o su uno sterrato, magari puoi anche parcheggiare su un marciapiede sfondato. In città, tra buchi e fossi puoi farci anche i cinquanta all’ora. Ma se ti compri una macchina da trecento cavalli alta quattro centimetri da terra dove mai potrai andare se abiti a Lusaka?
Se possiedi un’auto del genere e ti vuoi allontanare dalla città la devi sollevare con un elicottero o metterla su un camion.
Perché le comprano? Status symbol. Nuovamente status symbol. E forse è giusto così. Chi sono io per dare un parere?
Comunque se per strada tra Lusaka ed il confine trovo uno di questi in panne non lo tiro fuori. Che si chiami l’elicottero.
Passiamo una notte a Lusaka in un ostello che ci ospita nel cortile.
Il giorno dopo per la strada incrociamo quello che qui dicono essere l’albero più grosso del mondo, per lo meno il più grosso dell’Africa. Non so se sia vero ma comunque è molto più grosso di casa mia, in tutti i sensi, altezza e larghezza.
L’Africa è pazza ed i suoi abitanti lo sono ancor di più.
Arriviamo in una cittadina appena degna di questo nome. Nel centro della piazza principale, che è poi una rotonda di fango nel fango della strada, c’è un dinosauro in cemento armato.
Lo guardo come potrei guardare un extraterrestre. Ci giriamo attorno due o tre volte e poi, al riparo della sua mole ci fermiamo ad un chiosco a mangiare uno stufato di banane e fagioli. L’ideale quando la temperatura dell’aria è di 42 gradi.
Diamo due caramelle ai curiosi bimbi che ci avvicinano. In cambio loro fanno le solite mosse di karate imparate dai film di Bruce Lee. Qui tutti i bimbi sembra abbiano visto i film di Bruce Lee. Meno male che sono rimasti indietro. Come farebbero se avessero visto The Matrix? Dovrebbero imparare a volare ed a rimanere fermi a mezz’aria affinchè una telecamera inventata possa fargli un giro attorno di almeno 250 gradi.
Così i piccoli si sparano due mosse di arte orientale, si beccano tre caramelle e poi scappano lontano a ridere di noi ed a spiarci.
Paghiamo il pranzo, lo paghiamo quattro soldi. In effetti il pranzo è da quattro soldi ma il servizio è da re. Tutte le volte che ci sediamo ad un locale dove normalmente un bianco non si siede, tutte le volte, nessuna esclusa, veniamo trattati come principi, come se avere dei bianchi a tavola fosse un onore.
Grazie di qua e grazie di là, grazie di su e di giù.
Ci alziamo e, camminando nel fango, arriviamo alle macchine, le mettiamo in moto e partiamo, dieci, venti metri e superiamo il dinosauro di cemento armato. Ci facciamo un altro giro attorno per riguardarlo meglio.
Nelle ultime due ore non si è mosso di un millimetro, come il cane che sta appisolato sotto la sua ombra.
Ripartiamo e viaggiamo veloci sulle strade più o meno asfaltate. Se riusciamo vorremmo passare la notte a Lilongwe.
Sono teso, agitato un po’ confuso. Sono stato in Malawi quattro anni prima e mi ero ripromesso di non metterci mai più piede. Per la verità non volevo mettere più piede in Africa, beh in Africa non so, ma in Malawi proprio no.
Adesso invece non vedo l’ora, di ritornarci, non vedo l’ora di vedere cosa e come è cambiato, di rivedere i posti e capire come mi sento, capire quanto sono cambiato io.
In Malawi c’è Gerardo. Non ci aspetta ma dovrebbe essere lì.
 Gerardo avrà sicuramente birra fresca per tutti.



Se dico Malawi non sai nemmeno di cosa stò parlando



Fino a quando, nel 2006, Madonna (la cantante) non decide di portarsi via un bimbo dal Malawi ed adottarlo, erano davvero pochi quelli che sapevano che il Malawi fosse uno stato africano ed ancor meno quelli che sapevano dove si trovasse.
Madonna adotta un bambino e finisce su tutti i giornaletti di gossip. I giornali più letti dagli uomini e dalle donne sono proprio queste riviste-cartaigienica. Dopo i peggiori canali tv sono proprio le rivistine di gossip il mezzo di comunicazione di massa più fruito. Fate uno più uno e vedrete che ora, ma solo per qualche anno, perché la memoria è corta, la gente saprà cos’è e dov’è il Malawi. Tra qualche anno tutti dimenticheranno ed il Malawi tornerà a stabilirsi in un confuso sud-est asiatico tra Puket e “dove c’è stata la guerra del Vietnam”.
Grazie a Dio la gente si dimenticherà di nuovo del Malawi.
Il Malawi è uno stato dell’Africa Orientale. È piazzato lì, in mezzo ad un paradiso terrestre. A sud-est ha il Mozambico che gli fa compagnia, a nord l’immensa Tanzania che lo protegge ed a ovest lo Zambia.
Si presume che il nome Malawi si riferisca ad un termine Chewa che indica lo scintillio del sole che sorge sul lago (rappresentato anche sulla bandiera).
Che dire di uno stato che porta il nome di un fenomeno così poetico e che ha per simbolo il sorgere del sole sul lago?
Il Malawi è un paradiso di spiagge bianche, coperte di mangrovie e palme. Le acque del lago formano un mare di cui spesso non si vede l’altra riva. Le maree sono puntuali come quelle del Mediterraneo ma le sue acque dolci e calde sembrano quelle di una piscina.
Montagne di tremila metri si affacciano sulle chiare acque del lago, altopiani di conifere digradano verso foreste incontaminate che a loro volta racchiudono fiumi cristallini. Cascate che si gettano nel buio della foresta dissetano fiumi che sfociano nel lago mantenendo sempre limpide le sue acque. In questo ambiente vanno a spasso ippopotami (che ogni tanto si pappano una massaia che porta i panni al fiume e regolarmente la notizia esce sui giornali nazionali) elefanti ed antilopi. Sembra che qui non ci siano nemmeno molti predatori.
Il Lago Malawi ospita oltre cinquecento specie di pesci tropicali. Questo ne fa il lago con più specie al mondo o più semplicemente il più incredibile e gigantesco acquario del pianeta (altro che quello di Genova).
Dodici milioni di abitanti spalmati su 120.000 km quadrati con il 90% della popolazione che vive nelle zone rurali. Le città sono piccole e molto più pulite delle altre città africane.
Noi entriamo in Malawi attraverso la frontiera con lo Zambia ed al tramonto siamo a Lilongwe, la capitale.
Io sono stato qui con Giuseppe cinque anni prima e sono molto curioso di vedere come è cambiato il posto. Inaspettatamente è cambiato per davvero. Le strade sono molto più pulite, la luce elettrica molto più diffusa. Regna un’atmosfera ancora più rilassata. Cinque anni prima giravo per il Malawi a piedi, in autostop ed in bus. Oggi siamo qui con i nostri due destrieri marca Land Rover. Le questioni cambiano. Cinque anni fa per trovare i passaggi e far coincidere i bus per attraversare tutto lo stato ci volevano giorni e giorni. Oggi, volendo, viaggiando senza sosta dall’alba al tramonto potremmo percorrerlo tutto in un giorno.
Anche Lilongwe mi sembra più piccina. In cinque minuti vai da una periferia all’altra. Cinque anni fa, a piedi, alle periferie non ci ero nemmeno arrivato.
Pernottiamo al Kiboko (ippopotamo in Swaili). Ero già stato anche qui e poco è cambiato. Anche i due cani mi sembrano gli stessi. (Praticamente tutti i bianchi residenti in Africa posseggono cani. La maggior parte dei neri ha terrore dei cani. Fate di nuovo uno più uno.)

La mattina presto andiamo allo Shoprite che è arrivato fino a qui dal Sud Africa. Facciamo scorta delle solite cose: acqua, sigarette, pane e scatolette. Compro anche un chilo di anacardi. Fuori dal supermercato Cecilia regala penne e zainetti ai bimbi che tra poco accorreranno a centinaia. Quando in Africa si sparge la voce che arriva una novella Lady D. carica di piccoli doni, i bambini saltano fuori da ogni anfratto, da ogni buco, pertugio o crepa nell’asfalto. Qualche volta piovono addirittura dal cielo. In un secondo ti stringono d’assedio e con i loro corpicini ti impediscono di far ripartire la macchina. Finchè tutti ma proprio tutti non hanno avuto un pennarello, una penna o anche solo una carezza sulla testa.
Ripartiamo verso nord. Partiamo alla volta di Mzuzu regno incontrastato di Gerard Esposito e Jennifer cittadini del mondo.
La strada sale dolcemente. Sulla sinistra le spiagge assolate del lago e davanti a noi sulla destra le prime vette coperte di pini.
La popolazione del Malawi è composta per il 95% dai neri d’Africa divisi in una moltitudine di etnie (Chewa, Nyanja, Yao, Tumbuka, Lomwe, Sena, Tonga, Ngoni, Ngonde). A pronunciarle una dietro l’altra sembra di cantare una canzone. Il gruppo dominante è il Chewa e ovviamente la loro lingua è quella parlata in tutto il paese. Il Chichewa a sentirlo è pieno di suoni come che, chi, ngo, ngoni, ecc.

La strada sale tortuosa. La pioggia scende lenta a bagnare le nostre macchine e le decine di teste nere appollaiate sui lenti pick-up che arrancano su per i tornanti. Salendo la temperatura scende e la vegetazione cambia.
Quasi improvvisamente ci troviamo in uno scenario tipo Twin Peaks. Le capanne che erano in paglia e fango ora sono fatte con assi di legno di pino.
Interi villaggi fatti in abete, sembra di vedere degli accampamenti di boscaioli canadesi. Però qui chi taglia le foreste è ovviamente nero come il carbone. Enormi distese di pinete tagliate con i tronchi già spellati ordinatamente accatastati ci fanno da contorno.
Noi sfrecciamo sicuri su un asfalto perfetto, reso nero nero dalla pioggia. Le strade non fanno qui i folli giri per aggirare o scavalcare le montagne con percorsi da ottovolante. No, niente affatto. Qui sono stati fatti dei lavori: scavi per diminuire le pendenze, terrapieni per ovviare alle controtendenze e ponti per scavalcare non solo fiumi ma anche torrenti.
Arriviamo a Mzuzu e in un attimo, dopo cinque anni che non ci venivo, riesco ad orientarmi. Il Tropicana, il vecchio ristorante di Gerardo che era ormai pronto ad entrare nella leggenda, è stato sostituito da qualcosa che non capisco, sembra un altro ristorante ma è troppo candido ed asettico per essere vero.
Troviamo in Mzoozoozoo, il backpackers di Gerardo. Lui non c’è. Come fossimo Tex Willer e Kit Carson mangiamo bistecche con una montagna di patatine.
Partiamo per Nkata Bay, un paradiso sul lago. Torneremo qui domani.
La strada per Nkata Bay è asfaltata e circondata da una vegetazione color smeraldo che diventa sempre più fitta e verde mano a mano che scendiamo verso il lago. Di quando in quando colonie di babbuini ci guardano passare; i più piccoli scappano, i più grandi ci guardano altezzosi grattandosi i genitali.
Nkata Bay è rimasta tale e quale, un piccolo insediamento sul lago, dietro al quale ci sono piccole spiagge degne dei Caraibi.
Parcheggiamo le macchine sulla sabbia della spiaggia e apriamo le tende con l’entrata rivolta verso il lago, verso levante, verso il sorgere del sole.
Qualche bimbo magro magro si aggira attorno a noi aspettando penne e caramelle che arriveranno puntuali.
In otto secondi e mezzo siamo tutti e quattro a mollo nelle calde e dolci acque del lago.
Arrivano i beach boys. Così si fanno chiamare, come quelli delle località turistiche solo che questi qui nelle loro lunghe giornate vedono sicuramente più ippopotami che turisti. Si presentano con nomi davvero improbabili come Cheese on toast o Chicken Pizza.
Proprio quest’ultimo diventerà per qualche giorno il nostro fedele scudiero. Ci farà mangiare il pesce migliore, ci indicherà le strade più brevi e ci dirà qual’ è la marca migliore di birra.
Non voglio raccontarvi di questi due giorni passati come in un paradiso a mangiare pesce, bere birra e far passare il tempo tra acqua e sole.
Unico aneddoto: Chicken Pizza (vero nome Preatcher, di origini zambiane) ci racconta quello che secondo lui è il momento più saliente della sua infanzia.
Ci sono con lui tre bimbi nello spiazzo antistante la capanna di famiglia. Gli adulti del villaggio sono indaffarati nelle loro occupazioni: le donne macinano la farina e gli uomini le guardano, le donne vanno a prendere l’acqua al fiume e gli uomini le guardano, le donne cucinano e gli uomini le guardano. Infine gli uomini mangiano e le donne guardano.
Chicken Pizza è un bimbo molto magro ed ha fame, come i suoi fratelli e cugini. Unica ricchezza del cortile una pianta di mango con due frutti. Chicken Pizza, più intelligente degli altri, prende una lunga canna e stuzzica il mango più grosso e sugoso. Lo stuzzica tanto che questo si stacca e gli piomba sulla testa. Lui sviene. Quando si riprende c’è lì la mamma spaventata che lo sgrida e gli dice :” Vedi come sei stupido? Ora Chicken Pizza ha un bernoccolo ed il nostro albero un mango in meno perché questo si è spappolato e non si può più mangiare. Quindi siediti lì e stai fermo.”
Morale? Stai seduto e non fare niente come fa tuo papà e coma ha fatto tuo nonno ed il papà di tuo nonno e così via.
Chicken pizza ci racconta questa storia e ride come un pazzo. Ride tanto che si butta per terra e si deve tenere la pancia per non farla scoppiare dalle risate.

Rientriamo a Mzuzu dove incontriamo Gerardo e Jennifer.
La casa di Gerardo è stata trasformata in una specie di Backpakers. Il vecchio Land Rover è parcheggiato fuori e si porta addosso il peso degli anni.
Gerardo invece non sembra per niente invecchiato. Elegante e stiloso anche in mezzo all’Africa nera.
Lo troviamo che stà battendo a macchina una lettera. Usa una vecchia olivetti e con gli occhiali sulla punta del naso batte sui tasti. Scrive alla municipalità ed alla polizia una lettera in cui spiega che da lui, nel suo ostello non vengono vendute droghe e non si pratica la sodomia. Spiega alle autorità che lui e chi lavora per lui non incitano i clienti nè all’uso di droghe nè alla sodomia o alla promiscuità. Sembra una specie della nostra “dichiarazione antimafia” (ovvero dichiarare cose più che scontate).
Passiamo la serata con Gerardo, Jennifer ed un loro amico inglese senza una mano, un personaggio che sembra uscito da un libro di Jack London, un elemento che ha da raccontare più avventure di quelle che si ricorda.
Una bottiglia di whisky, poi due poi sei birre, poi dodici, poi ventiquattro.
Sono stordito ma felice, felice di rivedere una persona alla quale non so per quale motivo ma mi sono affezionato.
Gerardo che tanto mi era rimasto impresso nel mio primo viaggio in Africa, è ancora qui, a tentare di migliorare il suo mondo, a spiegare che a casa sua non si pratica la sodomia e non si vende droga, a spiegare che i libri ed i film che ha in casa non sono opera del demonio, a lottare contro ai mulini a vento.
Il giorno dopo ci salutiamo e facciamo qualche foto quasi di rito.
A fatica trattengo le lacrime, Cecilia invece non le trattiene per niente e piange.
Spero un giorno di rincontrare queste persone e di capire, di imparare l’arte per raccontare di loro, di spiegare perché siano persone tanto speciali.
Ci lasciamo alle spalle Mzuzu, attraversiamo boschi di conifere e poi ridiscendiamo verso il lago. Viaggiamo per ore ed ore in paesaggi che sembrano finti tanto sono belli.
A destra il lago costellato di villaggi di pescatori, a sinistra alte rupi precipitano cascate di acqua cristallina che prima di toccare terra si nebulizza creando un continuo e caleidoscopico susseguirsi di arcobaleni che decorano la vegetazione verde come un ramarro.
Ci lasciamo dietro il Malawi e la sera entriamo in Tanzania.

Se sei nero e nasci in questo paradiso che è il Malawi, hai un’aspettativa di vita di 35 anni. Che tu sia uomo o donna, in queste cose, quello che conta è che tu sia nero.




Nord Nord-est
Nord Nord-ovest


Entriamo in Tanzania da sud-est ed attraversiamo savana e praterie lungo strade a tratti asfaltate ed a tratti sconnesse come mulattiere.
Villaggi che sembrano popolati solo da bimbi sotto ai dodici anni, ci vengono incontro ogni mezz’ora a ritmo quasi regolare.
La Tanzania si presenta splendida e smisurata come sa esserlo solo uno stato africano.
Nei prossimi giorni la dovremo attraversare in lungo ed in largo, zigzagando tra l’Oceano Indiano e il monte Kilimangiaro, tra il cratere di Ngoro Ngoro e le infinite pianure del Serengeti, percorrere la costa del Lago Vittoria e cercare di entrare in Rwanda o in Burundi.

Di colpo una decina di uomini ci fanno segno di rallentare. In mezzo alla savana si è creato un ingorgo.
Un bus ed un tir si sono scontrati, uno è mezzo rovesciato, l’altro mezzo distrutto. La strada completamente bloccata.
In Europa si formerebbe una coda chilometrica, qui nasce un mercato.
In breve le auto cominciano ad uscire di strada ed a disegnare percorsi alternativi. I pulmini stracarichi di persone sono i primi a gettarsi nelle cunette ed a cercare di uscirne.
In pochissimo tempo, tutto attorno all’incidente si è formato un via vai di macchine e persone degno di un centro cittadino. Pulmini infossati ed auto con i pneumatici affondati nell’erba. Banchetti improvvisati vendono bibite e collanine.
Noi scendiamo nel fosso al lato della strada e risaliamo agevolmente dall’altra parte. Superiamo pulmini carichi di donne che si sono piantati nel terreno sabbioso.
Ok, so cosa dobbiamo fare: tiro fuori le cinghie. Attacchiamo una cinghia al retro del mio Defender e Diego scende a dirigere le operazioni di sgombro.
Tiriamo fuori dalla savana diversi furgoncini ma presto ci rendiamo conto che se non ci sbrighiamo ad andarcene la cosa non avrà mai fine. Si è già formata una piccola coda che aspetta di venire trainata in salvo.
Noi mentiamo spudoratamente: “Dobbiamo andare ma non preoccupatevi, tra poco arriveranno altri nostri amici con i fuoristrada e vi aiuteranno.”
Ripartiamo scansando gente e macchine in contromano.
Da un ingorgo del genere in Africa, mi sa che può non nascere solo un mercato improvvisato ma addirittura un insediamento stabile, un villaggio. Spesso i villaggi sorgono per motivi meno importanti, cose come la presenza di un bell’albero o l’assenza di rovi.


Andiamo a passare la notte in una zona nota con il nome di Baobab Valley.
Mangiamo cena sotto un tetto di paglia degno della migliore tradizione africana, dormiamo protetti da alberi giganteschi che vegliano sul nostro sonno e, la mattina, ripartiamo rigenerati dalla frescura dell’alba.
Viaggiamo fino a sera, viaggiamo dodici ore e passiamo mille paesini e cittadine come Tukuyu, Mbeya, Iringa e Morogoro.
Sfioriamo Dar es Salaam e l’Oceano Indiano, in pomeriggio puntiamo ad ovest e la sera arriviamo a Korogwe.
Dormiamo in un enorme e deserto campeggio che aspetta dei turisti che forse tra qualche anno cominceranno ad arrivare. Mangiamo in un ristorante in città. Quattro sedie sporche, di plastica scassata, un tavolino e un po’ di riso. Ci servono un pesce che qui non daremmo nemmeno ai gatti. Dall’albero sopra di noi piovono formiche carnivore che si avventano sui nostri colli e sui nostri piatti di cibo. Un gatto malato si contende gli avanzi con quattro bimbi magri come scheletri. Beviamo una birra tanto calda che è praticamente solo schiuma e andiamo a dormire.
Nel campeggio di ghiaia un leopardo di cemento trascina sull’albero la sua preda insanguinata anch’essa di cemento. Questa scultura in perfetto stile “African-ultra-kitch” merita più foto di un predatore vero.
La mattina dopo, sempre di buon ora partiamo alla volta di Arusha.
In tarda mattinata passiamo, come in un sogno, sotto alle vette innevate del Kilimangiaro, ma un cumulo di nubi nasconde presto alla nostra vista quella che in questo momento deve essere l’unica vetta innevata del continente.
Qualche ora dopo siamo alle porte di Arusha.
Nel traffico cittadino un‘auto carica di almeno due famiglie ci supera contromano a velocità folle, tenta un rientro impossibile e tampona un pick up carico di casse di coca cola.
Superiamo lentamente l’incidente. Donne che urlano e uomini che litigano. Una fontana di Coca Cola zampilla dal retro del furgone, bottiglie continuano a stapparsi ed a sparare tappi.
La cocacola schiumosa si mischia con il sangue rosso.
Noi passiamo oltre come se fossimo passati di fronte alla vetrina di un negozio dell’orrore, di maschere e scherzi di carnevale.
Qui succede che, certe cose, che andrebbero ricordate tutta la vita, vengono invece dimenticate in pochi minuti, messe in ombra da sempre nuove disgrazie, da nuove esagerazioni, da nuovi problemi.
Ci accampiamo in un camp site grande, bello e molto frequentato e finiamo la serata con una sfida a biliardo.
Il giorno dopo si presenta radioso di sole e lasciamo Arusha dopo avere fatto provviste. Presto il panorama diventa ampio e aperto immense pianure d’erba ospitano mandrie di bovini dalle lunghe corna scortati al pascolo da gruppi di coloratissimi Masai.
In pomeriggio decidiamo di fare una deviazione e ci addentriamo in un villaggio Masai. Qui veniamo accolti con entusiasmo e presentati al capo villaggio. Tutto si risolve con una richiesta di denaro in cambio dello scatto di qualche fotografia.
Guidiamo tutto il giorno e la sera facciamo sosta per la notte in un villaggio dal nome impronunciabile: Mto Wa Mbu (Fiume delle zanzare).
Centinaia di bimbi in uniforme scolastica di colore viola intenso circondano il nostro campo e ci guardano affamati.
Manine nere tese attraverso la griglia del reticolato, implorano un dono, che sia caramella o penna non importa, l’importante è avere qualche cosa.
Andiamo a dormire con nelle orecchie migliaia di voci che ripetono: ”Mzungu, give me a pen, please, please”.


Affacciarsi nel cratere di Ngoro Ngoro provoca una sensazione di stordimento e frustrazione.
Ngoro Ngoro è una caldera di venti chilometri di diametro, un cratere dalle ripide pareti che scivolano in una pianura fatta di savane e foreste, praterie e laghi.
Noi arriviamo a Ngoro Ngoro la mattina presto, saliamo lungo una tortuosa strada sterrata e le prime luci dell’alba ci regalano il primo spettacolo della giornata: dietro una curva appare un leopardo. Fermiamo le macchine e lui ci passa accanto, non ci degna nemmeno di uno sguardo, tiene gli occhi socchiusi per combattere i raggi obliqui dell’alba che gli arrivano addosso. Passa accanto a noi e scivola via come fosse un’ombra di seta lasciando che il suo ricordo resti appiccicato alle nostre menti come miele sulle mani.
Pochi chilometri e siamo sulla sommità del cratere. Un cartello indica un’area di sosta da dove si può ammirare il paesaggio.
Io scendo e corro, impaziente come un bimbo, fino allo steccato che fa da ringhiera a questa specie di balconata naturale.
Mi gira la testa. Lo scenario che ho davanti è degno di una rappresentazione della preistoria. Non riesco a trattenere le lacrime e, mezz’ora dopo gli altri devono insistere più volte per strapparmi a quella visione che mi ha ormai completamente rapito.
Per circa un’ora percorriamo la pista che corre lungo la cresta dell’immenso cratere e poi cominciamo la discesa passando per strade dalle pendenze vertiginose che corrono tra verdi praterie. Passiamo diversi villaggi e di quando in quando, frotte di Masai arrivano di corsa per venderci il loro artigianato.
L’unico difetto di Ngoro Ngoro è che proprio a causa della sua struggente bellezza è diventato il posto più turistico della Tanzania. Nello stesso momento nel cratere possono esserci diverse decine di fuoristrada che circolano.
Comunque il cratere è grande e per la maggior parte del tempo siamo solo noi quattro con i nostri fuoristrada che attraversiamo lentamente la preistoria, il sogno. Passano diverse ore in cui incrociamo leoni, bufali ed anche un ormai rarissimo rinoceronte. Mangiamo un panino al bordo di un laghetto che ospita decine di ippopotami e Diego viene attaccato da un’aquila che cerca di appropriarsi della sua scatoletta di tonno.
Nel primissimo pomeriggio risaliamo le ripide pareti del cratere e lanciamo gli ultimi sguardi all’immensa caldera. Di nuovo le lacrime stanno per avere la meglio su di me.
Ma la strada è ancora lunga.
Discendiamo verso la gola di Olduvai, mitico sito archeologico dove sono stati ritrovati reperti fossili di ominidi risalenti a tre milioni e mezzo di anni fa. E’ proprio in posti come questo che, pare, l’uomo abbia mosso i suoi primi passi sulla terra.
Allora eravamo ancora piccoli piccoli e molto simili alle odierne scimmie, ma con il tempo siamo cresciuti e siamo smigrati. Oggi torniamo qui e riviviamo quel tremendo brivido di un ritorno incomprensibile verso una casa sconosciuta.
Attraversiamo le gole di Olduvai, secche e aride e ci spingiamo nelle praterie del Serengeti.
Da qui una pista di terra che attraversa praterie infinite che si stendono a perdita d’occhio, ci condurrà in qualche giorno al lago Vittoria.
I Land Rover corrono veloci e sicuri sulla pista ben tenuta.
Migliaia, milioni di animali vivono in queste zone, branchi di centinaia di zebre costellano la pianura erbosa. Miriadi di antilopi guardano incuriosite il nostro passaggio.
È anche il periodo della grandiosa migrazione degli gnu. Questi possenti animali attraversano tutto il Serengeti in massa, milioni di esemplari percorrono centinaia di chilometri attraverso le praterie incolonnandosi in carovane lunghe chilometri.
Noi giochiamo con loro, quando queste sterminate colonne lanciate al galoppo tentano di attraversare la pista acceleriamo costringendoli a correre al nostro fianco.
È uno spettacolo che non ha uguali, non riesco e non posso descriverlo.
Passa così tutta la giornata, percorrendo l’Africa più bella che si possa immaginare. La sera allestiamo il campo nel Serengeti, ci facciamo la doccia con le sacche appese alle macchine. Siamo nudi e bagnati in mezzo al mondo che ci circonda, ci prepariamo a cucinare qualcosa, a chiacchierare di ciò che abbiamo visto e ad immaginare quello che ci aspetterà domani.
Siamo liberi come non lo siamo mai stati.
Tornare, tornare, questo viaggio è un maledetto grande ritorno. Ma ora siamo qui e qui succedono cose strane: durante la notte tre o quattro iene fanno visita al campo nella speranza di fare razzia di cibo. L’unica cosa che trovano da portarsi via sono le ciabatte di Diego.
La mattina ripartiamo dopo una tazza di caffè bollente.
A metà mattinata assistiamo ad un banchetto osceno: sciacalli e iene, al nostro arrivo, sono intenti a spartirsi la carcasse di un enorme bufalo che ormai giace con le zampe rigide protese al cielo e la gola squarciata e divorata.
Mandrie di giraffe fanno da coronamento alla giornata, accompagnandoci sino ai confini occidentali della piana del Serengeti.
Costeggiamo il lago Vittoria per tutto il giorno e la sera troviamo da dormire in una specie di affittacamere cadente, sporco e scalcinato che si trova in un paese-villaggio tanto infimo da non avere avuto nemmeno l’onore di essere riportato sulle carte geografiche.
Il giorno dopo continuiamo a correre lungo le coste del lago, l’immenso lago Vittoria e la sera, al tramonto entriamo a Mwanza, splendida, cadente e dimenticata cittadina che si affaccia sulle dorate acque del lago.
Per cena scoviamo un ristorante che serve bistecche degne di un re. I tavoli sono ampi, in ferro battuto e posizionati su un prato che si affaccia sul lago. Le candele illuminano il cibo e l’acqua scura, tanto vicina da lambire i nostri piedi.
Dall’altra parte della baia appare, come in un sogno, la città, interamente illuminata da fiaccole, candele e torce. Un tuffo nel medioevo e due bicchieri di vino. Cosa potremmo chiedere di meglio?
Potenti scrosci di pioggia ci svegliano all’alba. Smontiamo il campo coperti dai nostri k-way ed in meno di mezz’ora siamo all’imbarcadero. La ressa di cose e persone è, come al solito impressionante.
Saliamo per primi ed in un’ora attraversiamo la stretta insenatura che ci divide dal nostro ultimo tratto di strada prima del Rwanda.
Mancano 350 chilometri par arrivare al confine quindi stimiamo di essere in Rwanda all’ora di pranzo. Scendiamo dal traghetto e trenta chilometri ci bastano per capire che in Rwanda forse, non ci arriveremo mai o per lo meno ci vorranno giorni e giorni.
La strada è simile al letto di un fiume. Solchi profondi un metro e mezzo zigzagano per tutta la sua lunghezza. Pozze di fango marcio, nero e fetido ci fanno impantanare sino ai parafanghi ed i Land Rover faticano più volte prima di risalire dove il fango è meno liquido. Incrociare altre auto è un’impresa quasi senza speranza. La strada è costellata di vetture ferme, mezze riverse nelle cunette o irreparabilmente affondate nel fango. Il peggio lo incontriamo quando attraversiamo i villaggi e le piccole cittadine. Qui la carreggiata è intasata da vetture immobilizzate dal fango, spesso dobbiamo fare delle svolte ed uscire di strada per superare i punti critici. Viaggiamo ad una media di dieci, quindici chilometri orari. Lungo una salita di fango superiamo un bus quasi completamente affondato, per evitarlo ci buttiamo in un canalone alto come le nostre macchine. Il fango si appiccica alle ruote e fa da ventosa, le macchine continuano a procedere producendo rumori osceni.
Guidiamo dall’alba al tramonto ed alla sera giungiamo in un paesino dove potremmo trovare da dormire. Abbiamo guidato sedici ore per percorrere duecentocinquanta chilometri. Da qui in poi, ci dicono, la strada migliora. Non so se crederci, la giornata appena trascorsa è di quelle che ti convincono che non ce la faremo mai ad arrivare alla missione.
Un affitta-camere sporco e scalcinato, ricco di gechi, scarafaggi e prostitute è l’unico alloggio che troviamo. Per cena mangiamo in una specie di pub con le inferriate alle finestre e tre avventori ubriachi sugli sgabelli. Ci servono una carne tanto filacciosa e dura che quando impari a mangiarla hai ormai le mandibole indebolite dalla fatica. Le patate di contorno invece sono buonissime.
La strada migliora per davvero e nel primo pomeriggio arriviamo al confine. Una specie di piccola baraccopoli assedia gli uffici di dogana. Noi, affamati, ci inoltriamo negli stretti e tortuosi vicoli di fango alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti.
Troviamo un mucchio di lamiere, bancali e cartoni che prendono il nome di ristorante. Ci sediamo. Le due donne e l’uomo che gestiscono il posto ci guardano sgomenti. Credo sia la prima volta che dei bianchi si siedono qui. L’uomo viene da noi ma parla solo Swahili. Così, a gesti gli facciamo capire che vorremmo mangiare e bere qualcosa. Una delle donne fila via in cerca di quattro coca cola, l’uomo va via e ritorna con un secchio di plastica bianca ormai consunto ed ingiallito dal grasso rappreso. In una brodaglia verdognola galleggiano pezzi di capra mezzo cotti. Dai nostri volti forse appare il disgusto ma noi cerchiamo comunque di mascherarlo con un sorriso di assenso.
Dieci minuti dopo abbiamo di fronte quattro Coca Cole e quattro piatti di quella zuppa. Diego si abbuffa, Cecilia e Federica spiluccano qualche pezzo dei meno grassi, io non tocco la carne e bevo il brodo come se prendessi un’infame medicina, trattenendo il fiato per non sentirne il forte odore. Per il pranzo paghiamo una cifra con la quale da noi ci compri sì e no una caramella.
Ridiscendiamo verso gli uffici di frontiera. Guardo duecento metri più in là, oltre il fiume, di là dal ponte di ferro. Il Rwanda. Lo stomaco mi si torce forse per la brodaglia di capra, forse per la paura.




Twa, Hutu e Tutsi.
Il bagno di sangue.


L’etnia originaria del Rwanda era quella dei Twa, un popolo nomade che viveva di caccia e raccolta.
Nel primo millennio dopo Cristo migrarono in questo territorio gli Hutu, popolazione coltivatrice di origine Bantu.
Nel tredicesimo secolo arrivarono i Tutsi, un popolo nilotico proveniente dall’area etiope che praticava prevalentemente la caccia.
Allora? Tutto chiaro? C’erano gli Kwa, poi arrivarono gli Hutu e per ultimi i Tutsi.
I Tutsi si imposero sin da subito in nome della presunta superiorità che distingueva la loro razza, ridussero in schiavitù gli Hutu ed emarginarono completamente i Twa, quindi assunsero il controllo del territorio; divisero l’attuale Rwanda in staterelli ed organizzarono una società a struttura piramidale al cui vertice era il re, chiamato “mwami”.
Il primo mwami di cui sia certificata l’esistenza fu Ruganza Bimba (quindicesimo secolo).
Il territorio rwandese si espanse, a fasi alterne, fino al 1860 quando vi giunse il primo europeo, il conte Von Goetzen.
Il Rwanda restò tedesco fino al 1918 quando passò nelle mani del Belgio.
Nel 1957 fu fondato il primo partito per l’emancipazione degli Hutu, il Parmehutu che si ribellò alla casta dominante. Kigeri V, ventunesimo e ultimo mwami fuggì e migliaia di Tutsi emigrarono in Burundi.
Nel 1962 fu abolita la monarchia ed il Rwanda divenne uno stato sovrano.
Nel dicembre del 1963 decine di migliaia di Tutsi rifugiati in Burundi rientrarono in Rwanda e compirono stragi di ogni tipo per riprendere il potere senza però riuscirvi.
Nel 1990 i Tutsi tentarono invano un nuovo golpe invadendo la parte settentrionale del paese.

1994, l’anno del genocidio.
Il 6 aprile del ’94 l’aereo presidenziale del presidente-dittatore Juvenal Habyarimana al potere dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria. Ancora oggi non si sa chi fece partire quel missile.
Il giorno 7 aprile alle prime ore dell’alba a Kigali e nelle zone controllate dalle forze governative, inizia il genocidio tramite l’eliminazione fisica della popolazione Tutsi e dell’opposizione democratica. A compiere il massacro sono la Guardia Presidenziale ed i giovani Hutu.
Il segnale di inizio dei massacri fu dato dalla radio estremista “RTLM” che invitava, per mezzo dello speaker Katano, a “Seviziare ed uccidere gli scarafaggi Tutsi”.
Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo. Vennero massacrate quasi due milioni di persone in maniera pianificata e capillare.
Uno dei momenti più terribili fu il massacro di Gikongoro: quasi 30.000 persone. In cinque giorni il terreno si intrise di sangue. In un solo giorno vennero massacrate ottomila persone. Circa 350 in un’ ora, ovvero 5 vite al minuto vennero troncate.
Quasi seguendo un macabro rituale non vennero mai utilizzate armi da fuoco o bombe. Uno dei massacri più grandi della storia dell’umanità avvenne per mezzo del più rudimentale degli strumenti, il machete e con l’ausilio di terribili bastoni chiodati.

I Tutsi possono essere spettacolarmente alti, fino ad oltre due metri. Gli Hutu sono di statura media. Differenze fisiche di questo tipo esistono però sia all’interno del gruppo Hutu che di quello Tutsi. Anche se alcuni Tutsi sono molto più alti ed hanno nasi più affilati degli Hutu, la maggioranza dei Tutsi non è distinguibile da un Hutu medio.
Vi è pochissima differenza tra la cultura Tutsi e quella Hutu ed i due gruppi parlano la stessa lingua. Queste significative somiglianze portano, molti a concludere che Tutsi è un’espressione di classe o di casta piuttosto che di etnia.

Noi entriamo in Rwanda attraversando la sperduta frontiera con la Tanzania.
La strada sterrata, scassata e fangosa arriva fino al ponte che divide le due nazioni. Da lì parte una ben tenuta strada asfaltata.
Se sei a conoscenza di quello che è accaduto in Rwanda, entrarvi dà una strana sensazione. Una sensazione di paura, di disagio. In realtà per noi il Rwanda si è dimostrato uno degli stati più tranquilli, sicuri ed ordinati in cui siamo passati.
Alla frontiera espletiamo le solite folli formalità, come quella di cambiare al mercato nero dollari antecedenti il ’99 con dollari più nuovi, ovviamente rimettendoci qualcosa. In molti paesi africani i dollari precedenti al ’99 non sono accettati perché prima di quella data sono state messe in circolazione troppe banconote false.
Alla frontiera i funzionari sono molto gentili e precisi. Mentre aspettiamo il solito timbro ci sediamo sulla scalinata di cemento che fronteggia l’edificio. Arriva un grosso Mercedes nero e ne scendono due uomini molto alti e molto eleganti (eleganti all’africana e cioè vestiti di mille colori). Dalla macchina scende anche una donna altissima, fiera e bellissima con il naso molto affilato e la pelle nera tendente all’olivastro. È elegante, nel modo di vestire ma soprattutto in quello di muoversi, di camminare e di parlare.
Si incammina fiera e superba, con il suo ombrellino colorato, verso la piccola folla che stà di fronte all’ufficio di dogana.
Sono sensazioni impercettibili ma le persone sembrano farle largo, qualcuno le cede un posto all’ombra e sembra che tutti tengano lo sguardo basso. Lei si siede su una panchetta e guarda lontano innanzi a se aspettando il suo turno che, se non ho inteso male, sarà prima del nostro e di quello di tutti gli altri che attendono sotto al sole.
Io non traggo nessuna conclusione da ciò che ho visto ma mi resterà impressa tutta la vita l’immagine di questa donna che sembra una principessa.
Percorriamo le strade del Rwanda diretti a Kigali dove cercheremo un posto per dormire. Le strade sono tortuose ma ben tenute e l’asfalto corre veloce sotto di noi. I bordi strada sono puliti ed è pieno di uomini che puliscono dai rovi e dalle erbacce armati di falcetto e machete. Quegli stessi machete che hanno compiuto il genocidio ora vengono usati in modo frenetico e forsennato per tenere pulito il paese. I lavoratori lavorano con una lena che non esiste nel resto dell’Africa e forse lo fanno nella speranza di poter cancellare un ricordo od una colpa che non avranno mai fine.
La strada che porta a Kigali è disseminata di lapidi. All’ingresso di ogni villaggio vi sono targhe o archi di fiori che commemorano il massacro del ’94 e rendono omaggio alle vittime.
Ma il sangue versato non si può più raccogliere, scende nella terra e la permea per secoli.
Giorni dopo Suor Angela, che gestisce la missione di Nka-Nka vicino al confine con il Congo, racconterà a Cecilia e Federica che quelle feste che si tengono in ogni villaggio di campagna una volta al mese, non sono propriamente feste commemorative ma piuttosto veri e propri processi popolari all’aperto che, molto, troppo spesso, terminano con condanne che vengono messe in pratica sul momento ed in modo violento.
Nei vari villaggi del Rwanda, ancora oggi, le persone vengono giudicate per i crimini commessi nel ’94 e spesso vengono poi giustiziate sul posto dal popolo stesso.
La terra continua a bere sangue ed il governo a chiudere un occhio, basta mantenere la pace nella nuova dittatura mascherata da repubblica. Basta che i machete continuino a tagliare erba ed arbusti ed anche se ogni tanto mozzano una testa, un braccio o una vita, non fa niente.
Teniamo le strade pulite.
Dopo quello che è successo diciassette anni fa quello che conta è l’apparenza di un paese florido e tranquillo. La solita Svizzera dell’Africa. Basta che il thè ed il caffè crescano rigogliosi, poi anche se assieme all’acqua viene loro dato da bere anche un po’ di sangue, beh non fa niente.
Ordine e disciplina per non impazzire.
Le persone che incontriamo sono molto gentili ed ospitali ma esiste un muro di silenzio per quanto riguarda il massacro del ’94. la gente, a mio parere giustamente, vuole dimenticare. Ci vorrà ancora una generazione perché si possa ricordare senza provare vergogna, dolore e paura. Chi vive certi avvenimenti non è come noi, chi vive certe cose ha un’altra opinione della vita, del genere umano e della natura di tutti noi.
Per avere notizie dirette su quello che accadde in quei 100 giorni di morte, dovremo arrivare in Congo dove tuttora risiedono decine di migliaia di rifugiati Rwandesi.
Come il nord-est della Tanzania, anche il Rwanda è tutto un sali-scendi di verdi colline, di pascoli e piantagioni di thè, caffè, banane e manioca.
La gente sorridente ci rincorre per salutarci e noi, quasi inconsapevoli guidiamo verso Kigali.
La notte scende e arriviamo in città. Una città caotica ma abbastanza gradevole ed ordinata, almeno per i canoni africani.
Passiamo la notte in un albergo bellissimo e quindi anche abbastanza caro. L’albergo si chiama Chez Lando, è in centro ed è circondato da uno splendido giardino. Lando, il fondatore della struttura è stato ucciso nel massacro del ’94 perché dava asilo e protezione ai Tutsi che cercavano di salvarsi la vita.
La mattina, presto come al solito, ripartiamo verso sud-est, verso la frontiera con il Congo, verso il cuore nero dell’Africa, verso quel posto dove tutto è successo e dove tutto continua a succedere, verso quel posto che non fa parte di questo mondo in cui noi tutti viviamo.
Ci inerpichiamo su alte montagne ricoperte di una lussureggiante vegetazione tropicale. Famiglie di scimmie bianche e nere saltano ai bordi della strada. All’interno di queste foreste impenetrabili e sterminate vivono ancora leopardi, elefanti di foresta e scimpanzè.
Questa zona che sembra uscire dritta dritta dalla preistoria è però in mano a gruppi di ribelli armati che la utilizzano come nascondiglio e che effettuano spesso attacchi ai mezzi di passaggio.
La polizia di Kigali ci ha detto di stare molto attenti e di non farsi fermare da nessuno, nemmeno dagli uomini dell’esercito governativo che picchettano le strade, troppo spesso i ribelli attaccano, macchine di passaggio e villaggi, travestiti da militari. O forse chissà, è proprio l’esercito che compie gli attacchi e poi incolpa i ribelli che forse non esistono nemmeno più.
Come in tutta l’Africa le forze al potere preferiscono tenere le popolazioni nella paura e nell’incertezza.
Quello che per noi conta è però che c’è il rischio di essere assaltati, che sia poi l’esercito, la polizia, i ribelli o i puffi poco importa.
“A chiappe strette”, come si suol dire, guidiamo attraverso scenari meravigliosi.
Di quando in quando, salendo lungo le strade tortuose che disegnano percorsi da capogiro, ci si aprono innanzi scenari maestosi e sterminati. Vallate, montagne e colline fino dove l’occhio può vedere. Una foresta infinita ricopre questa parte di continente, una foresta che, senza interruzioni di sorta, arriva fino all’Oceano Atlantico, distante migliaia di chilometri, scende fino alle verdi praterie dello Zambia e del Botswana e si arrampica a nord fino a coprire parte della Repubblica Centro Africana ed a fare da sponda all’immenso Sahara.
Sulla cima di un passo un cartello verniciato di fresco ci avverte che siamo sullo spartiacque continentale.
Le acque che cadono sul versante occidentale, dieci metri più in là si riversano nel fiume Congo ed attraverso la tenebra più oscura vanno a riversarsi nell’oceano Atlantico.
Le acque che cadono invece qui dove siamo noi, sul versante orientale, vanno verso nord, a formare il Nilo che, attraverso mille laghi e cascate e dopo aver superato la trappola delle paludi sudanesi di Sudd, va a bagnare prima Kartoum e poi la mitica terra dei faraoni.
Ripartiamo verso ovest ed un po’ scendiamo. Nel primo pomeriggio dall’alto scorgiamo le acque blu del lago Kivu. Per un po’ lo costeggiamo.
Ecco qua il paradiso o perlomeno un altro paradiso africano: clima mite e piacevole, acque limpide e piante tropicali. Alberi dai fiori di mille colori e odori. La regione del Kivu; potenzialmente il paese più ricco del mondo per risorse e qualità della vita, in realtà oggi un luogo infernale che proprio a causa della sua bellezza e delle sue risorse è teatro di spietate guerre sin dall’inizio della sua storia.
Diego è agitato perché dopo anni sta per ritornare a Bukavu e rivedere suor Franca.
Ma anche Cecilia, Federica ed io siamo tesi.
Finalmente stiamo per arrivare alla missione di Irambo-Kalee.
Sono tre anni che aspetto questo momento. L’anno scorso dopo venticinquemila chilometri di deliri attraverso tutta l’Africa dell’ovest non siamo riusciti a giungere fino a qui. Abbiamo dovuto rientrare in Italia, raccogliere altri soldi da portare alle nostre suore e preparare una nuova spedizione. Siamo ripartiti dal Sud Africa ed ora dopo altri diecimila chilometri siamo qui, siamo ad una delle frontiere più incredibili del mondo.
Il Lago Kivu finisce a sud con una stretta insenatura da cui parte un fiume. Qui passa un ponte, che le suore chiamano il “ponte dei sospiri”.
Esattamente in questo punto, in equilibrio tra inferno e paradiso si incontrano i tre stati più pericolosi e dalla storia più travagliata di tutto il continente e forse del mondo intero. Qui si incontrano Rwanda, Burundi e Congo.
E noi, minuscoli come formichine scendiamo fino al ponte, parcheggiamo le macchine ed andiamo a piedi alla frontiera.
Una piccola ringhiera, fragile ed arrugginita ci divide dal Congo.
Di là tre figure ci salutano: due sono vestite di bianco ed una ha una camicia coloratissima.
Diego corre loro incontro e le abbraccia. Un abbraccio diviso dal basso parapetto che divide i due stati ed in realtà tutto il continente Africano. Di qua l’Africa di Karen Blixen, l’Africa mitica, popolata dai Masai, dai giganteschi elefanti e dalle immense praterie. L’Africa colonizzata dagli inglesi e dagli arabi. L’Africa di questo viaggio.
Dall’altra parte l’Africa dell’ovest, caotica ed abbandonata a se stessa, l’Africa di Konrad, quella con il cuore nero che fa paura a tutti, quella che non si può attraversare, L’Africa dove la guerra non finisce mai. L’Africa di Down the Africa, la nostra spedizione del 2006 che invece l’ha attraversata e conosciuta un po’.
Per fare si che Diego e suor Franca si abbracciassero in questo punto abbiamo dovuto percorrere 35.000 chilometri di strade, deserti, paludi e foreste. Abbiamo dovuto fare tanta strada che avremmo potuto fare il giro del mondo. Ed ora eccoci qui, come se tutto fosse finito e tutto debba ancora cominciare.

Sdoganiamo le macchine ed i nostri documenti. Usciamo dal Rwanda e, con una suora per macchina, attraversiamo il “ponte dei sospiri” e ci dirigiamo verso la tenebra del Congo sotto un sole splendente percorrendo nuovamente strade di fango.




Poto Poto
Il diavolo si nasconde nel fango.



Se è vero che il diavolo è la prova dell’esistenza di Dio, allora il poto poto (fango) è la prova dell’esistenza dell’acqua.

Sono cresciuto in un paesino dove tranne la strada principale e poche altre sono sempre state sterrate, quindi con il fango ho una certa dimestichezza. Mi viene naturale scansare le pozze di acqua marrone, camminare sul duro tutte le volte che posso e pulirmi poi sull’erba. Ho però sempre notato che i vecchi dei miei posti erano migliori di me nell’arte di convivere con il fango. Loro ci sono cresciuti. I cortili delle case erano fango, le strade fango, i pollai fango e spesso fango erano anche le piazze ed i vicoli. Fango anche sui tetti per isolare e fango con aggiunta di cacche varie anche nelle stalle sotto casa.
Ma qui, signori, qui in Congo il poto poto è il sovrano incontrastato. Qui il fango è la maledizione dell’esistenza. I militari, la corruzione e la malattia sono il pane quotidiano ed il poto poto è il loro infernale condimento.
Qui il fango agisce da collante tra le disgrazie e, in parte, libera i bimbi dall’incubo di una pulizia forzata e sconosciuta all’animo dei più piccini.

Entriamo in Congo dalla frontiera di Cyangugu, vera e propria anticamera dell’inferno. L’asfalto del Rwanda finisce incontrando il ponte che divide le due dogane. Entri in Congo, da qualunque parte, ed entri nel fango.
Una strada scassata ed infangata sale leggermente verso una gola scavata nella collina. Pareti di terra rossa vomitano colate di fango che riempiono le malandate cunette. Accostiamo ad un gabbiotto della polizia fatto di mattoni e calce, rattoppato in qualche punto con manate di finto intonaco che è in realtà poto poto rinsecchito.
La solita marmaglia ci viene incontro: donne in divisa beige e uomini in divisa blu. Poliziotti in borghese vestiti di stoffe africane che hanno le mille tonalità del marrone come la pelle dei congolesi. Militari in divisa, in mezza divisa o con un quarto di divisa. Da un buco nel muro fa capolino un militare gigantesco in canottiera e pantaloni da guerra, si sta facendo la barba, si interrompe e viene verso di noi togliendosi la schiuma con uno straccio. Sembra sappia il fatto suo.
Invece no.
Si avvicina alle macchine, ci gira intorno con maestosità, è alto quasi due metri. Viene da me ed invece di chiedermi i documenti mi chiede una lametta da barba. Non ne ho, se ne va quasi sconsolato e mezzo metro più basso.
Scoppia il parapiglia infernale che contraddistingue buona parte delle frontiere africane ed in queste cose il Congo la fa da padrone, il Congo riesce sempre ad essere la caricatura grottesca di tutti i mali che affliggono il continente.
Suor Franca ci dice di lasciar fare e parlare lei e, con uno svolazzo di vesti “marrone candido” scompare dentro agli “uffici-baracca”.
Noi abbiamo il nostro bel da fare a tenere a bada i soliti sei corpi di polizia, legionari, militari, bucanieri, pirati, vigili e chi più ne ha più ne metta.
Solo l’Italia riesce a competere con il Congo per quanto riguarda il numero di corpi inventati di ordine pubblico e quantità di modelli di divise.
Si va in un ufficio e si paga una mancetta per avere i timbri sui passaporti, si va in un’altra stanzetta e si paga una mancetta per non avere i visti sui documenti delle macchine perché, ci dicono, “qui le vostre macchine non possono entrare, quindi meglio far finta di non averle viste”.
Far finta di non averle viste? Ma siamo matti? E quando poi ci fermeranno decine di volte all’interno del paese cosa gli diremo?
“Se proprio non potete farne a meno dite che è tutto a posto e che vi ha fatti entrare nello stato il Grand Chef di Cyangugu pas de probleme monsieur.”
Quest’ultima frase arriva come un lampo a ciel sereno. Siamo di nuovo qui, siamo rientrati nell’”Africa francese”, quella dove tutto è possibile, quella dove servono solo le mancette e la simpatia, quella dei rapporti umani, quella che ha una burocrazia talmente assurda che accetta soluzioni assurde, quella in cui noi italiani ci muoviamo come pesci nell’acqua, quella che manderebbe fuori di testa qualunque inglese o tedesco.
Un altro gruppo di pseudo-funzionari ci dicono che devono perquisire le macchine ed il loro contenuto. Apriamo i portelloni e, con l’aiuto di due donne che fanno le “poliziotte estemporanee” (professione molto comune in centro Africa), cominciano a svuotare le auto di borse, zaini e contenitori vari. Lo fanno in modo disordinato e con gesti plateali. Sforzi sovrumani deformano i visi delle donne che scaricano le nostre borse, gli uomini le incitano di sbrigarsi e le sgridano.
Non trovo un senso a ciò che fanno: borse che vengono aperte sul posto, altre che non vengono nemmeno considerate, altre ancora che vengono portate in un ufficio per un’ispezione più approfondita perché sono borse dall’aria sospetta. Ogni tanto si intrufola qualche passante che cerca di arraffare qualcosa.
Bisogna stare attenti a non farsi rubare niente. Diego va nell’ufficio con suor Franca e i passaporti, io resto dalle macchine a fare la guardia armato della mia manina grattaschiena che più di una volta cala sulle mani di chi le infila troppo a fondo nella macchina. Cecilia e Federica vanno nello stanzino dove si controllano i bagagli.
Il gioco è semplice, ci dividono e tentano di spaventarci e stressarci per avere un supplemento di mancette.
Suor Franca dice di pazientare e non cedere. Così è. Dopo mezz’ ora ci lasciano andare.
Ripartiamo e dopo dieci metri una sbarra ci ferma ed un elegantissimo poliziotto abbigliato di azzurro ci avvicina, parla un po’ con suor Franca la quale gli allunga due dollari e questo sorride e ci lascia andare.
“Perché a questo gli avete dato dei soldi?” domando.
“Ma, sai, suo figlio viene a scuola da noi, sono brava gente, è un anno e più che il governo non gli paga gli stipendi e di qualcosa devono pur vivere.”
Pochi metri ed entriamo a Bukawu.
Bukawu, quarta città del Congo, forse l’unica città africana priva di township perché non ha un centro pulito e ordinato.
In realtà Bukawu è un'unica enorme baraccopoli.
Un tempo giardino dello Zaire, oggi città in rovina, specchio delle atrocità compiute dai dittatori e dai presidenti-mostro che hanno governato in questi anni.
Le vie in molti punti sono così mal ridotte che il traffico, assurdo ed incessante, passa sui residui di quelli che un tempo furono marciapiedi.
Passiamo nella via principale e dopo poco siamo costretti a guidare a un centimetro dai palazzi cadenti che la costeggiano, lasciando vuote le due corsie vere e proprie.
Un traffico come quello di Bukavu in realtà non esiste. Non può esistere. Migliaia di auto scassate e fumanti, catorci e relitti abbandonati a bordo strada, a volte in centro strada a fare da spartitraffico. Le persone passano come un fiume tra i motori accesi ed i clacson sfiatati. Centinaia di motorini sfrecciano e svicolano tra le macchine.
Si nota che un tempo la città esisteva, si vede che qualcuno in un lontano e mitico passato aveva costruito strade, aiuole, piazze e marciapiedi. Oggi non esiste più niente. Il selciato dei marciapiedi è stato usato per riempire le voragini in mezzo alle strade, l’asfalto delle strade, a blocchi, lo hanno usato come mattoni per farcisi delle specie di baracche. I pali della luce sono tutti storti e contorti ed i cavi della luce e del telefono disegnano un intrico pari a quello di una pianta rampicante, ogni appiglio è buono, una pianta, un palo mezzo crollato, un ferro di una ringhiera che sporge dalla facciata di un palazzo o lo specchietto retrovisore di una carcassa di camion ormai completamente arrugginita. Qualche volta i cavi elettrici, non avendo appoggi, non fanno altro che starsene lì, a terra, come bisce morte, con i bambini che ci giocano a fianco.
Niongolo, l’autista-tuttofare della missione guida forte e male come qui fanno tutti ed in mezz’ora siamo davanti al cancello della missione.
Tre colpi di clacson ed il cancello si apre e noi entriamo.

Domani o dopodomani andremo alla missione di Irambo, per ora siamo ospitati qui.
L’edificio che ospita le suore è una villa risalente ai tempi d’oro, appartenente a qualche bianco, a qualche commerciante o a qualcuno del regime. Comunque è una casa in stile africano, molte porte e finestre ed un grandissimo salone.
Una rimessa ospita le due auto ed una piccola dependance è a disposizione degli ospiti. Qualche decina di metri più in là un’altra costruzione che assomiglia all’asilo in cui andavo da bambino, ospita le novizie.
L’accoglienza da parte delle suore è degna di persone importanti quali non siamo certamente.
Suor Franca, potente ed energica svolazza qua e là con passo di marcia. Meglio non trovarsi sulla sua strada, soprattutto quando guida il Toyota della missione.
Suor Michelina è piccolina e perennemente agitata, instancabile pure lei e pungente come uno spillo.
Suor Annamaria arriva dall’India ed il suo iter nelle suore Rossello è pari a quello di Rambo nel corpo dei berretti verdi americani.
Le suore Rossello sono un po’ come i paracadutisti per l’esercito, vanno per prime e nei posti peggiori.
Nei giorni successivi vengo a sapere che hanno missioni in Rwanda, Burundi, nel nord-est del Camerun, in Tchad, in Repubblica Centraficana e, ovviamente, in Congo. Per completare l’opera potrebbero andare direttamente all’inferno e avviare una missione lì per aiutare i dannati a sopportare meglio le loro pene.
Ma forse lo fanno già.
Le suore sono come i frati, hanno fatto voto di povertà, non hanno cose di loro proprietà e non percepiscono alcun tipo di stipendio. Tutto quello che riescono ad avere lo investono nella causa per la quale stanno vivendo, aiutare chi ha bisogno. Da quanto ho capito, persone come suor Franca, oltre a non percepire stipendio e non tenere nulla per sè, investono in queste situazioni, anche i soldi di famiglia.
Negli anni suor Franca, tra le altre cose, ha anche fatto in modo che Niongolo, ex bambino di strada, avesse una casa così da potersi sposare e avere dei bambini.
Suor Michelina, nelle veci del colonnello Troultman, è arrivata da poco e tra non molto partirà per il Camerun. Senza sosta si sposta da un posto all’altro portando forza e risorse nuove.
Noi qui ci sentiamo come bimbi. Tutti ci trattano con la massima cortesia ed in ogni gesto si legge la gratitudine che hanno tutti nei nostri confronti, forse non tanto per gli aiuti che abbiamo portato, quanto per il fatto di essere qui.
Il giorno dopo suor Annamaria ci porta alla missione di Chai uno dei quartieri più poveri di Bukawu, dove le suore gestiscono un ospedale.
La strada per Chai è quanto di più allucinante si possa immaginare.
Un fiume di macchine, persone, motorini e fango scorre in mille direzioni formando gorghi e labirinti nei quali muoversi in macchina è un’impresa assurda.
Mentre guidi non capisci come facciano le moto e le altre macchine a non scontrarti e come sia possibile che nessuno resti stritolato sotto le ruote dei Defender.
La gente a piedi striscia contro le fiancate delle macchine, scarta all’ultimo il camion che arriva dalla direzione opposta, si butta davanti alla tua macchina, poggia una mano sul cofano e, con una piroetta scivola di lato, scarta un motorino e, come se niente fosse si accuccia ad un banchetto e contratta un casco di banane.
Noi avanziamo lentamente in mezzo al delirio. Tutti, ma proprio tutti ci guardano incuriositi, molti, moltissimi ci sorridono, qualcuno ci saluta, altri ci lanciano dietro insulti e sibilano parole sprezzanti nei nostri confronti.
Le ruote delle macchine arrancano in salita e slittano e scivolano nel fango a pochissimi centimetri dai piedi delle mamme che accompagnano piccolissimi bambini che sfiorano le nostre portiere abbassando la testa per non essere colpiti dagli specchietti retrovisori.
Qui la città è fatta di fango. Siamo sul lato di una delle decine di alte colline che formano Bukavu.
Baracche e capanne anch’esse fatte di fango sorgono ovunque, senza nessun ordine, a poche decine di centimetri l’una dall’altra, a volte attaccate, schiacciate l’una contro l’altra.
Mucchi di baracche compressi l’uno all’altro a causa degli smottamenti continui del terreno. Un coacervo di lamiere, bancali e fango, tavole marce e pentole nere che bruciano su fuochi umidi. E panni stesi ad un centimetro dal fango che, immobile, ogni giorno scorre.
Canali di scolo dalle pendenze vertiginose corrono serpeggiando tra le baracche seguendo percorsi da pista di bob. In mezzo i bambini giocano a creare dighe ed a farle distruggere dalla furia dei liquami.
Una città, zone e quartieri in continuo mutamento, ogni giorno, dopo ogni acquazzone pomeridiano, la città cambia forma, struttura, forse odore e di sicuro umore.
Le cunette del giorno prima diventano altre, diventano le cunette di adesso, che non sono le stesse di quelle di domani.
Ogni giorno nuovi puntelli sorreggono pareti che hanno raggiunto l’inclinazione critica. Il giorno dopo questi puntelli diventano stendibiancheria e, con il tempo, la settimana dopo, vengono tamponati con spazzatura e lamiere e si trasformano in nuove abitazioni oblique che forse, un giorno, se non verranno distrutte da una frana, avranno la fortuna di essere raddrizzate.
“Ogni tanto”, ci dice suor Annamaria, “la collina si scrolla di dosso un po’ di peso ed una parte di queste abitazioni scivola a valle trasportata dalle colate di fango, trascinando con sè cose e persone. Quando succede è un disastro, morti feriti e spesso dispersi, sepolti sotto al fango. Si dice che certi quartieri siano in movimento da anni, che scivolino, senza troppi danni e lentamente verso il basso. Lasciando nuovamente spazio libero a monte. Il problema è che qui ci sarebbe la foresta ma questi arrivano, disboscano, costruiscono le loro baracche e poi scivolano a valle e magari muoiono. Non c’è modo di far capire loro che se lasciassero un po’ di piante il terreno non franerebbe. Sembra che ogni centimetro quadrato sia prezioso”.
Chiedo ad Annamaria quanti abitanti fa Bukavu.
“Esattamente non si sa. Si parla di quattro cinque milioni, altri dicono solo uno. Probabilmente il vero stà nel mezzo come al solito. E poi ogni giorno muore tanta gente e tanta ne arriva e tantissimi bambini nascono….”
Smetto di ascoltare Annamaria e, guidando come un automa guardo scorrere le baracche accanto a me.
Ho di fronte un’immagine di Bukavu che mi ghiaccia il sangue nelle vene.
E’ un mare di fango, di baracche costruite su pendii scivolosi, di case fatte di fango, costruite sul fango e che fango torneranno.
Dal finestrino la scena che scorre al rallentatore è quella di migliaia di facce, di occhi, di espressioni strane, lontane dalle nostre. Gente con i piedi appoggiati nel fango e baracche che scivolano su ripidi pendii. C’è un suono nell’aria, è il suono di milioni di voci e di migliaia di rachitici motori diesel che impestano le strade.
E su, in Europa, la gente guarda la televisione e non capisce un cazzo.

Qui le suore, candide come la neve, combattono un demonio assatanato, dalla coda di serpente e gli occhi gialli del gatto, che, nero come la notte e sfuggente come un’ombra schifosa e viscida, scivola tra i vialetti, nelle intercapedini in pendenza tra queste baracche fatte dai dannati per i dannati e, strisciando con lingua biforcuta porta il male nell’anima della gente, la cattiveria nelle teste delle donne, la violenza nel cuore degli uomini e la paura della notte negli occhi dei bambini.
Le suore, bianche, forti e veloci, tra un frusciare di vesti che sanno di Gesù e Maria insieme, lo inseguono nel labirinto di fango. Lo inseguono e lo stancano. Gli danno la caccia e lo stanano come una belva viene stanata dal cacciatore.
Il diavolo si annida e si insinua come una malattia, come un topo, come un veleno nelle vene della città.
Le suore si immergono nella tana ed ogni giorno ne arrestano l’operato, in una lotta senza fine, senza vinti ne vincitori, in un’eterna lotta che serve da esempio e monda l’anima dei puri e sgomenta chi ha paura del bene e non riesce nemmeno a comprenderne la forza.
Ogni notte, ogni giorno le nostre suore scendono nel labirinto e lottano con il diavolo che vi si annida, lottano perché lui è il male che da sempre esiste.

Arriviamo alla missione di Chai e suor Annamaria tira fuori pane e nutella, fa un caffè e mangiamo come facoceri. Per oggi il diavolo è stato tenuto fuori da queste mura con la dolcezza del cioccolato, ma domani ci vorrà di nuovo la forza dello spirito.

Non sta certo a me comprendere l’importanza di ciò che stanno facendo qui le suore, e forse non sta nemmeno a me raccontarlo.
La loro non è una lotta contro la fame, la povertà o la malattia; la loro è una lotta senza esclusione di colpi contro il male supremo, contro tutto ciò che è al di là di quello che io e voi che leggete, siamo in grado di comprendere.

Qui il crocifisso è un’immagine tanto potente ogni giorno ed in ogni momento che nella nostra bella e placida Europa non possiamo immaginare se non nei momenti troppo vicini alla morte ed alla disperazione da non poter essere descritti e raccontati.
Quaggiù ho capito che Dio non è mai quello che immaginiamo o che abbiamo la pretesa di non immaginare.
Dio risplende nel “sollievo dalle umane miserie” e, in questo modo, opera ogni giorno con mani forti e consunte ed ogni giorno aspira alla conoscenza ed alla coscienza di quello che siamo e di quello che facciamo.

La sera torniamo alla missione di Nguba e attorno ad una tavola imbandita di sombe, bisciogolo, ugali, pasta e formaggio, preghiamo, cantiamo e poi ci stappiamo cinque o sei birre, alla faccia di satana e del poto poto.




La sorgente della vita.



Ci sono quei posti che respirano e fanno respirare un’aria particolare, più pura. Un’aria che scende verso i polmoni ma prima di arrivarvi si disperde, prende altre vie ed arriva ad ossigenare quella parte di noi che è sconosciuta ad ogni scienza e fantascienza, quella parte di noi che conosce ed è conosciuta solo dalla poesia, quella parte che non ha alito né orecchio.
Così restiamo senza fiato, incantati a guardare senza capire, incantati a sentire senza udire alcun suono.
Questi posti che incantano l’anima senza che i sensi ne siano minimamente interessati, sono pochi, pochissimi e spesso mutevoli e differenti. Mutano con il tempo e con l’età delle persone, si differenziano a seconda di chi ci arriva e di chi se ne va. Sono posti che se proprio volete che ve lo dica, non esistono. Sono luoghi inventati. Sono luoghi che come li scopri ti sfuggono e ci puoi restare solo qualche minuto, nei casi più fortunati qualche giorno, ma niente di più perché la familiarità con essi è anche la loro fine.

La missione di Irambo è uno di questi posti.
La vegetazione è verde come quella di un fumetto, le foglie dei banani così grosse che possono riparare dalla pioggia un’intera comunità di fate e folletti. Le acque del lago Kiwu sono limpide come cristalli di neve ed il fango delle strade rosso rosso, come le mele delle fiabe.
Il cielo blu, sempre blu, si arrotola come in una spirale invisibile e, attorcigliandosi su se stesso si trasforma in una voliera di stelle adatta a contenere ogni genere di creatura in grado di volare.
Farfalle grosse come uccelli e uccelli grossi come mosche virano e cabrano sfiorando fiori che nemmeno Hoffmann ha mai avuto il coraggio di immaginare. Pistilli gialli come il sole esplodono come una fontana racchiusa tra le lenzuola rosso fuoco dei petali iridescenti.
Possenti e carnosi steli sorreggono strutture blu e viola, leggere come un soffio di ovatta e colorate come arcobaleni solo immaginati.
Insetti ubriachi di polline si spostano appesantiti da un deliquio all’altro, grossi come uova di gallina e veloci come vecchie mosche.
Ma Irambo è anche terra di morte e disperazione per l’uomo che, più mestamente delle altre creature, si aggira per questa regione camminando su piedi scalzi o guidando spossati motori diesel.
Una macchina al secolo dà l’idea di quanti mezzi passino da queste parti. Una morte al minuto dà la certezza di trovarsi sempre in bilico tra inferno e paradiso.
Un paradiso dove l’uomo tecnologico è incapace a restare per più di un minuto ed un inferno dal quale l’uomo primitivo non riesce a scappare.

Noi raggiungiamo Irambo arrivando da sud, da Bukawu, girone infernale più grande e conosciuto.
Il nostro Caronte è Niongolo, la nostra barca una Toyota e la nostra Beatrice è Suor Franca.
Noi siamo quattro, seduti sui casseri-parafanghi del Toyota e guardiamo lo scorrere della strada come costernati dal non poter toccare tutto quello che vediamo.
A metà strada tra Bukavu e Irambo c’è una cava di pietre dove uomini, donne e bambini lavorano.
Gli uomini vivono il sogno di non essere più neri perché la polvere delle pietre spaccate li ricopre rendendoli più simili ai bianchi, meno simili ai loro simili, meno uomini e più cadaveri.
Le donne spostano macigni grossi come grosse angurie e li depositano vicino a bimbi e vecchi che, con consunti martelli e scalpelli spuntati, li trasformano prima in sassi, poi in sassetti, poi in pietre, quindi in pietrine ed ancora in pietruzze ed infine ghiaia. Una catena umana che fa la ghiaia a mano, come se ogni grano di pietra fosse un gioiello, un diamante o uno smeraldo. Bianchi, stanchi, pallidi e sudati, a fine giornata hanno creato una carriola di ghiaia ed il loro compenso è un secchio di quella stessa materia che li piega in due e li uccide, prima nella mente e poi nel corpo.
La strada prosegue e dopo chilometri incontri i boscaioli che, armati di seghe lunghe tre metri tagliano enormi tronchi, li issano su giganteschi cavalletti ed a mano, pazientemente e con infinita fatica, li riducono in tavole perfette che verranno vendute a peso.
Proseguendo si incontra il posto di guardia che da poco le milizie di Kabila sono riuscite ad espugnare, a liberare dalle mani dei ribelli che lo usavano per fare il tiro a segno con chi passava per la strada.
Ancora dopo incontri la mille volte nominata base MONUC, missione ONU (pachistana) di stanza in Congo. Carri armati bianchi, motoscafi bianchi e fuoristrada bianchi se ne stanno rinchiusi tra muri bianchi che disegnano una fortezza, sorvegliati dai caschi blu.
Qui l’ONU si dà un gran da fare a costruire moschee e poco altro, pare, almeno stando a quello che qui tutti dicono. L’ONU non fa niente, lo dicono i ricchi, i poveri, i religiosi, i malati ed i sani, le donne e i vecchi, i militari e i dottori. Solo i mussulmani mi fanno sapere che la MONUC stà facendo un ottimo lavoro.
Bene, forse per partito preso, crederò a chi mi darà di più, a chi mi farà star meglio, a chi mi darà la spiegazione che più servirà ai miei discorsi.

La strada che da Bukawu va a Irambo non voglio nemmeno descriverla, sarete tutti ormai stanchi di sentirmi ripetere le solite cose sulle strade africane, così questa non la descriverò perché è peggio delle altre.
Sessanta chilometri si percorrono in circa dieci ore, senza fermarsi mai. La media è altissima, se sei a piedi, zoppo e scalzo. Ma se sei su un Toyota 4x4….

Per la prima volta vedo gli edifici che sono stati costruiti con i dodicimila dollari portati fino ad ora ad Irambo: un magazzino per la distribuzione dei generi di prima necessità ed un refettorio nutrizionale composto da cucina, servizi ed un’aula in cui le mamme prendono lezioni su come sfamare i figli, su come differenziare il più possibile la dieta dei piccini per dargli una possibilità in più per vivere.
Restiamo a Irambo qualche giorno, ospiti di suor Marie Jeanne che da poco dirige la missione. Le suore Rossello, qui come a Nguba mettono a nostra disposizione tutto quello che di meglio hanno. Beviamo coca cola, aranciata e birra calde, mangiamo carne e formaggio. Solo giorni dopo scopriremo che abbiamo esaurito le loro scorte mensili di questi prodotti e, posso giurarlo, non abbiamo esagerato per niente, qualche bibita e qualche pezzo di formaggio. Il punto è che qui anche le suore hanno poco, pochissimo: manioca, vegetali da bollire, pane e poco altro e se hanno qualcosa in più fanno in modo che tutta la comunità ne goda.
Suor Franca non si sbottona molto ma quando lo fa racconta situazioni che lasciano con l’amaro in bocca.
“Due anni fa i ribelli hanno attaccato la missione, ucciso, stuprato e rubato. Io sono riuscita a mettermi in fuga per miracolo, grazie ad uno dei ragazzi che facevano da sentinella giù al villaggio e che è corso ad avvertirmi. La priorità assoluta è stata quella di prendere con me tutte le novizie e metterle in salvo. Le novizie sono una tentazione troppo forte per ribelli e militari che scendono dai monti dopo mesi di astinenza. Siamo scappate tra le piantagioni di banane, siamo scappate per chilometri e chilometri e siamo rimaste lì, all’aperto, protette solo dalle grosse foglie, per 24 giorni. Le persone dei villaggi della foresta venivano a turno a nutrirci ed a portarci l’acqua, mantenendo il segreto del nostro nascondiglio e sfidando la morte per proteggerci. Dopo anni di duro lavoro in questi posti ho capito che ho fatto bene, che non ho lottato per niente, che la gente mi considera una di loro ed una di loro resterò ancora per molto tempo.”
Quando senti questi racconti rimani scioccato, scioccato dalla forza di una persona che vive per gli altri e con gli altri.
Suor Franca ci racconta ancora di come sia difficile andare a fare la spesa: “Vedo una bella bistecca, sono mesi che non mangio carne, la prendo e poi penso quanta manioca o sombe posso comprare se rinuncio alla bistecca, quante bocche posso sfamare e così, poso la bistecca e carico il Toyota di sale, manioca e sombe. Ogni volta, ogni piccolo gesto come questo si trasforma in un problema di carattere morale. Non è mica facile.”
Così qui le suore lavorano duro, soffrono, si fanno i loro cicli di febbri malariche e resistono, resistono a tutto pur di andare avanti nel loro operato.
In questi posti ci si rende conto che le velleità da missionari che molti di noi in Europa abbiamo sono solo una finzione, una voglia di avventura camuffata da bontà d’animo, una scappatoia immaginaria alla noia di ciò che facciamo ma soprattutto alla noia di noi stessi. Infatti poi, vieni qui e scopri che i missionari veri, quelli che qui vengono e operano, sono pochi, pochissimi. A Bukawu nella missione delle Rossello ci sono due suore bianche, in quella di Irambo ora nemmeno una. Nella missione in Rwanda c’è solo suor Angela ed in Camerun hanno bisogno della presenza di Michelina. E noi che ci immaginiamo missioni affollate da migliaia di suore indaffarate a sfamare gli affamati ed a curare i malati. Qui le poche sorelle che ci sono salvano vite tutte le volte che possono e anime tutti i giorni, le loro preghiere accompagnano i malati anche dopo la morte, lontano, per mesi e mesi.
Devo smettere di parlare di queste sorelle che ho conosciuto, devo smettere perché le mie parole non sanno comunque rendere giustizia a ciò che fanno, a ciò che sono. Posso solo dire che qui chiamare sorella una suora non è un modo di dire preconfezionato, la parola sorella, quando la pronunci si riappropria del suo significato più vero e profondo. Quando penso a loro se non fossi un duro quale sono piangerei lacrimoni caldi, invece sorrido e penso ad altro, tipo ad accendermi una sigaretta.
Il refettorio di Irambo di domenica si trasforma in un lazzareto, in un lager, in una misera fossa comune fatta di carne e fango.
Mi spiace usare questi termini per descrivere uno dei posti in cui il bene viene praticato nella sua forma più pura e più scevra da interessi personali.
Centinaia di persone arrivano, trascinandosi dietro o in spalla bambini malati, che a volte non riescono a camminare, malnutriti, denutriti, malati e letteralmente coperti di stracci. Per arrivare qui ed avere a disposizione un rubinetto a cui lavare i piccoli corpicini gonfi, per avere una tazza di manioca, alcune donne camminano per quindici venti chilometri.
Donne scure dagli abiti coloratissimi e dagli occhi rassegnati lavano e sfamano figli non loro, figli della guerra, della malattia e dell’intolleranza.
La gente arriva e si siede paziente nel fango erboso del prato che fronteggia il refettorio. Pazientano in attesa delle razioni settimanali: mezzo chilo di sale, dieci chili di farina di mais e venticinque di farina di manioca. Se è una domenica fortunata viene distribuito anche un po’ d’olio.
Intanto le donne più volenterose di Irambo cucinano manioca e la distribuiscono ai più piccoli. Un uomo in camicia multicolore prende le impronte digitali e segna nome e cognome di tutti quelli che beneficiano della “spartizione dei pani”. Qui quasi nessuno sa scrivere, così prendere le impronte digitali è ormai un rito consolidato.
Noi ci aggiriamo per questo posto dove Dio aleggia come un’ombra sotto al sole, camminiamo con i piedi fasciati in scarpe da ginnastica che sono ormai un blocco di fango. Camminiamo tra queste persone scattando fotografie e facendo domande. Nessuno ci guarda storto, credo che tutti siano stati in qualche modo informati di quello che siamo venuti a fare qui. Gli sguardi sono tutti pieni di timida gratitudine, le donne più coraggiose si avvicinano e ci ringraziano infinite volte, tanto da mettermi a disagio, in fondo non abbiamo fatto poi molto, potremmo fare di più, molto di più….
Una vecchia signora mi avvicina e si mette in posa con il suo bimbo, mi chiede di far loro una foto e di mostrarla alle “signore” in Europa “perché capiscano” mi dice.
A me tremano le mani, il bimbo di fronte a me avrà sei sette anni ed un tumore in faccia che gli ricopre parte del naso, mezza guancia ed arriva allo zigomo. È un male profondo ed il bimbo ha la bocca che trema, batte i denti sotto questo cocente sole che brilla lassù in alto lontano dalle umane miserie. Per tutto il pomeriggio questo piccolo condannato non mi leva di dosso i suoi occhi calmi ed impauriti, curiosi e stanchi. Ogni volta che mi giro lui è lì che mi osserva, mai un sorriso gli illumina il volto e mai qualcosa lo distrae dall’osservarmi dritto nelle palle degli occhi.
Mi scopro debole, impacciato ed immaturo. Incapace di affrontare il male altrui, incapace di soffermarmi a comunicare anche solo con uno sguardo. Scatto al bimbo un’altra foto e lui accenna un sorriso, subito cancellato dal dolore e dalla paura.
Che Dio ci aiuti, ci sollevi dalle pene e dalle responsabilità.
Sono lontano mille miglia da me stesso e dal mondo che mi circonda. Non sono adatto, non ci riesco, ho paura di tutte queste cose, ma per oggi non scapperò.
Ad Irambo non c’è corrente elettrica e non c’è acqua potabile, almeno potabile per degli europei che qui sono fragili ed indifesi come creature appena nate, esposti a tutti i mali del mondo.
La sera si va a dormire con il buio, nelle tenebre si suda, ci si agita si sta soli con sé stessi e si riposa.
Ci si sveglia alle prime luci dell’alba, si va a messa, dove mille persone partecipano al rito e centinaia cantano e decine ballano. Il poto poto è ovunque, per le strade e sui sentieri, nei cortili e nelle cunette, rinsecchito al sole tra crepe e ragnatele rivive, in rivoli e ruggì, sotto l’acqua battente dei temporali e stenta a ritirarsi se lavato via dalle abitazioni. Il poto poto fa da gel sulle teste rasate e ricciute dei piccoli neretti che affollano la missione, si trasforma in calzino attorno ai piedi nudi delle persone che passano lungo le sue strade. Imprigiona le mie scarpe e le fa diventare pesanti dieci chili. Qui poto poto vince la partita contro asfalto e cemento per mille punti a uno.

Un pomeriggio, presto, ci incamminiamo con suor Regina per fare una passeggiata, camminiamo verso nord costeggiando il lago, attraversiamo numerosi villaggi ed ogni volta sempre più bambini si accodano stando a distanza di sicurezza. Ci seguono, per chilometri, ci scrutano timidamente, ci studiano. Il guardarli scatena immediatamente risate e baruffe.
Camminiamo tutto il pomeriggio e mentre stiamo tornando Diego fotografa un camion arancione colmo di militari.
Scoppia il finimondo. Alcuni militari saltano giù e cercano di appropriarsi della macchina fotografica. Suor ….. si mette in mezzo, i militari e due poliziotti si scaldano e puntano la suora, Diego si mette di mezzo e risponde per le rime, altri militari chiedono la telecamera a Federica e fanno per saltare giù dal camion e andarsela a prendere. Mi sposto tra Federica e i militari e loro, vermi, tornano al loro posto.
Le donne, come in un lontano passato si stringono attorno agli uomini e gli uomini a parole o a sguardi lottano e soppesano la situazione. Le cose si sistemano tra uomini per il semplice fatto che a scatenare questi casini sono proprio gli uomini.
Paura e trambusto, poi due poliziotti in borghese, in Jeans e stivali in finto coccodrillo, lucidi come serpenti, vengono a placare gli animi.
Quattro parole fra suor Marie Jeanne e i poliziotti e tutti tornano nel cassone ed il camion riparte.
Noi torniamo alla missione scortati dai due sbirri in borghese. Qui le discussioni continuano per un’ ora di fronte a suor Marie Jeanne. Spiegazioni e controspiegazioni non servono a un bel niente, noi dobbiamo andare al commissariato a Bukavu ed essere denunciati, potremmo essere spie o roba del genere.
Suor Marie Jeanne appiana tutto: due birre e tre dollari. Tutto è risolto, i poliziotti salutano e si allontanano camminando nel fango con i loro stivaletti lucidi, contenti come bambini, ma molto più pericolosi.
Due giorni dopo le suore ci portano in visita alla parrocchia di Kalèe, trenta chilometri più a nord. Andiamo a trovare padre Bemba.
Arriviamo nel cortile della chiesa. Il posto è occupato da un campo militare dove uomini in mutande e canottiera vanno a spasso armati aspettando che la guerra ricominci per potersi rimettere le uniformi. Il padre arriva e ci dà il benvenuto, ci dice che la chiesa e la sacrestia sono state occupate dalla guarnigione May May del colonnello Yabushebua Aaron da ormai un anno e che quindi lui è costretto a stare nella piccola casa di fronte. Ci invita in casa a bere un “Droghino” (birra di banana ad alta gradazione alcolica) ma prima, ci dice, “Dobbiamo andare a porgere i nostri omaggi al colonnello.” Dobbiamo salutarlo, rendergli nota la nostra presenza ed il motivo della stessa, già che ci siamo bisogna domandare il permesso di attraversare la sua zona. Nei prossimi giorni io e Diego dovremo passare di qui con le nostre macchine per raggiungere prima Goma e poi la frontiera con l’Uganda.
Ci incamminiamo lungo un viale alberato presidiato da militari armati fino ai denti che presiedono mortai e mitragliatrici coperte da reti militari di stoffa. I soldati guardano Cecilia e Federica con occhi che non mi piacciono per niente. Al nostro passaggio qualcuno si fa in mezzo alla strada ma poi ci lascia passare, qualcuno serra i ranghi dietro di noi come per chiuderci un’eventuale ed assurda fuga.
Tutto sommato però la presenza del prete e delle suore mi tranquillizza un po’.
Entriamo sotto ad un porticato in ombra dove altri soldati sono intenti a pulire i fucili ed i mitragliatori. Tutti smettono di pulire e ci guardano.
Entriamo in una stanza dalle pareti scalcinate e scrostate e qui aspettiamo qualche minuto prima di essere ricevuti.
Entriamo alla presenza del Colonnello Yabushebua Aaron.
Lui è un uomo altissimo, educato ed elegante, dai lineamenti finissimi e dai modi cortesi. È chiaramente un Tutsi finito qui dal Rwanda. Spesso i Tutsi arrivati dal Rwanda, poi si trovano ad occupare posizioni di un certo rilievo.
Aaron elegante e a modo, ma placido come lo sa essere solo un serpente, stona vistosamente con l’ambiente che ci stà attorno e con i suoi luogotenenti. Il colonnello è vestito di un elegante abito viola lindo e pulito come fosse nuovo. I suoi sottoposti sono sbragati e sudati. Il colonnello ha di fronte una bottiglia di acqua e la sorseggia da un bicchiere immacolato. Gli altri sono mezzi ubriachi, bevono birra calda e di pessima marca.
Noi ci sediamo in riga come scolaretti con le mani sulle gambe.
Facciamo i saluti del caso, spieghiamo i motivi del nostro viaggio e chiediamo il permesso di passare di lì tra qualche giorno con le nostre macchine. Yabushebua ci fa capire che sarebbe molto contento di avere due Land Rover nuovi per rafforzare la sua guarnigione. Poi, facendoci intendere che scherzava ci congeda con freddezza.
Usciamo al sole e ci incamminiamo verso la casa del prete. Ragazzi che sollievo uscire di lì e portarsi fuori Federica e Cecilia tutte intere. Altro che colonnello Kurtz, questo che abbiamo appena conosciuto è un demonio della peggior specie, affascinante certo, ma pericoloso come un serpente a sonagli.
Il prete ci fa passare dal suo salotto e ci offre bibite, pretende di parlare con noi di politica africana e ci dice che appena potrà se ne andrà da quella fogna di posto, che forse, grazie al Colonnello andrà a fare il prete nell’esercito, all’accademia militare del Congo.
Qualche sorrisino pizzicato a me e Diego mentre le suore sono girate e qualche strana occhiata a Cecilia e Federica. Noi, immagino più tonti del normale non cogliamo e cambiamo discorso.
Come d’usanza, la prima volta che un ospite entra in casa tua ha diritto ad un dono.
Ripartiamo in Toyota con un nuovo ospite. Il prete ci ha regalato una bella capretta maschio che, ci ha detto, dovremmo sgozzare in serata e farci una succulenta mangiata. Questa è la tradizione.
Per prima cosa io do un nome alla capra e la battezzo con il nome di Yabushebua Aaron per intero e pronunciato all’africana. Poi prendiamo accordi con le suore che la capra diventi la mascotte di Irambo e che vada a vivere con le altre capre che lì sono allevate. Magari il suo destino sarà quello di diventare colonnello della comunità di capre ed un giorno liberare la regione dal giogo dei militari.
Passiamo ad Irambo ancora qualche giorno, la gente del villaggio ci sommerge di richieste per la prossima volta che torneremo: divise per giocare a calcio, reti e palloni da pallavolo, una chitarra e soprattutto la possibilità di iniziare una corrispondenza con qualche “villaggio” in Italia. Noi diciamo dei sì smorzati dalla consapevolezza che non potremo fare nessuna di queste cose.
Signore salvali e liberaci da ogni male.
Il giorno in cui ripartiamo per Bukavu è un giorno triste, un giorno di lacrime e di forzati sorrisi. Allontanarsi da Irambo, quando è il momento, è una cosa che ti stringe il cuore.
Irambo ci lascia soli e noi ripartiamo.
La notte precedente ha piovuto incessantemente per ore ed ore così poto poto adesso è al massimo della forma.
La strada è quasi impraticabile, le quattro ruote motrici slittano continuamente, il contachilometri segna trenta all’ora ma noi ci muoviamo a non più di dieci.
Diego guida a fatica esasperato dalla poca tenuta che le balestre impongono ai lisci pneumatici.
I soliti ingorghi dovuti alle innumerevoli auto in panne, caratterizzano il passaggio nei villaggi.
Ad un tratto un enorme tir, carico di migliaia di sacchi di manioca, ingombra la strada di traverso, impantanato ed immobile. Il fango è troppo viscido, poco profondo ma troppo viscido.
Qui assistiamo ad uno dei miracoli africani, miracoli di perseveranza e ostinazione.
Una ventina di volontari stanno scaricando le migliaia di sacchi che si trovano sul camion, li stanno depositando sull’erba umida. Tra molte ore il camion vuoto sarà forse nuovamente in grado di muoversi, farà qualche centinaio di metri, qualche chilometro e si fermerà su un terreno meno viscido. Le migliaia di sacchi verranno trasportati in spalla e ricaricati sul camion. Il tutto richiederà decine di ore, forse due giorni ma poi il bestione riprenderà il suo affannoso cammino e, magari, prima di giungere alla meta, si impantanerà un’altra volta, forse due, tre, quattro volte, ma alla fine arriverà.
La sera siamo di nuovo alla missione di Bukawu, seduti alla tavola rotonda, imbandita di manioca, sombe e pollo come per celebrare una grande festa, il nostro ritorno.
Grazie sorelle, grazie di cuore per quello che fate per tutti noi, grazie del cibo e dell’ospitalità, dell’affetto che ci avete dato e se devo dirlo grazie anche della birra … il vero, lucente, oro africano.

Le preghiere in francese si mischiano con i canti delle sorelle africane e la birra si mischia con la mia stanchezza. Dormo già mezz’ora prima di andare a letto.





MONUC biscuit!
Bisquit MONUC!





”Solo dopo aver ammirato la bellezza delle persone che qui si incontrano, delle donne, dei bambini, degli uomini; la bellezza del paese e della luce. Allora e solo allora, con grande rispetto, abbiamo il diritto di chinarci sulla loro miseria.” Pierre Ceyrac. “Tutto ciò che non è dato è perso”.

Poto poto è un bastardo di razza speciale. Oggi non piove, oggi uno splendido sole illumina la foresta e le acque del lago Kivu.
Il giorno prima migliaia di piedi hanno lasciato le loro impronte nel fango. Oggi le impronte si sono solidificate e la strada si è trasformata in una vera e propria grattugia.
Muoversi è un incubo, le vibrazioni continue e potenti danneggiano le macchine. Tutto ciò che non è ancorato con cinghie e corde rimbalza e cade, ogni cosa che appoggio nella macchina, dopo un minuto non la trovo più. Dobbiamo fermarci a più riprese a fissare le tende e le gomme di scorta.
Il porta-ruota che ho rivettato sul tetto si stacca producendo un rumore infernale. Le macchine sembrano dei pacchi regalo, tutte infiocchettate da cinghie e cinghiette.
Siamo spaventati, Diego è tesissimo, stiamo per affrontare la parte più incerta e pericolosa di tutto questo assurdo continente.
La mattina abbiamo salutato Federica e Cecilia che si sono fermate alla missione di Bukavu con suor Franca e suor Michelina. Troppo rischioso portarle con noi, sono state proprio le suore le prime a dirci che sarebbe stato meglio ripartire da soli.
Io non sono più abituato a viaggiare solo, Cecilia ed io ci stavamo facendo compagnia ormai da oltre diecimila chilometri. Ci salutiamo con il magone tutti quanti, ci salutiamo con la promessa di non morire e di rincontrarci al più presto.
Sembra esagerato avere così paura ma qui le cose stanno proprio così, il rischio c’è, è reale e costante.
A fine mattinata arriviamo nuovamente ad Irambo dove suor Regina ci ha preparato una torta con la scritta “GRACIE DI TUTTO”. Mangiamo la torta nel salottino, beviamo caffè a volontà. Non abbiamo voglia di ripartire ma lo dobbiamo fare comunque.
Le suore mettono mezza torta in un sacchetto e me la depositano in macchina, la torta viaggerà con me fino a sera.
Ripartiamo verso nord, superiamo i territori del Colonnello Yabushebua Aaron, più volte, ai posti di blocco, il solo fare il suo nome ci aiuta non poco a risolvere le situazioni di tensione. Non abbiamo un permesso scritto per transitare ma il nome del Colonnello apre comunque molte porte, fa alzare molte sbarre e spostare i militari.
Ad un posto di blocco delle milizie presidenziali mi chiedono se posso dare un passaggio ad un militare che va in licenza.
Adesso in macchina ho un uomo con un fucile semiautomatico tra le gambe ed un coltello lungo trenta centimetri sul cruscotto, l’uniforme verde ed il basco viola.
Dopo mezz’ora che lo vedo fissare la torta che le suore ci hanno lasciato gli dico che se la può mangiare. Non se lo fa dire due volte.
Il fucile è ormai coperto di briciole quando incontriamo il primo posto di blocco di una certa importanza. Siamo in una botte di ferro. Abbiamo le credenziali giuste. Conosciamo “Il Colonnello” ed abbiamo a bordo un suo militare.
Passiamo. Per qualche ora i posti di blocco non sono un problema ma ormai stiamo uscendo dalla zona di pertinenza di Aaron.
Il militare che ho di fianco parla pochissimo e male, fatica a usare il francese, ma questo mi aiuta perché parla piano e usa parole semplici.
“Allora come vanno le cose adesso che, finalmente, ci sono state le prime elezioni democratiche nel paese? Sei contento di Kabila Junior come presidente?”
“E’ una gran cosa avere di nuovo un presidente, Josef Kabila è un grand’uomo, discendenze più che nobili. Un grande capo, un grande figlio ed una grande armata, noi, i Mai Mai, ‘coloro che non possono essere uccisi dalle pallottole’”.
È incredibile ma qui, al nord, in queste zone dove i militari sono reclutati tra i poveracci ed i più ignoranti, ci credono davvero, credono davvero che le elezioni siano state vinte democraticamente, credono che Kabila figlio sia un santo ed il padre sia stato un grande liberatore. Ma soprattutto credono di essere invincibili. Le brigate Mai Mai sono state da sempre il corpo militare personale di Kabila padre ed ora del figlio. Hanno le divise verdi ed i berretti viola, hanno marciato dal Katanga a Kinshasa ed hanno fatto capitolare Mobutu, hanno fatto vincere le elezioni a Kabila ed hanno in mano buona parte delle sorti del paese. Molti di loro sono seriamente convinti che un Mai Mai non possa essere ucciso dalle pallottole dei nemici.
Stappo una birra e la offro a quest’uomo invincibile ed intanto mi chiedo se nel suo fucile ci siano le pallottole o sia solo un deterrente come spesso accade da queste parti.
La birra scioglie un po’ la lingua del piccolo Rambo: ”Ma dimmi, al tuo paese, in Europa, le donne sono come qui da noi?” mi chiede.
Non capisco bene cosa intenda, non so bene cosa rispondergli. “Si, direi di si ma non proprio sai, qui credo che siano migliori.”
“Certo” mi risponde “ certo che sono migliori le nostre donne, quanto trasporta un’europea? Venti, venticinque? Le nostre donne trasportano cinquanta chili e più”
Così vengo a sapere che uno dei fattori determinanti nel scegliere una moglie è il peso che essa riesce a trasportare. In effetti le vedi sempre stracariche, con sacchi legati alla fronte, piegate in due come vecchie e gli occhi rivolti all’insù che guardano la strada davanti a loro.
In buona sostanza ho qui davanti a me un uomo molto fortunato, un uomo che non può morire e che possiede una moglie che trasporta più di cinquanta chili. Ed io che pensavo di avere di fianco un disperato, uno che fa il militare da anni quasi senza paga, che tutti i giorni rischia di beccarsi una pallottola nella testa e che vive in un paese che non conosce la pace.
Scaricato il militare, che mi domanda il solito “cadeau” e che se ne va con quello che resta della torta, riprendiamo il nostro cammino verso nord.
La strada sale, sale incessantemente, tra dirupi e ponti fatti da grossi pali squadrati gettati su vertiginosi dirupi.
La carreggiata, neanche a dirlo, è un susseguirsi di voragini e crateri e più aumenta la pendenza peggio vanno le cose.
“MONUCBISCUIT, MONUCBISCUIT”. I bambino ci rincorrono da tutti i lati lanciando grida di gioia e chiedendo biscotti. Tutti ci scambiano per due mezzi della MONUC, addirittura a due posti di blocco ci fanno segno di non fermarci, levano in fretta le barre spinate in mezzo alla strada e ci salutano “Bonjour MONUC.”
Bene, l’ONU da queste parti è quasi intoccabile.
La strada sale senza sosta e di fronte a noi si aprono scenari sempre più vasti e meravigliosi. Visioni del lago che sembrano rubate da stampe cinesi. La costa, le isole nella nebbia, la vegetazione che scende dai pendii, tocca le acque e vi si immerge. Qui non esiste il turismo, sotto nessuna forma, qui in realtà non esiste nemmeno un vero e proprio passaggio di auto. Queste strade sono ormai decenni che vedono avanzare solo colonne di mezzi militari o camion di grano e manioca. Qualche sporadico operatore di missioni umanitarie e religiosi.
Saliamo fino a tremila metri e poi giù, in un vortice di curve, tornanti e strettoie che dà la vertigine ed in mezz’ora siamo nuovamente al livello del lago.
Avanziamo a fatica, a tratti immersi nel fango, a tratti coperti dalla polvere. Fango e polvere formano una cortina sui vetri che rende difficilissimo vedere la strada. Scendono le tenebre africane. I nostri fari sono incrostati di terra e fanno una luce troppo fievole per procedere. Scendere dalle macchine per pulirli è troppo pericoloso, accendere i fari sul tetto troppo pericoloso a causa dei cecchini.
Essere scambiati per l’ONU ha anche i suoi lati negativi, uno di questi è rappresentato proprio dai cecchini che si rifugiano sulle montagne.
Dobbiamo fare una scelta, o andare a sbattere da qualche parte o accendere i fari sul tetto.
Accendiamo la fanaleria e ci mettiamo a guidare molto più velocemente. Le mie luci illuminano una massa di polvere enorme, alzata dalla macchina di Diego. Non vedo niente, seguo il centro del polverone. I bimbi, ancora svegli continuano a gridare “MONUCBISCUIT; MONUCBISCUIT” e noi, ai posti di blocco ci sporgiamo dai finestrini ed urliamo MONUC, MONUC. I posti di blocco vengono aperti e noi passiamo oltre. Quando si accorgono che non siamo dell’ONU ormai è troppo tardi, resta il tempo di imprecare e basta.
Goma non arriva mai, guidiamo in queste condizioni per diverse ore, con l’incubo di sentir echeggiare un colpo di fucile, una scarica di mitra. I posti di blocco sono sempre più frequenti e meno disposti a levarsi di mezzo in fretta.
Sono le undici di sera, ormai, secondo i nostri calcoli dovremmo essere a Goma da un bel po’. Comincio a pensare che abbiamo sbagliato strada, comincio ad aver paura.
Come una magia, come un sogno incontriamo l’amico più amico dei nostri Defender, il nemico giurato del poto poto. L’asfalto, nero e morbido, grigio e duro, steso come una coperta di seta ci accoglie e ci libera dalle vibrazioni.
Un colpo secco per superare il primo scalino ed eccoci lì, che filiamo a cento all’ora in mezzo alla foresta.
Un posto di blocco più guarnito degli altri se ne frega delle nostre urla dal finestrino.
Siamo fermi.
Nel buio più assoluto scendiamo dalle macchine. Attorno a noi sentiamo la presenza di decine di persone, militari e poliziotti, non li vedo ma sento i passi degli scarponi e lo sferragliare dell’artiglieria.
Si accende una torcia elettrica. È un poliziotto in borghese che ci controlla i documenti. La fioca luce della torcia illumina decine di sagome che ci si fanno attorno, tutti uomini armati fino ai denti.
“Goma? È ancora lontana Goma? Ci aspettano al vescovado, siamo già in ritardo, saranno in pensiero per noi.”
Non è vero, a Goma non ci aspetta nessuno, ma abbiamo paura.
Ci chiedono cinquanta dollari per superare il posto di blocco ed entrare, Goma è ormai a pochi chilometri.
Diego mi dice di salire ed accendere il motore, sale in macchina anche lui, nel buio e nella confusione mette una banconota nel taschino del poliziotto e subito schizziamo via.
Cinque minuti dopo, via CB chiedo a Diego perché siamo ripartiti così in fretta.
“A quello stronzo gli ho infilato in tasca dieci dollari, non cinquanta!”

Arriviamo a Goma in piena notte.

Goma è una città piuttosto incasinata. I soliti cavi della luce e del telefono corrono in tutte le direzioni disegnando intrichi scomposti in ogni dove. Asfalti rotti e mancanza assoluta di illuminazione pubblica. La città è illuminata principalmente dai fuochi delle case e da quelli dei venditori di brochettes. Così l’apparenza è quella di un enorme villaggio, con le ombre gettate dalle fiamme che danzano sui muri.
Il caldo è insopportabile. Ci mettiamo più di un’ora per trovare la procura del vescovado, un posto dove pare, troveremo da dormire.
La procura è un posto degno di un film dell’orrore. Un guardiano mezzo zoppo ci viene ad aprire, a fatica spalanca gli enormi cancelli di lamiera.
Una strada sterrata si inoltra in un dedalo di cortili e costruzioni enormi in cemento. Il buio ci aiuta a non capire né la vere dimensioni né la disposizione di questo gigantesco centro.
Un’anziana donna di colore ci fa entrare alla reception, composta da una scrivania ed una branda e, a lume di candela, prende i nostri dati.
Per andare alle camere ci infiliamo in un lungo corridoio, stretto e pieno di piccole porte, quindi saliamo una scala angusta fatta di ferro, quindi un ballatoio ci conduce ad un’altra scala, enorme ed in cemento armato, una svolta e siamo in un immenso cortile interno. Sui quattro lati due piani di ballatoi ospitano decine e decine di altre porte. Ci infiliamo in un nuovo corridoio, una scaletta e siamo su un altro ballatoio che, riesco a capire, si affaccia sull’ingresso principale.
Le camere sono spoglie ed infestate dagli scarafaggi. Il bagno è una stanzetta comune che ospita un water e una vasca ingiallita piena d’acqua anch’essa di colore giallastro.
Per questa sera non ci laveremo, meglio così.
Mangiamo del pane a lume di candela e studiamo le carte geografiche per stabilire il percorso da seguire l’indomani.
La procura è un edificio che, visto così, vuoto e in piena notte, mette una certa ansia. La mia porta non si chiude a chiave dall’interno quindi prima di coricarmi spingo una specie di armadio a fare da barricata.
Mi stendo sulle lenzuola senza spogliarmi e tengo la mia MagLite a portata di mano.
Sento zampettare, accendo la torcia: uno scarafaggio sulla parete, due sul soffitto; ne scovo tre che corrono sul pavimento e che si immobilizzano quando li colpisco con il fascio di luce.
Spengo la pila, la riaccendo d’improvviso. Le bestioline si immobilizzano. Mi fa un po’ schifo dormire qui, ma fa niente, ci provo. Ogni tanto riaccendo la torcia. Adesso gli scarafaggi, in due, si arrampicano lungo la zanzariera che protegge il letto, li allontano con una manata e loro cadono a terra con uno schiocco secco.
Provo a dormire. Una bestia mi striscia vicino al collo. Salto fuori dal letto tutto impigliato nella zanzariera, accendo la pila e vedo che c’è uno scarafaggio, un po’ più piccolo degli altri, che si infila veloce sotto al mio cuscino.
Non ne posso più. Raccolgo le mie cose, vado a bussare alla porta di Diego e gli dico che io vado a dormire in tenda. Diego mi segue.
Passiamo la notte nella tenda umida e piena di polvere e terra.
La mattina ci alziamo tutti indolenziti, ci lamentiamo della presenza degli scarafaggi e veniamo così omaggiati con una colazione a base di uova e caffè.

Uscire da Goma in direzione Rutshuru non è così semplice come può sembrare dalla carta geografica. La città, di mattina è tumultuosa e densamente trafficata. Ci si muove a stento tra le macchine ed i carretti. Sbagliamo due volte direzione ed in fine prendiamo in macchina un passante che, ci dice, se gli paghiamo il bus per tornare, ci accompagnerà volentieri fino a Rutshuru.

In effetti la strada, per diversi chilometri è piena di bivi e diramazioni.
Superiamo vari tratti di strada distrutti dalle colate di lava delle continue eruzioni che devastano regolarmente la città.
La lava scende e distrugge, ma gli abitanti, un attimo dopo sono lì che già ricostruiscono le loro case-baracca proprio sopra alla lava seccata.
Guidiamo tra scenari meravigliosi. Stiamo costeggiando la parte più meridionale del parco del Virunga, uno dei parchi più belli del mondo, sicuramente il meno accessibile. In questi anni ormai il parco è nelle mani dei ribelli, che lo infestano e ne impediscono l’accesso.
Il mio passeggero mi racconta un sacco di cose, è una persona che ha studiato, conosce la storia e la geografia.
Qui la guerra si è scatenata con maggior forza che in altri posti. “Quello laggiù” mi dice indicando un villaggio lontano sulle alture “ è la cittadina di Kanungu e sai perché è famosa? È famosa per l’impressionante percentuale di vedove che ci sono.”
“Ecco” mi dice toccandomi una gamba,” guarda verso la foresta, vedi? È pieno di carri armati ed autoblindi.”
Io non vedo niente, la vegetazione alta ed impenetrabile nasconde tutto. “Là dentro è pieno di carri e blindati e cannoni e scheletri, residui della guerra che la giungla ormai ha inghiottito.”
Piantagioni di caffè si alternano a tratti di foresta primordiale. Sulla nostra sinistra svettano i coni dei vulcani e le cime dei monti.
In tarda mattinata siamo a Rutshuru.
Il nostro accompagnatore ci guida alla stazione di polizia, l’ultima, da qui in poi il territorio è in mano alle bande armate ribelli e polizia ed esercito non si inoltrano.
Settanta chilometri ci separano dalla frontiera di Ishasha. Di là l’Uganda, con le strade asfaltate ed un governo stabile.
“Con un po’ di fortuna ce la farete, non fermatevi mai, per nessun motivo, nessuno capito? Tirate sempre dritti, qualche ora e sarete alla frontiera.” Salutiamo il nostro amico che prima di lasciarci ci ripete dieci volte la stessa cosa:”Non fermatevi mai, anche se ci sono posti di blocco di polizia o esercito voi tirate dritto, sono finti, sono banditi. Non fermatevi mai e buona fortuna.”
Settanta chilometri che, a causa delle condizioni della strada, impieghiamo tre ore a percorrere.
La tensione è altissima. Superiamo diversi campi profughi, sterminati agglomerati di tende e ripari fatti di Nylon, più volte i militari ci fanno cenno di fermarci e noi tiriamo dritto. Qualcuno ci urla dietro insulti. Passiamo parecchi villaggi dove la gente ci guarda come se fossimo marziani.
Sui cigli della strada è pieno di persone armate, due ragazzi in braghe militari, ci puntano i fucili addosso, per scherzo…, si per scherzo…ma a me fanno paura.
Arriviamo a Ishasha che siamo sudati marci ed abbiamo il torcicollo tanta è stata la tensione. Siamo vivi, siamo salvi. Scendiamo dalle macchine ed andiamo al posto di frontiera.
Qui ci danno un’accoglienza straordinaria. Per loro siamo il segno che la guerra è davvero finita, che tra un po’ arriveranno i turisti. Ci chiedono se il Congo ci è piaciuto e se lo consiglieremo agli amici per le loro prossime vacanze.
Noi sorridiamo e diciamo una verità ed una bugia. La verità: il Congo è il paese più bello del mondo, almeno dal punto di vista della natura e dei paesaggi. La bugia: consiglieremo ai nostri amici di venirci a passare le vacanze.
Un solo problema, dovremmo passare dal capo della stazione perché i documenti auto non sono regolari.
Entriamo in una baracca-ufficio, un grosso omone nero e pelato ci fa sedere e ci spiega che non abbiamo nessun timbro che attesti l’entrata delle nostre macchine in Congo, che non abbiamo l’assicurazione, che i nostri visti sono scaduti e che non abbiamo il permesso dell’esercito per andare in giro con le macchine fotografiche.
Siamo messi bene.
Pensiamo subito che il capo ufficio voglia spillarci dei soldi, ma presto scopriamo che non è così, soltanto, quest’uomo, ci tiene che tutto sia in regola. È dispiaciuto ma questo è un grande problema.
Diego ha un’illuminazione: “Guardi signore che è tutto a posto, noi siamo entrati in Congo attraverso la frontiera di Cyangugu e “le grand chef de poste de Bukavu” ci ha detto che non servivano i timbri e che tutto era a posto”.
L’uomo di fronte a noi tira un respiro di sollievo, ora può scaricarsi la coscienza, se a parlare è stato proprio “le grand chef de Bukavu” allora è tutto a posto.
Passiamo la frontiera ed io penso all’assurdità di quello che è successo in quell’ufficio.
Siamo usciti dal Congo, paese dalle mille meraviglie, paese della gioia e del dolore. Spero di poter sentire Cecilia al più presto, lei e Federica sono ancora là e finchè non saranno su un aereo non starò per niente tranquillo.

Adesso siamo in Uganda, gli uffici di frontiera sono ben curati e fatti in mattoni, non ci sono poliziotti o militari ma solo due impiegati cordiali e gentili anche se un po’ alticci.
Mentre ci timbrano i passaporti, davanti alla porta dell’ufficio passa un gigantesco uccello, alto più di un metro.
Esco subito fuori a guardare, è proprio vero, c’è un enorme volatile che passeggia serenamente ed entra ed esce tranquillamente dagli uffici.
Chiedo cosa sia quella fantastica creatura.
“E’ un Marabu, Welcome to Uganda Sir” ci dice l’impiegato sorridendo e porgendoci i nostri passaporti firmati.

E’ pazzesco.
Una frontiera, inventata dagli uomini, una striscia di filo spinato ed una sbarra, di qua si parla inglese e c’è la pace, l’asfalto, un governo stabile. Di là, cinquanta metri più in là, oltre al filo spinato non esiste legge, c’è la guerra, la morte. I ribelli dominano la regione ma non sconfinano, i poveri muoiono di fame ma non sconfinano. Ed intanto il filospinato sta lì ad arrugginire e non si accorge di niente.
In Congo la uerra non ha mai fine.





Buganda Kingdom



Il Buganda è un regno composto dai 52 clan dell’etnia africana Baganda; è il più grande dei regni tradizionali rimasti nell’Uganda moderno. Il sovrano di Buganda è denominato Kabaka.
Il regno è delimitato a sud dal lago Vittoria, ad est dal fiume Nilo Vittoria, a nord dal lago Kioga. Sia l’antica capitale del paese (Entebbe) sia quella attuale (Kampala) si trovano nel regno di Buganda.

Noi entriamo in Uganda dalla “frontiera impossibile”, quella di Ishasha.
Attraversiamo da prima una sconfinata zona di savane, percorriamo strade sterrate che tagliano attraverso territori selvaggi dove i piccoli villaggi degli ugandesi convivono con gli animali della savana.
Tutti coloro che incontriamo non possono credere che siamo entrati in Uganda arrivando dal Congo, troppo inusuale, troppo pericoloso e difficile.
Noi puntiamo a sud, verso il lago Vittoria, di nuovo verso il Rwanda, verso Kampala.
Attraversiamo una zona di montagne coperta da foresta e piantagioni abbondanti ed ordinate.
La strada è sterrata ma ben tenuta, nessun cartello indica le direzioni da prendere ma la gente a cui chiediamo informazioni è più che disponibile.
Tornanti da vertigine si inerpicano sui pendii scoscesi, la strada disegna un percorso che sembra disegnato da un pazzo. Decine di volte ci ritroviamo a percorrere le creste delle montagne ed altrettante volte discendiamo nelle gole coperte di vegetazione. È un continuo alternarsi di foresta equatoriale e di pinete di conifere. Ogni ora la vegetazione cambia radicalmente, si trasforma, per poi ritornare se stessa.
Viaggiamo sull’orlo di abissi profondi centinaia di metri e mezz’ora dopo stiamo correndo proprio in fondo a quegli abissi. Il percorso è quello di un ottovolante. Passiamo su una strada che costeggia un profondo burrone, trenta metri sotto di noi la stessa strada ci aspetta e, di là dal baratro a poche decine di metri possiamo vedere quella appena percorsa.
Sembra di viaggiare in un labirinto dove gli scenari si ripresentano decine di volte, dove le curve si assomigliano ed i villaggi sono gemelli.
Ormai a notte inoltrata cominciamo a filare lisci su un asfalto piatto che corre nella pianura.
Dormiamo a Cabale e la mattina seguente ripartiamo in direzione Mbarara-Masaka-Kampala. Viaggiamo attraverso spesse cortine di nebbia che annunciano l’avvicinarsi del lago Vittoria. Alle prime luci dell’alba superiamo colonne lunghissime di uomini in bicicletta che trasportano enormi quantità di banane verdi, andranno ai mercati a venderle e scambiarle con altre banane, forse più mature forse diverse.
Migliaia di donne e uomini carichi come muli camminano verso i mercati e quando ci fermiamo per comprare qualche brochette li rincontriamo, stanchi e sudati, seduti di fronte alle loro poche mercanzie ben disposte ed ordinate.
Donne che oltre alle banane trasportano piccoli esserini scuri scuri con gli occhi ancora chiusi dal sonno.
Qua e là orde di bimbi in età scolastica si aggirano vestiti delle loro impeccabili uniformi multicolori.
I gruppi di bimbi ci rincorrono e ci salutano, gli uomini ci offrono banane e brochettes e le donne ci guardano con occhi stanchi e sognanti, poi tornano a contrattare il loro casco di banane, il loro sacco di patate. La loro vita.

Spesso, quando sono in Italia la gente mi chiede perché vengo a fare questi lunghi viaggi in questi posti così lontani, pericolosi, poveri, forse strani.
I meno arguti mi domandano perché non me ne vado qualche settimana alle Maldive o a Sharm el Sheikh, magari a Cancun o in Thailandia. I più attenti mi fanno sapere che per vedere e conoscere posti e modi di vita nuovi basta andare in est Europa o magari negli Stati Uniti. Qualcuno, qualcuno che prima di parlare ha pensato, invece mi chiede se provo godimento nel vedere la povertà, se mi sento più ricco ed arrivato confrontandomi con i disperati e gli ultimi.
Poi ci sono quelli che mi dicono che vorrebbero fare un viaggio come quelli che faccio io, che ammirano il mio coraggio e che prima o poi, anche loro...
Io non so mai cosa rispondere, a nessuno.
Non ho coraggio di nessun tipo, quello che ti fa venire qui non è una sfida alle nostre paure ma un impulso, una spinta che viene da dentro e della quale non ti puoi liberare mai.
Non ho paura di attraversare il Congo o l’Angola, di affrontare un posto di blocco di invasati islamici che odiano tutto ciò che rappresento. Non ho paura di guidare tre mesi senza sapere se mai arriverò da qualche parte. Non ho paura di chiedere da bere ad un poveraccio o di dar da mangiare ad un militare affamato. Non ho paura di vedere i posti più belli del mondo e rischiare di essere catturato e picchiato, imprigionato e terrorizzato.
Ho paura di andare a Sharm el Sheik, a Cancun, in un villaggio turistico in Tunisia o a fare un giro in Marocco “all inclusive”. Ho paura di questi posti che non esistono, tutti uguali e miseri, poveri di qualsiasi cosa, dove i disperati vengono fatti entrare con il contagocce così il turista che ne vede uno gli dà una monetina e quando torna a casa può dire di avere un amico che si chiama Pedro, Said, Pablo o Alì, magari Mohammed. Ho paura di questi luoghi dai quali i turisti rientrano abbronzati con in testa foulard di stoffa o sombreri grossi come case. Ho paura di quelle persone che dopo dieci giorni a Cancoon mi dicono che sono state in Messico e che il prossimo anno andranno in Egitto al villaggio Valtur. Ho paura di queste persone perché portano il male in terre lontane senza nemmeno metterci i piedi, i posti in cui vanno sono tutti uguali e mostruosi ed arricchiscono solo ed esclusivamente coloro che li hanno inventati.
I mass-media ci hanno convinti che andare in qualche posto senza che tutto sia organizzato da un tour operator sia impossibile. Balle. Balle grosse come una casa. Finzioni e bugie a cui tutti credono. Basta un libro, una guida magari Lonely Planet, e non serve altro. Perché assieme all’aereo mi devi vendere una camera d’albergo, un panino, un cocktail ed un mucchio di cazzate? Hai quindici giorni e pochi soldi? Predi la Lonely Planet del Marocco, prendi l’aereo e poi visita la nazione, a piedi, in autobus o a dorso di mulo. Ecco fatto. Hai portato soldi in un paese più povero del tuo, hai visto veramente qualcosa di diverso dal tuo giardino, hai speso poco e magari, se hai avuto dei problemi e qualcuno ti ha aiutato, magari un certo Hamed, allora puoi tornare a casa e dire che hai un amico laggiù. Solo una cosa, se andate in un villaggio turistico a Cancun, non dite che siete stati in Messico, se andate a Charm el Sheik, non dite che siete stati in Egitto. Il Messico è lontano diecimila chilometri da Cancun e l’Egitto è addirittura in un continente diverso da Charm. Se vado a Malindi con un bel pacchetto tutto incluso non devo dire che sono stato in Kenia, non lo devo dire per rispetto al Kenia ed ai suoi abitanti che ogni giorno attraversano il deserto su camion scassati, che ogni giorno attraversano le townships di Nairobi, per rispetto di coloro che muoiono cercando di costruire una strada che raggiunga il lago Turkana.
Quello che sempre mi capita, invece, è di incontrare viaggiatori in giro per i continenti, gente che viaggia per istinto o per paura di stare fermi e nessuno di loro, mai una sola volta mi ha chiesto perché stavo viaggiando in un posto come quello.
Entriamo a Kampala da ovest. Kampala è grande e caotica, disordinata e bella, molto bella.
Fango e polvere sono le strade dei quartieri più poveri, asfalto e verdi aiuole gli arredi del centro. Ovunque grandi alberi sorgono maestosi, tra le baracche o accanto ai grattacieli. I Marabu popolano i giardini e le chiome degli alberi, i cornicioni e i marciapiedi. Fa uno strano effetto vedere decine di uccelli alti un metro e mezzo che passeggiano per la città.
Ci fermiamo a dormire al Backpackers, uno di quei posti dove si incontrano viaggiatori zaino in spalla (Backpackers appunto), persone che hanno sempre cose da raccontare. Qui si incontra anche tanta gente che viaggia per lavoro, per lo più gente che non vuole chiudersi in un albergo del centro ma vuole passare qualche ora in compagnia.
Ci fermiamo qualche giorno qui, ci accampiamo nel prato che ospita le tende. Dobbiamo effettuare alcune riparazioni alle macchine. Le strade del Congo hanno compiuto la loro missione distruttiva. Abbiamo le tende mezze scassate, le bagagliere hanno bisogno di alcuni punti di saldatura e dobbiamo riassestare tutto ciò che stà all’interno. Dobbiamo lavare tutto: vestiti, attrezzi ed interni delle macchine, dobbiamo levare chili di terra dagli abitacoli.
Dobbiamo riposare, dobbiamo far mente locale per affrontare il Kenia e poi l’Etiopia ed il Sudan. Dobbiamo sentire il console italiano in Sudan, dobbiamo cambiare i soldi e fare tre o quattro docce. Dobbiamo mangiare carne e bere birra, insomma, dobbiamo fare un sacco di cose.
Dopo diverse ore dal nostro arrivo, abbiamo messo su un vero accampamento da nomadi: corde da stendere tirate in tutte le direzioni, vestiti stesi ad asciugare, attrezzi sparsi ovunque, carte geografiche e guide ammonticchiate vicino al barbecue, tavolo e sedie pieghevoli ingombri di attrezzature fotografiche e scarpe impolverate. Un paziente lavoro di pulizia con pennelli e stracci umidi ci impegnerà almeno due giorni.
Qui si stà bene, molto bene, ma Diego ed io siamo insofferenti, vogliamo ripartire il prima possibile, ancora troppa strada ci aspetta per poterci fermare adesso.
La sera beviamo birre fino a stordirci seduti al bancone del Backpacker ascoltando le storie che gli altri hanno da raccontare, poi andiamo alle tende e ci addormentiamo al suono dei tamburi che battono il loro incessante ritmo nei recessi di Kampala.




Flamingo road.



Dobbiamo coprire un migliaio di chilometri in una giornata.
Guardando la carta della Michelin sembra fattibile, se non perdiamo troppo tempo in frontiera ci possiamo riuscire.
La Michelin riporta tutta la strada da Kampala a Nairobi come percorso principale è asfaltato.
Fidarsi al cento per cento di guide e carte geografiche è spesso sbagliato. In Africa, farlo, è addirittura roba da ingenui.
La strada è asfaltata solo fino a Jinja, ottanta chilometri in tutto.
Da qui in poi i lavori di costruzione di una nuova strada languono da anni, così ci si muove su percorsi alternativi fatti di ghiaia, sassi, terra battuta e fango. Di quando in quando si utilizza il vecchio tracciato coperto dalle croste dell’antico asfalto. In questi tratti non esiste un senso di marcia, si passa dove capita, si supera quando si può e bisogna sempre stare attenti a non prendersi un tir in faccia o un fuoristrada nel sedere.
Attraversiamo il Nilo Vittoria, superiamo Jinja dove io carico una grassa signora che chiede un passaggio fino a Tororo.
La signora è pulita, fasciata in un tailleur di lana e porta sulla testa un foulard sul quale è dipinto il colosseo di Roma. Si chiama Denise, tiene in borsa dieci biscotti fasciati in un pezzo di carta di giornale e porta un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia.
Passo mezza giornata a chiacchierare con Denise. Suo marito ormai è morto, lavorava per conto dell’esercito e fu proprio lui a portarle il foulard da un viaggio a Roma.
“Mio marito una volta ha visto il Papa sai?” mi dice guardandomi in faccia, “ e tu lo vedi spesso il Papa?” mi chiede.
“No, non l’ho mai visto di persona” le rispondo, Denise ci rimane malissimo: “ma non sei mai andato a San Pietro a vedere la messa?”
“No, mai andato.”
“Molto male caro Luca, molto male. Se il Papa vivesse qui in Uganda io andrei a sentire la sua messa tutte le volte che posso.”
Non so che dirle allora le racconto che siamo in Africa per aiutare una missione di suore cattoliche in Congo, che raccogliamo fondi, che portiamo giù aiuti ecc. ecc.
Denise pare rinfrancata da questo mio contatto con la religione, si sistema meglio sul sedile e guarda avanti soddisfatta.
Qui in Africa la religione è una cosa molto molto importante. Spesso quando incontri qualcuno la seconda domanda che ti viene fatta è di che religione sei, spesso sapere di che religione è una persona è più importante di sapere di che nazionalità è. E perché no poi?
Quando scarico Denise alla periferia di Tororo lei prende un consunto borsellino e mi chiede quanto deve pagarmi per il passaggio.
“Niente Denise, è stato un piacere e buona fortuna:”
Denise non ci può credere, piange, poi mi abbraccia quasi fino a soffocarmi, mi benedice in mille modi e poi mi bacia ancora.
“Lo sai che Dio ti renderà grazie per il tuo gesto?” mi dice, “ è un gesto importante, io con i soldi che tu oggi non hai voluto potrò tornare a Jinja una volta ancora prima della fine dell’anno e vedere ancora una volta mio figlio, grazie, che Dio ti benedica, grazie, grazie mille…”
Se la lasciassi continuare andrebbe avanti mezz’ora, così la saluto un po’ bruscamente e lei si allontana lungo un sentiero di terra rossa ondeggiando il suo enorme sederone africano.

Ripartiamo ed in pochi chilometri siamo alla frontiera con il Kenia.
Ormai è quasi sera, di arrivare a Nairobi neanche a parlarne.
Espletiamo le formalità doganali, lente e macchinose ma economicissime. Usciamo dall’Uganda ed entriamo in Kenia spendendo meno di trenta dollari a testa.
La sera tardi ci fermiamo a Eldoret dove un portinaio di albergo ci fa dormire per pochi spiccioli nel cortile invaso dai topi. Eldoret è una città grande e viva, piena di gente e locali ma noi siamo troppo stanchi e domani ci aspetta ancora tanta strada.

Se da Eldoret vai a Nairobi attraversi la Rift Valley.
Qui il grande Rift prende le meravigliose forme del lago Nakuru.
La strada è tutta fossi e buche, macchine livellatrici e ruspe che alzano polveroni infernali.
I chilometri non passano mai, si guida male, siamo coperti di polvere e le macchine continuano a soffrire a causa degli scrolloni.
Quando però ci appare la visione del lago Nakuru tutto passa e, come al solito, capisci il perché di tutti questi chilometri.
Decine di migliaia di fenicotteri rosa vivono nel lago. Le acque, in molti punti si tingono del rosa riflesso dagli uccelli, dando vita ad uno spettacolo che lascia senza fiato. Costeggiamo il lago per diversi chilometri.
Giriamo decisamente a sud e ci buttiamo a capofitto sul trafficato ed accidentato percorso che porta a Nairobi.
Arriviamo alla periferia di Nairobi che ormai si sta facendo buio. Attraversiamo baraccopoli, slam e township, nomi diversi per indicare i sobborghi più degradati.
Troviamo una superstrada che corre veloce verso il centro cittadino. Due corsie per senso di marcia, asfalto buono e guard-rail a bordo strada, sembra tutto ok, ci lanciamo a centoventi all’ora. Ma bisogna sempre ricordare che qui non siamo in Europa ma in Africa.
In cinque minuti le medie scendono sotto ai cinquanta chilometri orari. Persone e carretti attraversano la strada, cani e galline passeggiano a un centimetro dalle corsie e greggi di caprette, di quando in quando, sgambettano veloci da un lato all’altro della strada.
Quando arriviamo in centro vediamo la Nairobi città, fatta di grandi edifici in stile coloniale e grattacieli, giardini e sottopassaggi. Una città vera, quasi europea, dal gusto, ovviamente, molto inglese.
Con l’aiuto di una mappa troviamo l’”Upper Hill camp site”, situato su una collina proprio in centro alla città.
Un posto tanto bello quanto strano. Una piccola abitazione colonica in stile assolutamente inglese, circondata da un giardino e da un piazzale in terra battuta. Fin qui tutto normale, solo che tutto attorno sono sorti e stanno sorgendo grattacieli alti venti piani.
Montiamo le tende, facciamo una doccia e ci sediamo di fronte a due birre veramente ghiacciate.
Passiamo una notte serena protetti dalle fronde dei grandi alberi che costellano l’Upper Hill.
Il giorno successivo lo passiamo all’ambasciata sudanese. Code, sale d’attesa, pausa pranzo e colazione e merenda e poi tre fogli scritti fitti fitti e da compilare.
Mille domande esigono mille risposte, altrimenti il visto non ce lo danno.
La terza domanda è di che religione siamo.
Io non scrivo ateo.
Tutto a posto, tutto compilato, solo i fogli sono un po’ umidi di sudore e stropicciati.
La segretaria prende i fogli, le fototessere e le fotocopie dei passaporti e controlla che tutto sia in regola.
Legge, legge e poi alza gli occhi “Ma qui c’è scritto che vi spostate in macchina!”
“Si esattamente” risponde Diego, “abbiamo due Land Rover, abbiamo allegato alla documentazione anche le copie dei due libretti…”
“Allora niente da fare” lo interrompe quella restituendoci tutta la documentazione, “Se proseguite da qui via terra il visto lo dovete fare all’ambasciata ad Addis Abeba. Buona giornata e buon viaggio.”
Finito!
Non una parola di più, ci hanno fatto stare qui tutto il giorno a fare che cosa? Niente, niente come sempre viene fatto in metà uffici del mondo, niente di niente.

Cecilia e Federica intanto sono passate da Bukavu a NkaNka in Rwanda e dopo dieci giorni alla missione di suor Angela sono risalite fino a Kigali, lì hanno cercato un volo per Nairobi dove possono trovare un volo per l’Italia.
Il caso le fa arrivare nei giorni in cui noi siamo in città.
Per la verità non è proprio il caso.
Diego ed io riusciamo a sentire le ragazze per telefono e visto che arriverebbero proprio l’indomani decidiamo di fermarci a Nairobi qualche giorno in più.
Buona scelta, passiamo quattro giorni in città piuttosto felici e spensierati, compresa una “lussuosa” cena al ristorante “Le Carnivore” dove la carne di coccodrillo viene servita con quella di tacchino e la zebra si accompagna all’insalata di cetrioli. L’inferno dei vegetariani è ovviamente un luogo di culto per i “carnivori” di tutto il Kenia.
Un lunedì mattina Josef, quello che è ormai diventato la nostra guida di fiducia attraverso la ragnatela di vie di Nairobi, ci accompagna tutti al mercato da dove parte un pullman per Mombasa.
Le ragazze andranno sulla costa per un po’ di giorni in attesa della partenza del volo low coast per l’Italia.
Baci e abbracci si sprecano, chissà quando ci rivedremo. Cecilia è di nuovo commossa e preoccupata, preoccupata per tutta la strada che Diego ed io dobbiamo ancora fare, preoccupata a causa delle guerre e dei banditi, insomma, preoccupata per la nostra incolumità.
Un ultimo saluto strappalacrime ed il bus, scassato e zoppicante parte verso sud. Noi ci voltiamo pronti ad affrontare il nord.




Sciacalli, iene ed avvoltoi.



Sciacallo:
lo sciacallo è uno dei carnivori che popolano in maggior numero la savana aperta, può essere molto attivo sia di giorno che di notte. Le coppie sono stabili e difendono piccoli territori. Gli sciacalli si cibano molto spesso degli avanzi lasciati da altri animali ma possono essere anch’essi eccellenti predatori.
Lo sciacallo può essere alto dai 38 ai 50 cm., lungo dai 95 ai 120 cm. di cui 25-40 cm. di coda e pesare fino a 15 chili.

Iena macchiata:
solitamente considerata un necrofago, la iena macchiata è in realtà un predatore altamente efficiente con una socialità affascinante. Le femmine sono dominanti e più grandi dei maschi, hanno caratteristiche fisiche maschili, compreso un clitoride erettile che rende praticamente impossibile distinguere i due sessi, guidano branchi che possono essere formati da decine di individui. La iena macchiata ha una struttura massiccia ed un aspetto distintamente canino, nonostante sia imparentata più con i gatti che con i cani. Può correre alla velocità di 60 chilometri orari ed un branco può facilmente avere ragione di gnu e zebre. Il loro richiamo, “uuu-uup”, è un suono caratteristico delle notti africane.
La iena macchiata può essere alta fino ad 85 cm., lunga 180 cm. e pesare fino ad 80 chilogrammi.

Avvoltoio:
il grifone dorsobianco, detto anche avvoltoio dorsobianco, deve il suo nome al candido collare di piume alla base del collo in contrasto con il resto del piumaggio superiore che è grigio scuro. Il capo ed il resto del corpo sono nudi, coperti solo da una fine peluria bianca che permette all’avvoltoio di introdurre totalmente la testa all’interno delle carcasse senza sporcare la livrea. È lungo circa un metro e può arrivare a pesare 7 chilogrammi. Il becco è possente e nero, le zampe sono dotate di grandi artigli e può vivere fino a diciannove anni.


Il grosso corpo della iena è riverso al suolo, la pancia squarciata, la gola aperta e la testa tirata indietro come a non voler vedere quello che le succede. Gli occhi le sono stati strappati da ore, la polvere ha già coperto in parte la pozza di sangue che la circonda. Sette otto avvoltoi banchettano freneticamente, sbattendo le ali e saltellando attorno al cadavere. Il rumore di un motore li disturba, li infastidisce ed infine, fattosi più vicino, li allontana dal loro pasto. Quasi all’unisono tutti gli avvoltoi prendono il volo sollevando polvere attorno alla iena morta.
Venti secondi dopo un Toyota verde passa rombando a pochi metri dal cadavere. Alla guida un vecchio nero quasi centenario che ha per passeggeri due occidentali, sporchi e visibilmente stanchi.
Il fuoristrada transita lentamente e gli occhi dei due bianchi si fissano sullo spettacolo di sangue e morte, guardano allibiti senza capire che quello che vedono è vita, vita che si rigenera. Qui la morte di un animale è sempre utile alla vita di qualcun altro, spesso indispensabile. Qui la morte non è mai gratuita.
Il Toyota passa, il nero accelera, i bianchi dimenticano e sudano e gli avvoltoi scendono di nuovo accanto al loro piatto di carne.
Dietro un cespuglio uno sciacallo osserva nervoso la scena, pare che tenga il conto di quanti avvoltoi ci sono attorno alla carcassa; sempre troppi per andare a dare un morso.
Il rombo del Toyota si perde in lontananza e tutto ciò che resta è un leggero soffio di vento che sposta sottili lame di polvere.

Partiamo da Nairobi nella tarda mattinata.
Ci aspetta una lunga strada.
Nairobi-Moyale via Nanyuki-Isiolo-Marsabit.
La strada è buona, scassata di quando in quando ma tutta asfaltata. Percorriamo zone densamente popolate, dove villaggi si susseguono a campi coltivati.
Passiamo sotto alla vetta innevata del monte Kenia. Fa strano vedere della neve, se pur lontana, qui dove si muore dal caldo.
Attraversiamo una zona collinare coperta di praterie dove milioni di farfalle bianche riempiono l’aria ed assomigliano ad una strana nevicata estiva.
Dal finestrino, la visione di una donna in attesa vicino ad una cunetta. Addosso un abito rosso come il fuoco, attorno migliaia di farfalle la circondano scambiandola per un fiore coloratissimo. La prateria verde ed il cielo blù si incontrano all’orizzonte formando una linea perfettamente retta che divide in due il mio sogno.
Ma anche questo passa veloce.
Un’ultima collina e davanti a noi appare il deserto di Marsabit.
La strada comincia a scendere e in lontananza si scorgono le dune gialle ed i coni dei vulcani immersi nel caldo accecante della desolazione.
Passiamo una notte ad Isiolo, cittadina che fa da confine tra una terra fertile ed abitata ed un’enorme desolazione fatta di rocce vulcaniche, polvere gialla e strade piatte.
Pochi minuti dopo il nostro arrivo veniamo contattati dalla polizia del luogo. Un ragazzo di nome Alì ci conduce al comando, qui una donna grossa come la cabina di un camion e sudata come un cavallo ci da il benvenuto a Isiolo.
“Buongiorno stranieri, benvenuti. Dove siete diretti?” Ci chiede asciugandosi la fronte ed il collo con un asciugamano vecchio di un secolo.
“In Europa” le rispondo io.
“Come?” chiede lei senza capire.
“A Moyale e poi Addis Abeba” spiega Diego, “A nord, In Etiopia, verso il Sudan”.
“Bene, bene, lo sapete che da qui non si può proseguire senza essere scortati dai militari?”
No, ovviamente non lo sappiamo.
“I banditi che scendono dall’Etiopia, i pastori ribelli ed altre situazioni hanno reso questa zona poco sicura, le auto di passaggio vengono attaccate molto spesso, se poi a passare sono due bianchi l’attacco è sicuro.” Si asciuga di nuovo il collo e tira un rutto che mi coglie alla sprovvista.
Nessuno dice niente.
“Bene, allora come si fa? Ci date una scorta?”
Certo, ci daranno una scorta armata. Ma bisogna pagare.
L’enorme signora manda a chiamare due militari che arrivano poco dopo. Uno è una specie di gigante alto due metri e l’altro un ragazzo magro e giovanissimo.
Prendiamo accordi per la mattina dopo. Partiremo all’alba.
Paghiamo il prezzo frutto di una lunga contrattazione e andiamo a dormire.
La mattina partiamo dal nostro campo che ancora non ha fatto giorno.
Passiamo alla stazione di polizia e carichiamo i due militari.
Sono in mimetica e basco viola, coltello alla cintura e fucile semiautomatico appeso alla spalla.
Ripartiamo, di nuovo ho delle armi in macchina e la cosa non mi piace.
La sbarra che segna il confine della cittadina viene alzata da un assonnato poliziotto che guarda nelle macchine con una pila, saluta i militari e ci lascia andare.
La sensazione è quella di entrare in una zona pericolosa.
Costeggiamo basse montagne dai fianchi scoscesi ed i militari ci dicono che sicuramente i banditi sono lassù che ci spiano con il cannocchiale. Passano le montagne e passa anche la notte.
Adesso viaggiamo in pieno deserto oppressi da un caldo allucinante. Il militare che mi porto accanto fuma come un disperato, una sigaretta dietro l’altra. Le mie sigarette!
Alla stazione di polizia ci hanno detto che la strada Isiolo-Marsabit-Moyale si può fare solo in non meno di due giorni. Noi abbiamo fretta ed i militari ci assicurano che se non smettiamo mai di guidare, in quindici sedici ore dovremmo riuscire ad arrivare a Moyale.
Lo facciamo. Guidiamo quattordici ore attraversando un deserto allucinante. Lasciata Marsabit la strada peggiora e la temperatura si alza. Il militare che ho di fianco si copre con un passamontagna nero per ripararsi la bocca e gli occhi dalla polvere.
La strada all’apparenza non sembra terribile, corre piuttosto piatta dritta davanti a noi. In realtà è la strada peggiore che abbiamo mai percorso. Il fondo è costituito da detriti vulcanici di lava nera solidificata da millenni. Le vibrazioni sono estenuanti e le macchine soffrono come non hanno mai fatto. Toule ondulèe si susseguono a tratti di ghiaia nera alta un metro. Spesso ci spostiamo muovendoci sulla roccia viva, dove ogni asperità trasmette alle auto dei colpi forti e secchi.
Cinquecento chilometri in queste condizioni farebbero a pezzi anche un carro armato. I Land Rover resistono. Le vibrazioni storcono e contorcono le macchine, le lamiere della carrozzeria si muovono come fossero di cartone, i rivetti cedono e schizzano via come proiettili.
Arriviamo a Moyale stanchi morti, sporchi e sudati come poche volte ci è capitato. Le macchine sono un unico grumo di polvere. Dentro e fuori.
La polizia del posto ci fa dormire nel piazzale di fronte alla caserma, ci dice che è il posto più sicuro.
Compriamo una tanica d’acqua e ci laviamo con i piedi nella polvere.
Apriamo le tende. Sono piene di terra e la mia si è spaccata e la devo tenere assieme legandola con delle cinghie.
Mangiamo ugali e sombe con i militari stanchi e mezzi ubriachi.
La mattina dopo salutiamo la nostra scorta e ci dirigiamo alla frontiera.
Passiamo la dogana, la polizia e l’immigrazione. Tutto in regola, superiamo la sbarra, il solito ponte e ci parcheggiamo di fronte agli uffici di dogana etiopi.
Da qui una strada ben asfaltata parte in direzione Addis Abeba.
Gli uffici sono ancora chiusi. Dovremo aspettare tre ore, anche a causa della differenza di fuso tra Kenia ed Etiopia.
Un ragazzo ci avvicina e ci spiega che se volessimo fare colazione lui ci può accompagnare e può cambiarci i soldi.
Accettiamo. Un ottimo caffè e due uova strapazzate ci danno il benvenuto in Etiopia.
Mentre chiacchieriamo con il nostro nuovo amico questo ci chiede se abbiamo i Carnet de Passage.
Noi rispondiamo di no e lui si rabbuia.
“Senza i Carnet non vi faranno passare, lo sapete?”
“Sì, sì lo sappiamo” gli rispondiamo con aria superiore.
Senza i Carnet non si passa da nessuna parte, ma noi fino ad ora, senza Carnet abbiamo attraversato la bellezza di 22 stati, dal Marocco al Sud Africa, dal Botswana al Kenia.
Finiamo di mangiare e ci dirigiamo agli uffici di dogana.
Dopo due ore di liti ed insulti due poliziotti ci accompagnano alle macchine, ci pregano di salire ed andarcene. Noi eseguiamo, giriamo le macchine in direzione Kenia e ripartiamo.

Non ci fanno passare. In Etiopia non si entra.
C’è la guerra.
Il governo di Addis Abeba ha chiuso quasi tutte le frontiere e le due rimaste aperte sono state private dell’autorità di rilasciare visti di ingresso. Per sicurezza, per non correre il rischio che qualche funzionario di dogana accetti denaro in cambio di un visto, tutti i timbri ed i moduli sono stati ritirati. Gli uffici sono in realtà vuoti di tutto.
Se vogliamo il visto l’unico modo è andare all’ambasciata etiope a Nairobi, mille chilometri più giù, mille chilometri indietro, mille chilometri di deserto.
Le nostre sfuriate prima e le preghiere poi non servono a niente. Nemmeno la promessa di forti somme serve a qualcosa.
Tornare a Nairobi e poi nuovamente qui in macchina, tra gasolio, campeggi, cibo e scorta armata ci verrà a costare qualcosa come settecento euro.
Cerchiamo di corrompere il capo della dogana. Arriviamo ad offrirgli cinquecento euro, una cifra assolutamente spropositata, enorme, mostruosa. Una cifra che per quanto ci riguarda metterà in crisi l’economia del nostro viaggio. Una cifra che per un doganiere etiope corrisponde a qualcosa come due anni di stipendio.
L’idea di dover tornare indietro ci fa impazzire dalla rabbia. Le macchine sono troppo provate, la strada troppo brutta.
Tiriamo fuori i cinquecento euro e li mostriamo al capo, a questo brillano gli occhi, gli viene quasi da piangere: “pensate che, se potessi, non li accetterei? Proprio non si può fare niente.”
Rientriamo in Kenia con la sconfitta che ci pesa addosso.
Facciamo un nuovo visto e ci sediamo sul cemento bollente del marciapiede a pensare come risolvere la situazione.
Tornare a Nairobi con due macchine è una follia, spenderemmo troppi soldi. Andarci con una macchina è un rischio e comunque, visto quanta strada ci aspetta prima di arrivare in Italia è una fatica che vorremmo risparmiare ai mezzi.
La soluzione che ci sembra la migliore è di trovare un passaggio ed andare a Nairobi senza macchine, fare i visti e ritornare su.
Ma trovare un passaggio qui non è così semplice. In più abbiamo fretta, una fretta non di minuti o di ore, ma una fretta che ormai dobbiamo misurare in giorni.
Domandando di quà e di là conosciamo un certo Alì che, dietro forte compenso ci può procurare un passaggio. Suo padre ci può portare a Nairobi e poi riportare qui, basta pagarlo.
La mattina dopo, all’alba partiamo.
Siamo seduti in tre sul sedile anteriore di un Toyota Pick Up. Alla guida un uomo di ottantatrè anni, il padre di Alì. Nurr ha ottantatrè anni, è vestito con una mimetica ed un cappellaccio da cow boy, è coperto da migliaia di rughe e non parla una parola di inglese.
Le nostre macchine sono chiuse ed al sicuro nel cortile di Nurr.
Il Toyota è stato caricato di un mucchio di roba, già che un familiare va a Nairobi, amici e parenti gli lasciano le liste della spesa e lo riempiono di cose da far avere a qualcuno lungo il percorso.
I nostri zaini sono fasciati in un telo militare e buttati sul cassone posteriore alla mercè della polvere.
Nurr conosce bene la strada e quindi guida pianissimo, lento come una lumaca, per non spaccare la macchina.
In più per dividere la spesa della scorta ci accodiamo ad un convoglio di camion che trasportano farina.
Impiegheremo quasi venti ore solo per arrivare a Isiolo.
La strada ci sembra ancora più lunga ed il deserto più desolato e caldo. Due giorni fa non avrei mai immaginato che nella vita sarei ripassato in questi posti ed oggi eccomi qui, nelle mani di un vecchietto che ripercorro la stessa strada e, se tutto va bene, tra una settimana passerò ancora di qui.
Venti ore, seduti in tre sul sedile di un Toyota, è un’esperienza quasi traumatica. Diego stà in mezzo, una gamba stesa verso di me ed una appoggiata alla base del cambio, la schiena dritta ed irrigidita nel tentativo di non crollare addosso al vecchio Nurr ad ogni sobbalzo.
Io aggrappato alla portiera ed al cruscotto per non scivolare in basso a causa delle vibrazioni. Crampi, mal di schiena e negli occhi quel maledetto ed infernale deserto piatto.
Nurr conosce i posti. È armato di pistola, il pianale del suo pick up è chiuso in una gabbia di ferro con tanto di porta e lucchetti. Il Toyota, vecchio e asfittico ha due serbatoi, così non saremo obbligati a fermarci a fare gasolio.
Non ci fermiamo mai. Solo ogni tre-quattro ore Nurr si ferma, indica il suo inguine e poi indica noi. Traduzione “Volete fare pipì?”
E così ci troviamo lì. In mezzo al deserto, dove l’unico rumore è il vento, Nurr, ottantatrè anni, Diego trentatrè ed io trentaquattro, piazzati in riga e sottovento che facciamo la pipì osservando la pianura che si perde lontana.

Nel tardo pomeriggio Nurr, con il dito, indica di fronte a noi, in alto sulla strada. Più avanti ci dev’essere una carogna perché gli avvoltoi compiono i loro giri sempre più stretti e sempre nello stesso punto.
Lontano vediamo qualcosa a terra con una decina di figure nere che si danno da fare li attorno.
Superiamo il corpo di una iena, mezzo dilaniato spolpato.
Al nostro arrivo gli avvoltoi infastiditi si alzano in volo sollevando nuvole di polvere, ma non vanno lontano, restano su nel cielo ad aspettare che noi si passi oltre.
Gli avvoltoi stanno facendo alla iena quello che lei di solito fa agli altri animali, ne stanno mangiando i resti morti, ne stanno facendo a pezzi il cadavere steso al sole.
Mentre passiamo guardo il corpo della bestia, il pelo bello, maculato e lucido e coperto di polvere e la pozza di sangue piena delle impronte degli avvoltoi. Passiamo oltre, lentamente come in una scena al rallentatore. Un minuto dopo mi volto e vedo gli avvoltoi che scendono a finire la loro cena.
Questa notte dormiremo a Isiolo, solo poche ore. Domani in mattinata dobbiamo essere all’ambasciata dell’Etiopia a Nairobi a richiedere i visti.
Dover tornare indietro mi ha fiaccato l’anima ed il corpo.
Anche Diego appare più stanco e meno motivato.
La notte scende ed io, pur stanchissimo non riesco a dormire.
Non sono più così sicuro che riusciremo ad arrivare in Europa con le macchine. Sono stanco, sono addolorato dalla mia stanchezza. Prego per avere le forze di continuare questo assurdo ed allucinante viaggio. Ma, anche se il fisico regge, è la mente che perde colpi, che si allenta, che non è più forte ed elastica come dovrebbe.

Dopo giorni di polvere e deserto, di cibo freddo e birra bollente, dopo giorni passati in mezzo a persone disperate ed in continua lotta con l’ambiente in cui vivono, dopo giorni passati a vedere persone armate che cercano di difendersi da altre persone armate, che cercano di difendere con la vita un camion di farina ed una lingua di terra arida e polverosa, dopo notti sudate di zanzare, mi addormento sognando di sedermi in un ristorante fresco, vestito di abiti puliti e pronto a buttare giù una birra ghiacciata.
Nairobi aspettami che ti mangio e ti bevo, come quegli avvoltoi facevano con quella iena…



Don’t kill your trip!

Siamo nella lussuosissima villa di Mohamed Osman. Ce ne stiamo seduti a bordo piscina a guardare le acque della cascata che precipitano dalle rocce che sovrastano la casa. Un inserviente ci porta caffè turco e biscotti somali.
Mohamed è molto molto ricco, è nipote di Nurr e come lui è di origini somale ed è migrato a Nairobi nei primissimi anni ottanta. Come lui stesso ci racconta è arrivato in città da Moyale con una mano davanti ed una dietro, vestito di stracci. Ha lavorato e commerciato, si è inserito nei giri giusti, è entrato nel progetto Food for Oil, è volato in Iraq e ne è tornato carico di soldi, di quadri e pure con una moglie, giovane e dolce. Mohamed è molto fiero di farci visitare la sua lussuosissima villa, ci mostra le foto dei suoi viaggi e dice di invidiarci molto poiché un viaggio come il nostro è il suo sogno. Il lavoro lo occupa troppo ma sta già allestendo un mezzo per tentare una transafricana con moglie e figlio. Tutte le sue conoscenze non sono bastate a trovare una soluzione al nostro problema. L’ambasciata etiope non ci rilascia i visti perché non abbiamo il carnet de passage.
Mohamed continua a ripeterci “Don’t kill your trip! Please. Don’t kill your trip”. Nei due giorni che passiamo assieme tra conoscenze di vario tipo, uffici consolari ed ambasciate, non fa altro che ripeterci di non mollare, di fare in modo che il nostro viaggio non finisca qui. Ma alla fine nemmeno lui ha una soluzione. L’unica via che porta a nord passa per Moyale, per l’Etiopia. Abbiamo studiato percorsi alternativi ma tutti sono poi risultati impossibili. Nemmeno le sfuriate di Diego in ambasciata sono servite a niente, gli impiegati hanno chiamato la polizia per calmarci e siamo stati educatamente accompagnati fuori, tutto qui. Niente visto e niente carnet.
Mohamed ci scarrozza in giro per Nairobi a bordo del suo chilometrico Mercedes, andiamo da uno e dall’altro ma alla fine nessuno ci può aiutare. Nemmeno lui ci può credere.
Mohamed ci saluta dal cancello della sua villa tenendo in braccio il suo piccolo figlio. Abbracciamo la moglie e ci scambiamo una stretta di mano, forte e generosa, roba da uomini e ci facciamo la promessa reciproca di rincontrarci, al nostro prossimo viaggio o quando finalmente lui con tutta la famiglia riusciranno ad arrivare in Europa via terra. Noi partiamo ed il cancello elettrico si chiude.
Non rivedremo mai più Mohamed, morirà tre mesi dopo in un incidente stradale senza essere riuscito a coronare il suo sogno transcontinentale.
La mattina all’alba ci incontriamo con Nurr e saltiamo sul suo Toyota pronti a ripercorrere l’infernale strada che porta a Moyale.
L’uscita dal centro cittadino di Nairobi comporta decine di soste dove Nurr riempie il Toyota all’inverosimile. Sacchi di riso e farina, un forno, un televisore, decine di scope e patate e taniche di acqua.
Arriviamo a Isiolo all’imbrunire. Nurr fa una “sosta pipì”. Scendiamo a fare pipì e a sgranchirci le gambe. Sono ormai dodici ore che, tra una sosta e un carico, non scendiamo dalla macchina. Nurr ci guarda, noi pensiamo che sia stanco morto e che voglia trovare un posto dove dormire.
“We go ok?” ci dice in inglese stentato ma con decisione.
“Ok” rispondiamo all’unisono io e Diego. Senza pensarci.
Ripartiamo, arriviamo alla sbarra che chiude la strada e che separa la città dal deserto. I militari di guardia non vogliono farci passare senza la scorta armata e soprattutto non vogliono che si esca dalla città con il buio.
Nurr contratta per dieci minuti e poi, con pochi spiccioli compra il consenso dei militari a lasciarci andare.
Partiamo nella notte lungo la pista polverosa.
Il vecchio arresta il Toyota in mezzo alle tenebre, scende, prende dal cruscotto una pistola, la carica e se la infila alla cintola, “For the bandits” dice senza accennare ad un sorriso.
Ecco qua. Adesso non riesco a dormire, non sono abituato a dover andare in giro armato per difesa. In più il Toyota è carico di ogni ben di Dio e quindi un bersaglio appetibile per i banditi.
Più volte nella notte qualcuno esce dalla savana e ci fa segno di fermarci. Nurr non si volta nemmeno e tira dritto.
I fari illuminano quel po’ di strada che basta a scansare le buche più brutte. Ci muoviamo alla velocità di una tartaruga. Nurr guida piano per preservare le balestre schiacciate dal folle carico.
In piena notte facciamo sosta in un villaggio dove il vecchio contratta e acquista cinquanta scopette.
Io non ce la faccio più. Sono almeno diciotto ore che viaggiamo, schiacciati e scomodi. Vado nel retro del Toyota, ingabbiato come una cocorita mi sdraio sui sacchi di riso e mi copro con sacchi di farina e scopette.
Fa freddo, la polvere mi si deposita addosso in strati sempre più spessi. Le parti del mio corpo che non sono coperte dai sacchi mi si intirizziscono per il freddo. È buio e la gabbia che chiude il cassone produce un rumore infernale. Nonostante tutto mi addormento cullato dalle dolci scomodità del viaggiare.
Sdraiato in modo scomposto in quel cassone, mentre guardo la bassa vegetazione illuminata dai fari che scorre lentamente al mio fianco, mi sento bene. È una sensazione piacevole, essere trasportati tra i pericoli, verso l’ignoto in una terra straniera e lontana. Stiamo viaggiando. Questo conta, quella malattia che ci perseguita ha solo una cura e la cura è questa. Questa notte la cura è costituita da un Toyota scassato ed il dottore che ce la somministra si chiama Nurr ed ha ottantatrè anni.
Dormo un sonno lungo un’ora, ricco di sogni fatti di polvere e di assalti da parte dei banditi.
Diego e Nurr, chiusi nella cabina davanti non se ne accorgono ma spesso, al nostro passaggio qualcuno salta fuori dai cespugli e corre nel buio di fianco alla nostra macchina, si aggrappa alle inferiate e cerca di dare una sbirciata dentro. Ogni tanto qualcuno si appende alla gabbia, forse per cercare di entrare. Io ho la mia Mag Lite, la accendo un secondo e la spengo, questo serve a far desistere i poveri ed improvvisati banditi.
Il mio sonno viene interrotto più volte da questi deboli assalti ed alla fine mi sveglio del tutto quando, in mezzo al nulla più assoluto la macchina si ferma ed anche quel misero fascio di luce prodotto dai fari viene meno, inghiottito dalle tenebre.
Non riesco a vedere cosa succede, sento che qualcuno si avvicina al furgone, qualcuno cerca di guardare dentro. Io stò fermo ed immobile con la barra della mia Mag Lite pronta all’uso.
Poi sento Nurr che parla, discute, scende dalla macchina ed alla fine, viene nel retro, apre la porticina della gabbia e carica un altro centinaio di scopette.
Ripartiamo nell’oscurità.
Adesso per coprirmi posso usare anche la paglia delle scope, qualcuna la uso da cuscino e mi godo un’altra ora di sonno.
Manca ancora un’ora all’alba quando veniamo fermati ad un posto di blocco.
Qui il perentorio ordine che non possiamo proseguire senza la scorta armata di almeno due militari.
Nurr, malvolentieri accetta a bordo i due soldati armati di fucile, mitra e lanciagranate.
Io passo davanti con Diego ed i due militari si appostano sul retro piazzati in modo da poter far fuoco in caso di bisogno. Si mettono bene in vista così da essere ben visibili agli eventuali banditi. Normalmente la sola presenza dei militari basta ad evitare di essere attaccati.
Ma questa pare essere una notte speciale, ci sono stati parecchi scontri a fuoco tra banditi, pastori e bande di ribelli, ci sono stati dei morti ed uno di questi proprio poche centinaia di metri più avanti, era l’autista di un camion che è stato assaltato.
Viaggiamo scomodi e tesi.
All’alba, dopo ventidue ore di guida ininterrotta ci fermiamo di fronte ad una cadente costruzione. Scendiamo tutti e cinque ed entriamo.
Il posto ha l’aspetto di una costruzione abbandonata dopo un terremoto, in realtà è una specie di locanda.
Nurr ordina per noi.
Poco dopo ci arriva una bibita gasata così dolce e zuccherata da far cariare i denti all’istante.
Un ragazzo giovane apparecchia la tavola: una ciotola di sale, un tagliere di legno ed un coltellaccio di trenta centimetri. Un enorme blocco di capra bollita viene depositato sul tagliere. Nurr lo riduce a piccoli pezzetti e poi, finalmente si mangia.
Ragazzi che colazione, sono più di venti ore che non tocchiamo cibo. I pezzetti di capra si mangiano con le mani, ne prendi uno alla volta e lo tocchi nel sale, unico e prelibato condimento a disposizione.
In cinque minuti ci pappiamo tutto, pelle, grasso e nervi compresi. Prima di andare via Diego succhia e spolpa le ossa che restano sul tagliere. Noto che questo gesto è molto apprezzato dai commensali che felici vanno a lavarsi le mani in una tinozza. L’acqua del secchio si è ormai trasformata in una brodaglia, comunque anche noi ci sciacquiamo mani e bocca.
Si riparte, il sole è già alto e, nel primo pomeriggio siamo a Moyale, sani e salvi.
Nurr, ottantatrè anni, asciugato e incartapecorito da un’esistenza passata nel deserto, ha guidato trentuno ore senza fermarsi, armato e con il fuoristrada carico. Ha scansato migliaia di buche e schiacciato decine di bestie, schivato massi e caricato scopette. Dice di essere un tantino stanco, dice che prima di cena andrà a fare un riposino.
Noi non abbiamo tempo di fare niente. Siamo morti, dobbiamo riorganizzare le macchine, andare al comando di polizia e procurarci una scorta per l’indomani.
Passiamo la serata nel caotico e polveroso cortile di Nurr. Siamo rimasti soli, nessuno ci ha invitato a cena. Mangiamo una scatoletta di tonno e vediamo che intanto i servi della famiglia del vecchio passano su e giù con la cena per i padroni.
Una bimba, di si e no dieci anni, esce dalla cucina e ci porta qualche focaccetta di mais. Lei, più povera di chiunque ci vede affamati e ci porta da mangiare. Ci porge la ciotola di focaccette con un sorriso e poi corre via, dietro ad un muro a spiarci. Andrò a dormire con le lacrime agli occhi.
Passiamo una notte disturbata dal continuo canto dei muezzin.
La mattina saliamo sui nostri Defender e ripartiamo, ancora una volta in direzione Nairobi. Questa follia non finisce mai.
A bordo con noi due militari, uno per macchina,armati di tutto punto e nervosi. Durante la notte le tensioni lungo il percorso sono state alte, pare che gli scontri abbiano imperversato tutti e due i giorni precedenti.
Di nuovo alla guida su queste folli strade che fanno a pezzi la schiena e le macchine.
Guidiamo un’ora e poi, ad un posto di blocco veniamo fermati.
Gli uomini che ci scortano prendono accordi: non possiamo proseguire da soli, più avanti si stà sparando, bande di banditi imperversano innervosite dai casini successi nella notte.
Si riparte dopo due ore di attesa. Ci muoviamo assieme ad un fuoristrada pieno di militari che apre la strada, in mezzo noi, due camion carichi di farina e dietro a chiudere altri mezzi militari.
In realtà poi si viaggia da soli, ognuno va alla sua velocità, l’importante é che qualcuno apra e qualcuno chiuda la colonna.
Siamo a metà strada, in mezzo al deserto quando il Defender dell’esercito che viaggia qualche chilometro davanti a noi si ferma d’improvviso.
Lo raggiungiamo.
Un colpo di fucile ha sfondato il parabrezza, proprio all’altezza della fronte dell’autista. Il proiettile ha continuato la sua corsa e si è conficcato nella lamiera della carrozzeria.
I militari se la ridono, ridono del fatto che l’autista sia ancora vivo solo perché di statura molto piccola e quindi il proiettile gli è passato sopra senza colpirlo. Ride anche lui.
Io non rido, sono nervoso e spaventato. Qui ci sparano.
Ripartiamo e adesso, dopo l’attacco i militari di scorta hanno adottato una nuova strategia: ogni mezz’ora ci fermiamo, scendiamo dalle macchine e loro sparano un intero caricatore nel vuoto, “Per farci sentire, per tenerli alla larga, per far capire che non scherziamo, che i proiettili li abbiamo in abbondanza.”
Bene, la giornata passa attraverso questa follia. Un deserto caldo, piatto, asfissiante. Militari che sparano nel vuoto ogni mezz’ora e noi che li stiamo a guardare allibiti.
Qui la gente si spara, si odia e si uccide per il predominio su una striscia di terra arsa dal sole, spietata e desolata. Come al solito i poveracci si uccidono per una manciata di niente e qualche sporca idea messa loro nelle teste dai governanti che preferiscono che i confini siano insicuri ed i collegamenti tra le città quasi impossibili.
“Dividi et impera” come diceva il buon Giulio.
Qui hanno imparato la lezione alla perfezione.
Se sei di Moyale stattene a Moyale e non rompere!
Mentre procediamo a sud incrociamo decine di mezzi blindati, fuoristrada e carri armati dell’esercito che ci chiedono informazioni sulla situazione. Vanno al nord, “a calmare le acque” dicono.
Bene, noi andiamo verso sud e, mi sa che di qui per un bel po’ non ci passeremo più.
I camion militari sono pieni di ragazzi in assetto da guerra, hanno le facce rassegnate e stanche, sono un esercito mal pagato, pronto ad intervenire in un deserto del quale non frega niente a nessuno.
A notte inoltrata arriviamo alla sbarra di accesso ad Isiolo.
I militari corrono ad aprirci.
Passiamo la notte in paese ed il pomeriggio seguente siamo di nuovo a Nairobi, all’Upper Hill Camp Site che, seduti su un divano, ci beviamo una Coca Cola rigenerante.
Domani andremo ancora in ambasciata a giocarci l’ultima carta per tentare di entrare in Etiopia. Un ultimo tentativo, abbiamo appuntamento con il resposabile dei carnet.
Ma lo sento, lo sente anche Diego, non so perché ma ormai ne siamo convinti. Il nostro viaggio è finito. È morto definitivamente quando, nella notte, i militari ci hanno lasciato entrare ad Isiolo strappandoci al deserto, al suo calore ed alle sue miserie.




Un lento rientro.
Nairobi, Mombasa, Il Cairo.


“Mi dispiace ma le regole sono regole”
“Ma un mese fa le regole erano diverse”
“Possibile ma non necessario, comunque in questo momento le regole sono queste ed io sono qui per farle rispettare.”
“Ma guardi che per noi è un grossissimo problema non poter transitare per l’Etiopia”
“Mi dispiace ma il problema è vostro e non mio. Se voi aveste i Carnet potremmo anche discutere, sono qui per questo.”
“Discutere di cosa? Se avessimo i carnet non saremmo nemmeno qui, avremmo fatto tutto allo sportello.”
“Non è vero neanche questo, magari anche con i Carnet non sareste potuti entrare.”
“E le regole? Dove le mettiamo?”
“Le regole sono molte, molti i modi di interpretarle ed usarle e poi ci sono tanti fattori da considerare, capite che in Etiopia c’è la guerra, durante la guerra le regole cambiano, come gli uomini del resto.”
“Guardi che non siamo qui a fare della filosofia.”
“Per quanto mi riguarda siete qui a far niente. Se volete potete pure accomodarvi fuori dall’uffici.”
“Senta, siamo qui per ragionare, noi abbiamo assoluto bisogno di transitare per l’Etiopia, anche un permesso di soli tre giorni ci basterebbe”
“A parte che ve ne occorrerebbero almeno dieci per fare tutta quella strada e per procurarvi i documenti per il Sudan e, d’altra parte, comunque sia, vi assicuro e vi ripeto che in questo ufficio state solo perdendo il vostro tempo. Diciamo che mi dispiace e arrivederci.”

Il funzionario in completo blu si alza, va alla porta, la apre ed attende che noi usciamo.
E noi usciamo; bruscamente e lamentandoci ad alta voce, io addirittura cerco di sfiorare l’uomo alla porta nella folle speranza di scontrarlo.
Poco dopo siamo di nuovo in strada, alle nostre spalle il cancello in ferro dell’ambasciata viene chiuso a chiave.
Il quartiere delle ambasciate è triste ed anonimo. Edifici chiusi da alte recinzioni e sbarrati da pesanti cancelli.
Piccole aiuole d’erba costeggiano i bordi della strada, una strada peraltro asfaltata all’africana, ovvero piena di pezze, buchi, rattoppi e dossi.
Camminiamo sotto al sole in cerca di un taxi.
“Guarda Diego, io non ne posso davvero più, mi sono rotto, sono stanco. Sono almeno venti giorni che ci scorniamo per entrare in questa cavolo di Etiopia.
Su e giù per quel maledetto deserto, dentro e fuori dalle ambasciate a farci trattare male se non addirittura a farci arrestare.
Non parliamo poi dei soldi che stiamo spendendo in questa follia. Ormai è tardi, dobbiamo desistere, andare o a Mombasa o a Dar Es-Salaam in Tanzania ed imbarcare le macchine.
Ormai è andata.
Non abbiamo né tempo né denaro per continuare.”
“Lo so, lo so benissimo, hai ragione, solo che io non volevo dirlo, veramente non volevo nemmeno pensarci al fatto di mollare tutto e rientrare. Se non possiamo fare altrimenti amen. Torneremo, raggiungeremo quella maledetta Moyale arrivando dal Mediterraneo, lo faremo tra un anno o due ma chiuderemo il cerchio.
Comunque sia la cosa più importante è stata fatta, abbiamo raggiunto la missione, abbiamo incontrato suor Franca e consegnato i soldi, abbiamo preso informazioni e scattato fotografie ad Irambo. Da solo, l’arrivo ad Irambo è valso due anni di viaggi.
Torneremo, torneremo ad Irambo arrivando da nord, ci organizzeremo ancora una volta, troveremo i fondi. Niente deve essere perduto.”
Prima di trovare un taxi che ci riporti all’Upper Hill camminiamo almeno mezz’ora, a testa bassa ed in silenzio. La stanchezza degli ultimi due anni, fatti di preparativi e di sette mesi di viaggiare ininterrotto, ci piomba addosso tutta assieme. È come allentare la tensione, lasciarsi andare ad un riposo tranquillo e rilassato.

La decisione ormai è presa, si rientra in Italia, dopo tre mesi dobbiamo metterci in mente che la questione è chiusa.
E comunque non è così semplice. Bisogna sentire la Messina Lines se e quando hanno delle navi disponibili, dobbiamo incontrare i funzionari della compagnia navale, probabilmente a Mombasa, bisognerà imbarcare le auto; container, documenti e tutto il resto.
Trovarci un volo, far coincidere le date, insomma, non è per niente facile ed in più richiederà un sacco di tempo, non meno di quindici giorni.
Domani arriveranno di nuovo le ragazze in città, dove si fermeranno un giorno per prendere il volo per l’Italia. Meno male, almeno passeremo ancora una bella giornata, poi sarà il solito guazzabuglio di documenti e spostamenti e controlli e liti con funzionari che chiedono mancette.

La mattina dopo andiamo a prendere le ragazze e ne approfittiamo per fare un giro in una specie di piccolo parco fuori Nairobi, dove si vedono le giraffe libere con sfondo di grattacieli ed i bufali che brucano con contorno di township. Sembra di essere in uno zoo ed i parchi del Botswana paiono sbiaditi nel ricordo e lontani mille anni luce.
Neri travestiti da Masai vendono souvenir all’entrata e Masai travestiti da neri fanno i guardiani. Strade in cemento e belvedere in legno. Tutto è finto, tutto è a misura di turista.
Meglio tagliare la corda.

Salutiamo le ragazze per la terza volta, le accompagniamo in aeroporto la mattina presto e lo stesso giorno partiamo anche noi, per Mombasa.
Questa volta sono loro a partire per il nord e noi verso sud.
Il resto è storia senza storia.
Passiamo vari giorni a Mombasa e dintorni mentre espletiamo le pratiche per l’imbarco delle auto.
Tra un permesso e l’altro riusciamo a passare anche qualche giorno al mare.
Messe le macchine nel container torniamo a Nairobi in autobus.
Il giorno dopo siamo già in volo ma, visto che l’aereo fa tappa al Cairo, decidiamo di farci un bello stop over di qualche giorno.
Passiamo dieci giorni al Cairo, tra fumate di tabacco aromatico e visite al museo egizio. Andiamo a visitare le piramidi e a fotografare la sfinge. Tutto a posto, tutto tranquillo.
La millenaria cultura dei faraoni riesce ancora ad impressionare la mente e lo spirito. Tanto profonde e lontane nel tempo sono le fondamenta delle piramidi, quanto sozzi e confusionari i vicoli della città moderna.
La prima volta che vedo le piramidi le vedo dal cielo, quelle della piana di Giza, confine tra valle del Nilo e deserto, sono un disegno divino messo in pratica dall’uomo, sono il simbolo eterno del nostro passaggio sulla terra.
Quando le vedo da vicino e ci entro dentro non riesco più a capire se la nostra tecnologia sia andata avanti o si sia fermata tremila anni fa. Niente di così grande e perfetto nel tempo è mai stato fatto e mai più sarà fatto. Attorno a me Il Cairo mi riporta alla realtà, fatta di catapecchie e di palazzi dai finti splendori.
Il Cairo, come tutta l’Africa del nord è una buona tappa intermedia dove sostare durante il rientro dall’Africa Nera, una zona di acclimatamento, non ancora Europa ma nemmeno Africa. L’Egitto, la nostra camera di decompressione. Il rischio al rientro in Italia è lo stesso che corrono i pesci che vengono pescati ad enormi profondità, quando arrivano in superficie esplodono a causa delle loro tensioni interne.
Dopo mesi passati a viaggiare in una terra così ricca di sensazioni ed emozioni, il rientro può essere molto pericoloso, la depressione arriverà puntuale come il famoso “orologio svizzero”.

L’occhio si abitua a guardare spazi quasi infiniti, comunque sempre immensi.
Il corpo si abitua a muoversi libero in ogni sua forma e direzione.
I sensi si abituano a nuotare immersi in un caleidoscopio di colori, suoni ed odori talmente variegato da far girare la testa.
L’anima si abitua a vivere situazioni di estrema disperazione e dolore che in pochi minuti si trasformano in meraviglia e gioia.
Il giorno che rientriamo alla Malpensa piove.
I panorami si rimpiccioliscono immensamente, in ogni direzione in cui l’occhio possa guardare, nuovi, vecchi ed antichi ostacoli ne impediscono la libertà, ne castrano la profondità.
Il corpo si trova costretto in abiti pesanti e belli, in vetture quasi pressurizzate ed in una continua lontananza dagli altri corpi, separati da esso da un mare di storia e discutibile eleganza.
Gli odori si uniformano in un unico grande vortice che vive solo delle mille sfumature della chimica moderna. Svaniscono le vette dei profumi da paradiso terrestre e le profonde gole delle puzze infernali, per lasciare spazio ad una regione olfattiva piatta ed inconsistente come la pianura che stiamo attraversando.
L’anima perde velocemente la tonicità raggiunta in mesi di duro lavoro e di soave riposo, si affloscia mollemente in un’ occupazione fatta di piccole speranze e di vani tentativi di resurrezione, tanto lontana dalla morte quanto dalla vita. L’anima torna ad essere un apparato malfunzionante, che morte e disgrazie riusciranno a cogliere sempre impreparata ed impaurita, atterrita ed incapace di risollevare il capo dopo la tempesta.

Da Milano a casa ci sono due ore, circa duecento chilometri, li percorriamo come razzi a bordo di una BMW nuova.
Tutto fila liscio, tutto funziona, la strada è perfetta, le case pulite. Guard-rail luccicanti come gioielli, corsie di emergenza, colonnine dell’sos, solo vetture nuove e brillanti che sfrecciano da tutte le parti. L’aria che respiro mi punge il naso e mi dà fastidio alla gola come se fosse troppo sottile e misera per essere respirata, è come bere acqua distillata da un bicchiere d’acciaio. È un’aria grigia che sa di malattia e di medicinale messi assieme.
Macchine nuovissime, camion perfettamente puliti, migliaia di occhiali da sole.
Ci sentiamo fuori posto più che mai.
Io mi guardo le mani e vedo che sotto le unghie ho ancora un filo di terra rossa, guardo il grigio fuori dal finestrino e penso al primo elefante che ho visto nella mia vita, mi si bagnano gli occhi, era milioni di chilometri prima di adesso.

Ora che sono di nuovo a casa gli elefanti torneranno ad essere i protagonisti di una favola o di un incubo notturno, torneranno ad essere impossibili sogni di bambino.




Testi e immagini di Luca Oddera
Disegni di Filip Stancu
Grafiche di Diego Assandri
Foto di copertina gentilmente concessa dalle suore Rossello di Bukavu











  • Copertina flessibile: 160 pagine
  • Editore: Ass. Amici del Sassello (31 dicembre 2007)
  • Collana: Narrativa
  • Lingua: Italiano
  • ISBN-10: 8890078030
  • ISBN-13: 978-8890078033