IL CONOGLIO GIGANTE CAMBIA COLORE

IL CONIGLIO GIGANTE PUO' CAMBIARE COLORE




Nota: questo è un "viaggio", anzi un libro di viaggio.  Il viaggio si snoda verso sud. Il viaggio comincia nel Basso Egitto e precisamente ad Alessandria, si, quella della biblioteca, sarà un caso?  
Attraverso Egitto, Sudan, Ethiopia, Kenia, Uganda, Congo D.R.C., Rwanda, Tanzania e poi si arena in Malawi. Perchè in Malawi? Perchè ci siamo fermati a vivere qui da ormai parecchi anni.
Quindi la trama, se una trama c'è, si perde a questo punto in mille rivoli, fiumiciattoli e torrenti, proprio come fanno alcuni grandi fiumi africani. Il "Viaggio" continua, non finisce, proprio come spero succeda a questo libro, in continua stesura.  
Buona lettura.
Luca Oddera

1

"PAURA DEL BUIO" ED ALTRI NOMI
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello

Quando l'uomo solitario si perse per la giungla le scimmie gli dissero che faceva ridere.
Passo dopo passo le sgorbie figurine lo seguivano saltellando di ramo in ramo lanciando striduli versi e mimando gesti osceni.
"Torna nel tuo appagamento" gli gridavano dai rami più alti, "tornatene in città 'paura del buio'." 
Così lo chiamavano. 
"Paura del buio" era il suo nome da quando era entrato nella foresta.
Le scimmie lo chiamavano "Paura del buio", i coccodrilli "Paura delle Profondità", i pesci gatto "Paura dell'acqua", l'ippopotamo lo redarguiva dalla riva: "Non provare ad avvicinarti al fiume "Paura della tua ombra", altrimenti ti stritolo come un rametto"
"Paura del cibo" lo chiamavano le donne e "Paura delle donne" lo chiamavano gli uomini.
L'uomo solitario continuava a camminare chiedendosi perché tanti nomi per un uomo solo, ma la sua mente, impegnata a leggere tutto quel verde, quel marrone, quei colori che dominavano creature, esseri umani, terra e piante, non riusciva a darsi risposta.
Camminando per i sentieri fatti dagli uomini, sgusciando lungo le piste fatte dagli animali, insinuandosi nelle intercapedini tra le casette di paglia e fango, l'uomo solitario, si rivolgeva alla gente ed alle bestie chiamandole tutte con un solo nome.
"Paura di me" le chiamava, tutte, nessuna esclusa, persone e bestie si contorcevano dal dolore ogni volta che lui le chiamava così. 
Dove passava lasciava una scia interminabile di dolore, di sogni infranti, di rabbia, di sconfitta, di potere corrotto che mai arrivava al suo culmine.
Dall'alto di qualche lieve collina, osservando ampi tratti di foresta, si compiaceva, qualche volta, del suo potere, immenso ma provvisorio, un potere che scemava ogni qual volta la luce si abbassava lasciando spazio alle bestie della notte, agli uomini invisibili, a coloro ai quali, nelle tenebre, basta chiudere gli occhi per scomparire alla vista. 
Lui, così luminoso e potente restava inerme ed inerte come una radice bianca, in attesa che il giorno tornasse.
L'uomo delle notte chiude la bocca, serra gli occhi e scompare alla vista di chi non ha naso per sentire il sospiro delle cose che non si vedono.

Tanta acqua che nessuno poteva immaginare scendeva dal cielo. 
Lungo un pianeta che ha nome Fiume scorrono le vite di tante persone che nessuno conoscerà mai, persone che vivono in un pianeta che non è una sfera, non è un sasso, ma una lunga discesa con cataratte che rompono la monotonia della quieta distesa in movimento.
L'uomo che camminava da solo si addormentava ogni sera con il cuore in gola e si svegliava ogni mattina con il gusto della notte in bocca.

Continuare a camminare.





2

LUNGHEZZA VARIABILE DEI CHILOMETRI
 E CONIGLIO BIANCO
di Luca Oddera

La cosa più strana che abbiamo visto, incontrato, incrociato, nella quale ci siamo imbattuti, in questo strano viaggio, è stato il coniglio gigante.

La strada è lunga, liscia ma lunghissima, scorre veloce e ogni km fatto è un km in meno. Però è anche vero che ogni km fatto è un km in più sulla schiena. 
I primissimi km sono lunghi poco più di cento metri mentre si distendono mano a mano che si avanza.
Può capitare, di solito mesi dopo essere partiti, che ci si imbatta in km lunghi otto novemila metri.
Stranamente la lunghezza variabile dei km non dipende dal tracciato delle strade, dal fondo stradale , dal traffico o dalle condizioni meteorologiche. Sono proprio i km che non hanno una lunghezza fissa e questa lunghezza oltre ad essere differente per ogni km è anche variabile a seconda del senso in cui si percorre la strada e del periodo o addirittura dell'orario.
In somma, la strada è come un lungo elastico stropicciato, teso, rilasciato, teso di nuovo e ancora rilasciato, all'infinito. Intanto tu ci corri sopra. 
L'albero si avvicina, sempre di più, poi passa. poi ritorna, si allontana, poi si avvicina di nuovo e poi scompare; a volte per sempre, a volte per un pò. Magari un giorno ritorni e l'albero è di nuovo li, magari invece lo ritrovi, proprio lo stesso, mille chilometri più avanti. Quando succede ti domandi che cosa stia capitando, ti scervelli per qualche minuto ma poi pensi ad altro perché l'albero è scomparso un'altra volta.
La cosa si ripete all'infinito per un numero preciso di volte ed il rapporto che intercorre tra l'infinito numero di volte che vedi l'albero ed il numero effettivo di quell'albero dipende in modo direttamente proporzionale dalla lunghezza del viaggio che stai facendo.
A complicare le cose ci si mette anche il fatto che il nostro pianeta è si ricco di alberi ma contiene anche una moltitudine, finita questa volta, di altre cose.
Così succede che ciò che accade con l'albero lungo la strada si verifica anche quando si incontrano: città, paesi, villaggi, agglomerati di baracche, campi UN, campi tendati, abbaraccamenti di cantiere, fabbriche, negozi, case, ospedali, caselli, scuole e chiese, (le scuole e le chiese sono in numero immensamente più infinito di ogni altra cosa e spesso indistinguibili le une dalle altre), caserme, accampamenti militari, tende, case crollate e case in costruzione, uomini, donne, bambini, vecchi, ragazzi, pazzi, militari, predoni, guerrieri, ribelli, banditi, disperati, suore, preti, macellai e calzolai, leoni, gazzelle, elefanti, facoceri, ippopotami, coccodrilli, aquile, serpenti, passeri, ragni, api, bufali, zebre, piscine, laghetti, torrenti, mari, fiumi, montagne, vallette, canyon, pianure, deserti, vulcani, piramidi, foreste , nevai, spianate, paludi, burroni, scogliere, laghi grandi come nazioni e nazioni grandi come laghi, colate laviche, marcite, campi coltivati, serre, campi abbandonati, saline, prigioni, ponti, scorciatoie, guadi, superstrade, sottopassi, viadotti, rampe, deviazioni, sentieri, piste, sabbia, terra, fango, foglie, erba, tronchi, cemento, asfalto…
...così non resta molto tempo per pensare all'albero che scompare e poi si ripresenta.

Però quando incontri il coniglio gigante resti contraddetto per un istante. Poi, avvicinandoti, ti rendi conto che è ancora più grande di quanto non sembrasse da lontano.
Le persone attorno non ci fanno molto caso e lui zampetta via per inoltrarsi nella savana, zampetta lasciando impronte grandi come un pullmino.
La vegetazione si apre ed il coniglio gigante scompare lontano.
Ogni tanto anche lui riappare, ma presto ci fai l'abitudine, se non è in una bella posizione non lo stai nemmeno più a fotografare e nei momenti di noia cancelli le foto che non lo ritraggono al suo meglio.
Il coniglio gigante è più grande di un  ippopotamo, ma anche un pò più grande di un elefante. 
Se il coniglio gigante è vicino ad un TIR è più grande del TIR e se sta' mangiando erba dietro ad una scuola, è più grande della scuola. 
Il coniglio gigante è più o meno bianco ma non è mai bianco come le cose bianche che gli stanno attorno. 
Per esempio se è accanto ad una salina è abbastanza bianco ma se è vicino alle lenzuola appena stese è molto più bianco.

Il coniglio gigante non parla.
Il coniglio gigante ti guarda, ma non sempre. 
Il coniglio gigante non si annoia mai. 
Credo.




3

VITA QUOTIDANA NELLA FORESTA 
E PAZUZU NELLA TESTA
di Mpanzu Nimi
traduzione dal francese di Pierre-Yves Raoult

Le cime degli alberi della foresta, spesso, sono a cinquanta, sessanta metri dal suolo. A volte sono anche più vicine, raramente più lontane.
Non soffia quasi mai il vento, la calura si deposita come un telo e, assieme a qualche raggio di luce perfora la coltre verde e scende come un manto scuro puntellato da stelle di luce fino a raggiungere il suolo, fino ad incontrare uno sguardo alzato verso il cielo che non c'è, verso la vegetazione lassù, ricca di vita, cibo e acqua.
Il fuoco crepita umido ed i ratto cuoce con gli arti contratti. lo sguardo si abbassa sullo spiedo legnoso ed i piedi crepati e callosi cercano continuamente un punto di perfetto equilibrio che non troveranno mai.
Le mani dalle unghie ricurve modellano un legno puntuto, i capelli crespi sono cosparsi di mille goccioline di umido sudore.
Le grandi foglie si muovono sospinte dal calore del fuoco, si innalzano di qualche passo e poi cedendo e ridiscendono, in un continuo movimento.
Un gruppo di scimmie non viste osserva da lontano ed annusa l'odore acre del primo strato di carne che comincia a carbonizzarsi.
Una vecchia e semplice lama viene usata per ridurre il ratto in pezzetti più piccoli di una noce. 
L'animale fatto a bocconi viene deposto su una grande foglia verde smeraldo lavata con l'acqua di fiume.
L'uomo accucciato si guarda attorno circospetto ed estrae da sotto le strane vesti lacere un pacchetto di carta, lo apre e cosparge la carne con qualche pizzico di polvere di sale, poi ne rovescia un pò accanto al cibo facendone un mucchietto.
L'uomo rimette il sale sotto le vesti, si alza e scompare nel folto della foresta portando tra le mani la foglia imbandita come fosse un vassoio.
Il villaggio consiste in una decina di capanne disposte secondo un preciso schema socio-naturale, ovvero a seconda della posizione sociale di ogni  proprietario e delle asperità del terreno.
La radura è ampia e tutta bruciacchiata, cosparsa di residui vegetali.
L'uomo emerge dalla vegetazione con il suo bel vassoio tra le mani, si avvicina ad una capanna, mette la testa dentro ad un'apertura, strilla qualcosa e poi si siede su un tronco.
Pochi minuti dopo una quarantina di persone si è radunata attorno alla capanna.
Tutti chiacchierano ed assaggiano un boccone intingendolo nel sale.
La carne deve essere squisita, la gustano, la masticano e si leccano le labbra prima e le dita poi.
Molti ringraziano, qualcuno a parole altri con una pacca sulle spalle. Alcune donne dimostrano gratitudine accarezzando l'uomo.
Qualcuno, però, in disparte, guarda l'uomo con odio prima, con risentimento poi e con malizia, alla fine e si ritira nell'ombra.
Pazuzu sta' per uscire dalla foresta, quando scenderanno le tenebre uscirà dal folto degli alberi e si avvierà per la radura.
Pazuzu è stato chiamato al villaggio e la sua venuta non si farà attendere.
Scende la notte mentre gli stomaci digeriscono il pezzetto di carne; scende la notte mentre un ombra striscia fuori dagli alberi.





4

JEBEL BARKAL 
ED ALTRI POSTI MOLTO SIMILI
di Luca Oddera

Un vento leggero, arancione e giallo, allontana il fumo caldo della prima sigaretta della giornata lasciando un mondo limpido davanti ai miei occhi.
Il sole tiepido sta' sorgendo e la notte di rugiada sta' evaporando esile come un sogno.
I talloni sull'asfalto macinato, le punte dei piedi sulla sabbia rossa puntellata di stracciotti di plastica da sacchetto.
Le piramidi a gradino imitano la collina facendole il verso in modo imponente ed eterno.
L'indice sul tasto della macchina fotografica, la mano sinistra attorno all'obbiettivo.
Il sole fa capolino e la macchina fotografica si posa rapidamente sul cofano del fuoristrada.
Gli occhi si spalancano, la bocca trema e l'indice torna a scrollare la sigaretta.
Con solo uno o due colori a disposizione, preferisco non dipingere lo spettacolo che mi sta di fronte.
C'è la collina e ci sono le piramidi, c'è il sole che sorge rosso ed il cielo grigio e viola. Tutto il resto è già visto, già stato, già esistito nella memoria , nei disegni e nei racconti.
Nessun recinto, nessun biglietto, nessun turista esistono in questo spazio tra l'uomo e la natura.
Siamo di fronte allo spettacolo della creazione e tutto quello che abbiamo a disposizione per comprenderlo sono una manciata di minuti, un paio di mani ciascuno e due fuoristrada pronti a ripartire verso sud.
Prima che le ossa della terra, emerse dal deserto come vertebre fossilizzate, si trasformino in blocchi di pietra sfregiati da piccole mani ignoranti, ci spostiamo vicino alle macchine.
Prima che la collina lasci trasparire, attraverso l'aria tersa, i fili di un telefono rattrappito ed arcaico, saliamo in macchina.
Prima che gli uccelli del deserto si posino su un sacchetto di plastica traballante, mettiamo in moto.
Prima che sorga un sole capace di far dimenticare questi momenti, partiamo verso sud.
Prima, seconda, terza, quarta, quinta e nemmeno un'ultima occhiata, solo un'idea nella mente capace di suscitare da sola momenti millenari, capace di svegliare racconti sopiti come sentimenti di quando eri bambino. 
Un ricordo che è il ricordo di un racconto di mio nonno, un'immagine mai vista che è la mia ed insieme quella di mio nonno.
Piramide e collina è tutto quello che esiste in questo pezzo di mondo, un'immagine così potente che nessuna storia è mai stata capace di sminuire, di cancellare, di superare, di raccontare.





5

CHINATOWN 
E IL FANTASMINO BIANCO CON LE MUTANDE SPORCHE
di Luca Oddera

Sfrecciamo veloci e silenziosi su asfalto cinese liscio come un biliardo, nero come la notte.
Wadi Halfa-Kartoum: un' avventura.
"Quale strada ci consiglia di prendere?. questa che passa da…, quella di… oppure questa?"
"Quella che preferite, sono state asfaltate tutte e tre, questa qui è la più veloce e quella più interessante perché costeggia in parte il fiume."
Eccco qui, 3.000 km di asfalto spianati li in pochi mesi in cambio di cosa?
In cambio di un passato coloniale sconfitto, in cambio di un'autonomia finta come un trattore di plastica, in cambio di un cambio della guardia, in cambio di uno sguardo sottile al posto di uno sguardo blu, in cambio di un padrone freddo e calcolatore al posto di un padre severo e padrone.
Metri di asfalto, strisce infinite di asfalto che sono come corde che legano l'intero continente ad una sedia gialla capace di stringere ed allentare i nodi a suo piacimento.

Coltan, petrolio, uranio, cotone, oro, diamanti, bauxite, stagno, argento, frutta, tè, caffè, noci, avorio, gas naturale, legno, unghie e capelli in cambio di un motorino.

Scuole senza insegnanti, ospedali senza dottori e palazzi senza signori; motori senza benzina, collane di perle senza il filo, tubature senza acqua, in cambio di un cellulare senza credito.
Fabbriche senza operai, negozi senza commessi, cantieri senza sudore, in cambio di lampadine senza corrente.
Navi senza porto, benessere senza salute, cultura senza libri in cambio di ristoranti senza ingresso e quartieri senza vie di accesso.

Il serpente si snoda tra villaggi poveri come un sasso nel deserto. 
Il sentiero nero si inerpica su una collina, scende e se lo abbandoni per qualche metro, trovi un super albergo, nascosto dalle palme, una struttura che incassa milioni in Europa e lascia cadere scorza di arachidi negli immediati dintorni, con aria di sufficienza.
La masthaba si sta' disfacendo come un budino lasciando trasparire un'ossatura di rami ed un cuore di pietra, mentre i contorni del serpente nero si frastagliano in sabbia e farina di copertoni.

La pecora scuoiata sta' lassù, a due metri dal suolo, quella sgozzata resta a gocciolare sangue ad un metro da terra, sdraiata sul tavolo con il collo riverso e lo sguardo fisso al sole. Più sotto la pecora viva passeggia legata ad una corda corta, in attesa della sua prossima ascensione.
Li accanto due moto BMW sfrecciano alla velocità della luce verso una meta di fretta e autocompiacimento, un pullman si ferma e riversa uno sciame di divoratori di pezzettini di capra. 
Due omuncoli al tavolo sorseggiano coca cola e guardano i vestiti neri e le mani sinuose, ascoltano il vento e riprendono il cammino rotondo che va sempre verso sud.
Qui, su queste strade passano uomini che non vedono l'ora di arrivare, che sognano un salotto dove raccontare, che vivono in cambio della vita di qualcun'altro. 
Correre, correre per arrivare in fondo, volare a casa e fissare compiaciuti i loro interlocutori nel caldo tepore di un salotto.
Faccio fatica a correre così forte. Faccio fatica a capire il perché di questa fretta, non ho ne voglia ne intenzione di arrivare.
La strada è calda e lunga, nera ed abbagliante e, poco a poco, attraverso un velo di dune, lascia affiorare lo scheletro di un immenso essere millenario le cui vertebre appaiono all'orizzonte come punte di lancia sommerse da un passato possente e tradito.
Un piccolo oggetto ricorda un grande uomo. 
Un nuovo manufatto stampato nella terra della sedia ritrae un monolito di panorama che nessuno ha mai visto per davvero.
Una collana in vendita ti ricorda che ancora oggi c'è chi è capace di comprare una nazione con le perline di vetro, di comprare la libertà con una coperta.
Il cammello si inginocchia ed il suo uomo fa la stessa cosa dopo pochi secondi. Tutti e due in ginocchio di fronte al loro signore e padrone, la mia macchina, ad elemosinare qualcosa, qualsiasi cosa non sia un pezzo di quel deserto che li rende così asciutti, così bruciati, così isolati.
Denaro, tecnologia, carta, parole, scatti fotografici, avanzi, meraviglie e benessere.
L'astronave riaccende i reattori e riparte lungo la via celeste, che oggi è nera come la pece.
Mille e mille chilometri vengono percorsi per arrivare alla "Grande città' crocevia di culture e commerci" .
Notti calde e pomeriggi bollenti, deserto e tanto asfalto.
La confluenza dei due Fiumi che si contendono la paternità del regno millenario, è un miscuglio di poco più che niente, è una silenziosa metropoli adagiata nel deserto, è un grattacielo mozzo immerso tra i cammelli e la guerra.
Strade polverose conducono ad alberghi costosissimi e viali malamente asfaltati filano dritti verso periferie di polvere e recinti fatti di rovi.
La manutenzione del passato è scarsa ed ingannevole, il mantenimento del presente incerto e traballante, il futuro un miraggio che danza nelle pozze di calore come una Morgana sdentata e poco reattiva, sfiancata dal caldo del pomeriggio e dalle sconfitte notturne, desolata ed abbattuta da migliaia di anni di rovesci.
Le luci del centro farebbero sorridere un contadino di paese e le regge per uomini lontani sono isole nel deserto, pronte a scomparire in tutta fretta all'alzarsi della marea.
Caldo, caos silenzioso e piccoli interessi reciproci fanno da contorno a mercati del niente di nuovo, a negozi di merci impolverate, ad oggettini che arrivano da lontano nella speranza di andare ancora più lontano.
Abiti senza sarti, vasi senza vasai, tappeti veramente magici perché arrivati fino a qui in volo, collane di un altro mondo e pipe spente.
No alcool, No droghe, No tabacco, Niente labbra al vento. 
Abbiamo tutti il diritto di preservare e vivere la nostra cultura ed per questo che la sera ci si ritrova a discuterne in un ristorante cinese che però non serve Moutai.
Una mattina qualsiasi, dopo giorni e giorni di uffici governativi, CNN, ambasciate, consolati, polizia, decisioni, incontri, politica e denaro, le auto riprendono il loro stato di mezzi che scendono a sud, correndo veloci sul nastro nero che conduce alla terra dell'uomo nero, alla mitica regione del leone, verso le montagne invalicabili del regno di Dio.

La politica, l'uomo, la società, la volontà di potenza, i traumi del passato, il malessere del presente e la paura del futuro, il razzismo e la religione, i colori della pelle, la forma del naso e la consistenza dei capelli, tutti assieme hanno tirato una linea ed anche noi su quella linea ci arrestiamo, ci fermiamo per chiedere permesso.





IL SERPENTE DEI TRE PASSI
di Mpanzo Nimi
traduzione dal francese di Pierre-Yves Raoult


Passo numero uno:
annullane la volontà.

Priva.

Togli la luce come fossi dio.
Fai in modo che il cibo sia poco, difficile da reperire e caro. Il cibo deve avere poco gusto e l'acqua deve essere sempre un pò torbida.
Fai in modo che i professori siano pochi, mal pagati o pagati per niente. 
Fai che i professori e le scuole siano vuoti, cadenti, rattoppati e sempre sull'orlo di una crisi. 
Scuole e professori devono cambiare mestiere: granaio, soldato, contrabbandiere, caserma.
Fai in modo che la religione spieghi le quattro semplici idee che ti sei fatto nella vita, fai in modo che le parabole, compiuto il loro arco tornino sempre giù, da dove sono partite, nel secchio di melma delle quattro idee che hai.
Spacca le strade o lasciale invadere dalla natura, fai in modo che lui non si possa muovere, che loro non si possano incontrare, che le loro menti restino ferme in un posto solo e diventino dure e piccole come una noce.

Dividi:

Se riesci dividi le famiglie, dissipa le amicizie, smembra i clan, parcellizza le etnie, promuovi l'odio tra cugini, insegna la lontananza, impedisci il comitato, vieta il ritrovo, imponi la divisione, fomenta l'odio fraterno. 
Metti le religioni sul ring, fai scendere le loro idee nell'arena, fai combattere le fazioni, dai diversi colori allo stesso esercito, tira linee provvisorie sui terreni ed ogni tanto regala una casa ed un diamante a chi non se lo merita. 
Insisti a fare in modo che le strade si inondino, i fiumi crollino, le barche restino senza carburante e le radio finiscano le pile.

Spaventa:

Inventa nemici, mostri, detrattori, cattivoni lontani e sconosciuti, capri espiatori potenti ed inconsistenti. 
Fatti passare per un Dio ma lascia che lontano dalla tua terra ci sia sempre almeno un Dio più grande di te sul quale far ricadere colpe ed incantesimi.
Fai razzie, uccidi, mutila, schiaccia e spacca, armati e mostra a tutti il tuo grande fucile da guerra, fai che la rovina incomba sempre come un cielo cupo sulle teste dei senza tetto e sui tetti dei senza cibo. 
Mitizza il passato, rendi incomprensibile il presente e cancella il futuro con un colpo di spugna.

Passo numero due:

Comanda.

Ruba, porta via tutto ciò che desideri, vivi nella reggia delle regge, fai in modo che la tua immagine brilli come il sole, sorgi ogni mattina da un palazzo d'oro irraggiungibile, coricati ogni sera in un letto di piume e disprezza i giacigli di rami e paglia. 
Uccidi, sfregia e violenta. 
Attacca, spara e fai esplodere e poi ritirati a guardare la disperazione e sorridi.
Fino a quando non verrai avvelenato, fino a quando non ti spareranno in testa, sino a quando non ti faranno saltare in aria, fino a quando durerai sarai l'uomo più potente del mondo.
Comportati così ma dai un occhio ai potenti che non possono fare altrettanto, a quelli che hanno dovuto affinare armi più sottili ed impara, che forse nella vecchiaia ti serviranno.


Passo numero tre:

Impara:

Piccoli regali ai pezzenti, schermi luminosi come il sole ai poveri, auto a qualcuno, anzi a tutti, libertà provvisorie, ammennicoli luccicanti libertà inventate, grandi canali in cui far marciare con ordine e disciplina la melma umana. 
Digli che possono andare dove vogliono, ci penseranno da soli a tornare indietro non appena il prezzo della benzina sale, non appena la strada muta nome, non appena casa si raffredda.
Rendi l uomo schiavo del debito e la donna del denaro del debito. 
Fai finta che il tuo grande amico sia il tuo più grande nemico ed assieme raccogliete il consenso di tutti e poi giocateci la sera come fosse un passatempo qualsiasi.
Fai che si osservino l'un latro compiacendosi a vicenda della bellezza della loro cravatta e poi fai che ridiscendano tutti assieme verso il grande mare, che lo osservino con speranza tutti uniti dagli stessi piatti di pesce e poi fai in modo che le acque non si dividano mai. 
Fai in modo che tornino tutti assieme nello stesso posto da cui sono partiti, stessa giacca, stesso capello, stesso sogno piccolo senza meta. 
Digli che stanno costruendo il futuro, non fargli mai capire che il futuro arriva come uno schiaccia sassi e che nessuno lo può fermare: costruire, gestire, interrompere.
Fagli mangiare un piccolissimo pezzo di cibo facendolo pagare un prezzo altissimo, fagli credere di essere signori come te, fagli credere che milioni di pezzi di cibo tutti uguali sono una rarità ed un benessere irraggiungibile per gli altri.
Mettili tutti in riga ben vestiti, con la mano sinistra accarezzagli la testa e con la destra colpiscili sul sedere con una frusta.
Lascia che siano loro a creare i loro stessi miti, la loro idea di arte, il loro senso del bello, lascia che siano liberi di agire all'interno del recinto ben fatto che hai creato, e vedrai che ci penseranno da soli a trasformarsi in melma.
Con il tuo esercito di schiavi senza idee ti sarà facile scovare ed escludere le poche menti che non stanno al tuo gioco. 
Vedrai che il nuovo sistema li ingloberà come niente fosse, con un sorriso non avrai nemmeno bisogno di epurarli.  
Il tuo muro di gomma, la barricata di melma umana sono pronti ad assorbire ogni urto come niente fosse.
Fai in modo che spendano più denaro di quanto ne potranno mai guadagnare, fai che facciano sempre un figlio in meno di quanti gliene servano per essere liberi, fai in modo che la prole sia sempre in numero sufficiente ma non superiore a quello necessario per essere una scusa.
Con il debito, il figlio, il matrimonio, la certezza di mille monetine per la vecchiaia, la casa di proprietà, loro sulla carta ma di una banca nella realtà, si costruiranno da soli la loro prigione. 
Dai loro il ferro e la saldatrice e da soli si costruiranno una gabbia tutto attorno.
Fai in modo che possano comprarsi auto care come anni ed anni di lavoro, sempre più grosse e belle, con le quali continuare a spostarsi verso quel lavoro che serve a mantenerle e pagarle. 
Il perfetto circolo della schiavitù è chiuso.
Schiavi consenzienti senza futuro, pronti a tutto per restare in questo stato di semi libertà vigilata. 
Pronti ad uccidere e soverchiare se gli viene toccato uno degli oggetti del loro desiderio: auto, tv, giardino, giocattoli vari.
Fai in modo che la loro proprietà diventi sacra, la loro proprietà di oggetti che hai fatto tu, di oggetti deperibili ed effimeri il cui valore lo decidi tu di volta in volta.
Fai in modo che la proprietà della terra diventi un male e quella dei tuoi piccoli oggetti vinca ancora sulla vita di tutti noi.

E tu, sarai tranquillo al comando della grande nave in secca mentre il mare traballa e scintilla limpido e tranquillo in attesa dei futuri rovesci.





7

"BOCCA LARGA"
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello


Un numero assolutamente imprecisato di persone si aggira sul pianeta terra. due miliardi e mezzo nel 1950? Sei miliardi e mezzo oggi? Mah chi può saperlo.
Alzi la mano chi era presente. Alzate tutti la mano che così diamo una contata proprio oggi.
Mentre l'uomo dal ventre piatto passeggia attraverso questa immensa moltitudine qualcuno lo apostrofa: "Chi sei tu per giudicare!?"

"Io sono te" risponde l'uomo dal ventre piatto; si gira e riprende la sua strada già dispiaciuto di aver dato risposta a quella voce.
"Da oggi non succederà più, da oggi" si dice l'uomo dal ventre piatto," risponderò a questi poveracci, a questi nessuno, con parole non incomprensibili ma con false risposte, con parole che li faranno meditare senza sapere che staranno meditando sul niente."  
Così la mattina dopo, mentre l'uomo dal ventre piatto arringa in una piazza sperduta nel deserto, un piccolo drappello di omuncoli si avvicina, lo ascolta e uno di loro domanda: "ma chi sei tu che vieni qui in questa nostra terra a dirci del bene e del male?"
L'uomo dal ventre piatto risponde con un lieve sorriso: "Sono il tuo dio disceso da sud, portato dal vento tiepido creato dallo sfarfallare delle grandi orecchie del coniglio gigante. 
Sono una rana saltata fuori dallo stagno prima che il perfido meteorite ci precipitasse dentro. 
Sono lo spettro del maialino arrostito il mese scorso in una terra lontana da uomini che non avevano fame ma solo uno spiedo nuovo. 
Sono la scarpa del suonatore di mandolino che da nove anni ha smesso di suonare perché gli duole il tallone nudo. 
Sono il granello di sabbia più grande di tutti, gigante nella duna e nano nella sassaia. 
Sono colui che spende il denaro con un sorriso perché spera sempre che basti a pagare un momento di gioia. 
Sono il sicomoro più sottile dell'intero cerchio, quello che lascia trapelare un raggio di luce anche quando la luce si sta' facendo da parte. 
Sono la strega dai capelli crespi, la madre di tutti i mali a venire ed allo stesso tempo il padre di tutto ciò di buono che c'è stato fino ad oggi.
Sono il teschio ritrovato tra le ceneri della casa in fiamme, l'osso di pollo che assume la posizione sgradita nell'ordine prestabilito. 
Sono il filo che sempre verrà tagliato in cambio di un po di tranquillità."

"Sei solo uno stupido ""bocca larga' qualunque"", ecco cosa sei" lo apostrofa un uomo del gruppo; un uomo seduto su una cesta di paglia che si piega sotto al suo peso e che lo lascerà con il sedere a terra entro pochi minuti.
L'uomo dal ventre piatto sorride come se quell'uomo fosse un giullare nemmeno troppo capace di fare il suo mestiere.

"I tempi dei re sono lontani mio caro ""culo in terra'" risponde l'uomo dal ventre piatto," i tempi grandi si sono sciolti come zucchero nel formicaio, le dame hanno perso le vesti ed i re le corone, le regine non sanno leggere nemmeno il loro nome, i principi sono capricciosi come piccoli cani viziati e tutta la gente del mondo si sente re di quel piccolo spazio che c'è tra la punta del loro naso e la mosca che ci si è posata sopra".

Qualcuno si alza come per allontanarsi, qualcuno si alza come se volesse dire qualcosa, ma tutti vengono distratti da un rumore tra i cespugli. 
Gli sguardi si voltano e dal folto delle palme esce trotterellando il coniglio gigante, si ferma a pochi metri dal gruppo, osserva gli uomini uno per uno e non dice niente. pochi secondi, pochi balzi ed il coniglio gigante è di nuovo scomparso tra la vegetazione.
"Il coniglio gigante ha parlato" dice l'uomo con il ventre piatto "è ora che io vada, è l'ora in cui, se le avessi, dovrei muover le tende".
L'uomo con il ventre piatto scende dalla montagnola di sabbia e si incammina verso sud.

Dal gruppetto di poveracci alle sue spalle si leva una voce: "Ma di che coniglio parli, quella era solo una nuvola! Apri gli occhi 'Bocca larga', aguzza la vista 'Orecchie piccole'."

L'uomo dal ventre piatto si allontana incurante della calura pensando a come può l'uomo confondere il coniglio gigante con una nuvola, come può l'uomo credere che una nuvola esca dalla vegetazione e ti parli, come può l'uomo essere così cieco e sordo ai consigli che il mondo intero cerca di dargli.
Lasciate le sabbie non resta che scalare la montagna. 
Il regno millenario fatto di gole ripide, di canaloni scavati dal tempo, di picchi aguzzi e verdi vallate, di luoghi sacri che vivono tra le montagne di nebbia di laghi antichi come dei.





8

ETHIOPIA
di Luca Oddera

La strada si trasforma piano piano. le curve, una dopo l'altra prendono il posto degli infiniti rettilinei. La strada sale, scende, si inerpica, si inabissa, oltrepassa villaggi colorati e si macchia di orina e sterco dei mille animali che la passeggiano, la percorrono la seguono, la attraversano, la vivono.
Carri, carretti, biciclette, piccoli furgoni trasformati in traini per asini, casette sulle ruote, bambini festanti ed animali addormentati.
è pericolosissimo percorrere queste strade tortuose, un traffico eterogeneo di mezzi ed umanità usa la strada come piazza, come casa, come campo da gioco come ambiente di lavoro.
Le carreggiate si trasformano in spianate ardenti usate come seccatoi, i ponti in trampolini per tuffi, i brevi rettilinei sono campi da calcio perfetti, le zone di tiepido asfalto ombreggiato diventano stalle a cielo aperto. 
I pochi slarghi vengono utilizzati come mercati, mattatoi fermate dei bus stracarichi.
La vita brulica lungo la strada e si disperde negli sterminati campi che costellano le dolci colline lussureggianti. 
La gente sorride, sbraita, si arrabbia, si fa da parte e addenta una banana.
I residui bellici arrugginiti sono accostati nelle cunette come temporanei monumenti a quella guerra che qui è sempre dietro all'angolo.
Le spianate punteggiate di vibranti residui di sacchetti di nylon, si affacciano su abissi panoramici che hanno dell'incredibile, che danno l'impressione di poter osservare tutta la Terra con un unico sguardo.
Le catene di montagne sfumano all'orizzonte troppo lontano per essere percepito. Ogni Fila di monti è più scura della successiva e più chiara della precedente. 
Onde di terra pietrificate nel mare di questa umanità festante che digerisce manioca e banana ad ogni nostro battere di ciglia.
La strada è un capolavoro di ingegneria, è un'opera d'arte lunga duemila chilometri distesa a disegnare e cadenzare il passo ed il passaggio dell'uomo su questa terra.
Ogni curva ne inventa un'altra ancora più stretta ed improbabile, ogni tornante ne lascia presagire un altro più stretto e ripido, superando pendenze impossibili e correndo lungo colline verticali. 
Ogni curva inventa sua sorella , la sua strana cugina la sua folle parente per fare in modo che i ponti siano sempre pochi, sempre meno.
Ma quando l'asfalto non ne può fare a meno si getta sul cemento in un salto vertiginoso su un baratro che divide il pianeta come una ferita. 
"Di là dal ponte tra gli arbusti" la discesa si trasforma in salita. 
Gemelle opposte conducono i viaggiatori lungo abissi speculari.
I motori diesel arrancano, quelli a benzina fischiano, gli asini abbassano le orecchie, gli uomini sudano i viaggiatori attendono.
I santi al braccio i cristi al collo, le croci sulle fronti, i santuari in mezzo al lago e sulle montagne, dio ovunque ed uomini dappertutto. 
Antichi monasteri di roccia osservano come anziani il gioco dei bambini e le nuove chiese con il tetto in lamiera chiedono quando scenderà il sole cocente.
I telefoni portatili squillano in città e l'asino raglia nel villaggio.
La cattedrale tenta di fare bella mostra di se sotto il sole della città, davanti ad un giardino abbandonato e ad una rotonda affollata.
Il sasso scolpito in foggia di pietra cuoce i suoi peccati come un forno immerso nella calura limpida delle montagne di roccia.
La chiesa di assi e lamiera accoglie mille persone al minuto intente a dimenticare il rutto di manioca ed il rigurgito di banana. 
Mille visi speranzosi che sognano una capra cotta e limpida acqua domenicale.
Intanto il sole scende sul cartello stradale che nomina due località: una a 1320 km l'altra a 1400.
Lascia che il tempo si dilati e si acquieti altrimenti non arriverai mai.





9

BORDERLINE… 
DIPENDE DA CHE LATO ARRIVI
di Luca Oddera

L'albero d'argento scintilla al sole come se fosse coperto di gocce di rugiada. I profani lo osservano con reverenza, i credenti lo adorano senza limitazioni.
Laggiù nella terra di confine, dove tutto si allunga in un orizzonte lunghissimo, l'albero d'argento lascia cadere la sua rugiada cristallina solo quando la sera rinfresca l'aria, solo nel momento in cui gli occhi degli uomini smettono di essere socchiusi. 
La rugiada scende, si asciuga, disseta le radici e fuori, lontano, si accendono le luci.
L'ultima città della terra si anima di piccoli truffatori, prostitute da quattro soldi, fuochi e pezzetti di carne arrosto. I volti dei poliziotti e dei soldati si contorcono disegnati dalle fiamme dei mille fuochi, i sottili vicoli si infrangono nel buio e le baracche di lamiera accendono rossastre luci che invitano l'uomo abbandonato. Gira l'alcool e qualche droga, le donne cosce aperte stese su letti sudici invitano uomini sporchi e sudati. 
L'accampamento degli unni, il bordello visionario posto sotto al vulcano, l'incubo dal quale non riesci ad uscire perché le gambe corrono nella molla gomma, il regno della malattia, lo scolo di fogna che scorre lento accanto all'abbandonata verdura notturna. 
Il topo corre, scarta e si intrufola, il dio denaro cambia mano in quantità minuscole ma importanti. 
Un vicolo buio dopo l'altro, un fioco fuoco, la lampadina traballante, il posto dove l'uomo chiaro non scende mai, la malattia non si accontenta di strisciare ma galleggia nell'aria torrida. 
C'è del sugo sul letto, della marmellata sul cuscino, delle bucce di banana marce sotto al materasso, un sacchetto di unghie appeso sopra alla culla e gruppi di disperati che defecano nel buio. 
La lampadina traballa, si spegne  e occhi blu passa oltre. Qualche volta è meglio non guardare, non assaporare, non sentire, ma è importante essere li per cogliere quel rivolo minuscolo di realtà, di verità di vita.
Il cristo piange lacrime di sangue sulla croce e le sue lacrime assumono il loro ultimo e primigenio significato, quello della salvezza, della redenzione. 
Il sacrificio cruciforme salva l'uomo, lo divide dalla bestia con un colpo deciso e sicuro e solamente lo stolto pensa che si possa tenere il piede in due scarpe.
Maometto resta immobile in attesa della montagna, cristo lacrima sangue sui sudditi di satana.
Non so proprio quale occhio allenato all'autostrada, al cinema, alla piscina, all'estate, al mare, al cruscotto, al bidè, allo schermo luminoso, al denaro di papà, al sorriso di un'amica… non so proprio quale occhio così allenato si sia mai posato su questo dedalo umano. 
Solo i "cuori di tenebra", le anime perdute, i vigliacchi del paradiso sono passati di qui ed hanno visto. 
Quello che vede l'occhio sente l'anima e se ne allontana come se non conoscesse la verità.
Troppo duro, crudo e bestiale è il dipinto oscuro del sentiero di fango, delle baracche in fila delle anime infilzate dallo spiedo del soldato stanco di allettare. Troppo difficile da ammettere è quel misto di sangue, sudore e piume di gallina, quel pianto di bambino sommesso che si intreccia con il sospiro roco del coito malato del dio ubriaco.

Il letto traballa, il fucile scivola, i fianchi oscillano, gli sguardi si allontanano, i colpi aumentano il ritmo, le dita dei piedi si ritirano come artigli, il peso aumenta sui reni, una mano si allunga, afferra la culla improvvisata, e sotto ai colpi della disperazione, trova il tempo di farla dondolare per acquietare quel pianto che distoglie la mente dal lavoro e prolunga la pena del cliente pagante e maleodorante.

Piedi nel fango, abbandono, notti scomode ed ammuffite, amuleti tanto potenti quanto inutili, cibi insipidi e code di topo.
Le armi passano di mano, i sultani della frontiera passano le consegne e sperano di giacere in letti di rose. 
I brandelli di taccuini attendono nella scrivania abbandonata e qualche occhio lucido e brillante trova forza nell'onestà, nella dedizione al suo lavoro destinato ad essere strumento di chi giace nella baracca illuminata a giorno immerso nel sesso e nelle zanzare.
Qualcuno ci prova, con dedizione, coraggio ed orgoglio pur sapendo che anche quella notte il fucile passerà di mano e sparerà ancora. 
Il bambino lontano dorme sonni tranquilli in posti appena più decenti mentre il padre aspetta che cada qualche moneta dalle bisacce dei gendarmi, dei viaggiatori, dei signori del male. 
Una fotografia sul cuore, un piccolo crocifisso al collo e la speranza di poter presto smettere.
Un'ora prima dell'alba, otto ore dopo il tramonto, la notte si calma, si lascia snodare dal sonno. 
Gli uffici malandati aprono i catenacci.

"Avanti signori, venite avanti e mostratemi un'altra volta le vostre effimere e sudicie scartoffie, i balli sono aperti.





10

CANI BASTARDI E CAMMELLI MARCI
di Joseph Mwangwa
traduzione dal inglese di Pierre-Yves Raoult

Willy mangia banane vicino alle falde del vulcano, le ha trovate accanto alla porta della sua piccola casa fatta di giunchi intrecciati, fango e paglia.
Un bel cesto misto di banane, papaia e mango. 
Veramente ci sono sei banane un mango ed una papaia.
Willy, mentre sbuccia un'altra banana cerca di immaginare chi può avergli lasciato quel dono. 
Cerca impronte attorno alla casa, nella polvere umida scopata la sera prima. le impronte ci sono, ben nette e precise. 
Sono piedi di donna, sono i piedi di Teresa che hanno lasciato quelle impronte. Certo lo sapeva già, ma nono si sa mai.
Una dura serata con quelli del clan dei Cani, una dura serata di amicizia e fermentato di palma, di pacche sulle spalle, di risate fragorose e progetti per cambiare il mondo. 
Una serata di donne veloci che si strusciano come bestioline.
Era tornato alla capanna senza cedere alle lusinghe di Viola, di Mawunga, di Jane? Willy credeva di si ma non ne era mica sicuro.
A casa ci era tornato da solo, c'erano le impronte a dimostrarlo, ma prima di tornare a casa?
Le banane di Teresa erano un vero toccasana, dopo una dura notte non fa bene rimanere a stomaco vuoto. Willy era sicuro che Teresa avesse saputo della sua notte brava e proprio per questo ora quel cibo era li.
"Che donna, che creatura dolce e formidabile."
Willy doveva fare una scelta, erano mesi se non anni che doveva fare questa scelta. 
Teresa la dolce donna della sua vita lo attendeva e lui sprecava il suo tempo a gironzolare scapolo nella speranza di cosa?
Willy sapeva benissimo cosa avrebbe fatto nei prossimi giorni, si sarebbe dato una ripulita, si sarebbe iscritto all'università per finire gli studi da dottore che aveva abbandonato due anni prima e sarebbe andato da Teresa a dirle che gli sarebbe piaciuto che fosse proprio lei a preparargli la colazione tutte le mattine.
Ancora un giorno o due per dissipare i fumi delle sostanze alcholiche, per sgonfiare un pò e potersi presentare al rettore ed a lei in piena forma.
Vita lunga, figli e benessere, ecco tutto ciò che cercava.
Willy scese la scarpata fangosa, si incamminò lungo la strada segnata da profondi solchi e si diresse verso la piccola missione di Bagunda. 
Là, suor Maria lo avrebbe aiutato, lo avrebbe consigliato, sarebbe stata felice di accompagnarlo passo dopo passo in questa sua nuova avventura. 
Suor Maria, che veniva da così lontano sapeva tante cose e sicuramente lo avrebbe approvato, gli avrebbe scritto una piccola letterina di raccomandazioni per il rettore e chissà, magari anche un lavoro...
Mentre scendeva a valle Willy si sentiva leggero e tranquillo, non scacciò i cani quella mattina, non tirò sassi ai monelli che gli correvano attorno e non abbassò lo sguardo passando davanti alle case degli anziani.
La terra risplendeva del rosso della Grande Madre, i tetti di paglia scintillavano della leggera pioggia notturna, la vegetazione sgocciolava di quel verde che non esiste in nessun altro posto al mondo. 
Un acre odore di foglie umide, di frutta in fermentazione, di pollini e fumo cominciava a levarsi nell'aria. 
Quello era l'odore della sua terra, del suo popolo, della sua vita e Willy ne era felice.
Un'ora di cammino, di buona lena anche solo cinquanta minuti, un'ora per mettere assieme gli ultimi pensieri prima di cambiar vita per sempre.
Non ci volle molto per capire che era successo qualcosa.
Fuori dai cancelli della piccola missione di Santa Lucia si era radunata una folla.
Willy acellerò il passo, poi corse per un tratto e vide donne in lacrime e uomini seduti che cercavano bastoni con lo sguardo, bastoni da percuotere a terra , bastoni per scaricare la rabbia.
Willy riuscì ad arrivare al cancello di ferro, ad aprire lo sportellino ed a parlare con la guardia.
La guardia lo fece entrare, era di casa Willy.
"Cosa è successo?"
La guardia gli mise le mani sulle spalle e, con gli occhi pieni di lacrime e rossi delle lacrime già versate, gli comunicò la morte.

Willy spinse di lato l'uomo e corse verso il portico e lì, riverse sulla porta, una fuori, una dentro giacevano, straziate, insanguinate, contorte, quasi smembrate, morte, suor Maria e Teresa.
Willy si accucciò accanto ai corpi, sfiorò la veste di suor Maria e fece per accarezzare il viso di Teresa, qualcuno lo spinse via, un poliziotto, un militare forse.

Ventuno coltellate a suor Maria.
Ventuno coltellate a Teresa che si trovava lì per caso.
Ventuno coltellate erano una firma, un segno inconfondibile, un sicuro atto di guerra.

Il clan dei Cammelli era sceso lungo le strade buie, aveva chiesto asilo, era entrato nella missione ed aveva firmato la condanna a morte di migliaia di persone.
"Bastardi, maledetti assassini, Cammelli marci, adoratori di satana e Maometto, avete messo le mani nel posto sbagliato" urlava qualcuno da dietro al cancello ed intanto i primi bastoni cominciavano a percuotere la terra, sempre più forte, sempre in maggior numero.

Quattro case più in là, Alì ebbe notizia dell'accaduto, gli tornarono alla mente le tragedie di quindici anni prima. Chiamò sua moglie e le disse di correre alla scuola, prendere il figlio e dirigersi dagli zii al villaggio. 
Poi Alì uscì di corsa per andare a prendere la sua bambina alla scuola di cucito ma quando arrivò il mondo gli crollò addosso.
la piccola ………… era stata uccisa a bastonate assieme ad un'insegnante e ad altre sei bimbe.
I corpi erano lividi e gonfi. 
Alì si inginocchiò, prese in braccio il corpicino ed urlò di rabbia e dolore.
Poco lontano echeggiò il primo sparo ed il mondo si gelò per un'istante, poi si riprese, cambiò espressione ed indossò la maschera della guerra, della follia, della morte.

Pazuzu riemerse dalla vegetazione, rinvigorito e sogghignante e fiero e potente scivolò rapido e silenzioso verso la città. 
Cibo e vita per il grande Dio, morte e distruzione agli uomini.
Pazuzu sbava pregustando i giorni a venire, si solletica lo stomaco marcio al pensiero della fresca carne pronta ad imputridire, si inebria dell'odore dell'odio che potente si sta' levando.

Quaranta giorni durò la follia, quaranta giorni e quaranta notti ci mise la marea nera per salire e defluire.
Morirono in migliaia, morirono innocenti e traditori, succubi e padroni di fucili, donne, bambini e vecchi furono trucidati, animali sgozzati e lasciati a marcire. 
I tetti presero fuoco le scuole crollarono e gli ospedali si riempirono di cadaveri e fumo.
L'esercito arrivato dalla capitale e i grossi blindati dell'uomo bianco, misero fine alla violenza, misero fine al dolore con altro dolore.
Ne buoni ne cattivi, solo cadaveri.
Oggi la quiete è tornata, un cane passeggia curioso attorno ai resti carbonizzati della casa di Willy, la missione di Bagunda è stata sostituita da una piccola caserma permanente di soldati arrivati dalla città. 
Viola, Mawunga, Jane sono andate via, al seguito dei militari sono andate alla capitale.
Willy è morto l'ultimo giorno di combattimenti, ma solo dopo essersi guadagnato un posto di rilievo nell'inferno che lo attende.
Le suore per il momento se ne sono andate e le strade sono sprofondate sotto il peso dei blindati.
I pochi anziani rimasti hanno discusso a lungo con il colonnello Yabushebua a proposito del cambio di nome del villaggio. 
Alcuni dicono che il nome è troppo cristiano, troppo legato al clan dei Cani, altri dicono il contrario, dicono che i musulmani ci hanno messo lo zampino, che il clan del cammello è troppo vicino a quel nome. 
Sarebbe bello pensare che tutti vogliano semplicemente dimenticare ma Pazuzu è ancora in agguato.
Il grosso dell'esercito torna in città senza aver risolto il problema del nome.

Adesso, lungo la strada di terra rossa giace un grande villaggio senza nome, un posto abbandonato dagli spiriti buoni, un luogo che Pazuzu trova ricco e confortevole, un luogo che nel bisogno di dimenticare si scorderà presto delle violenze subite ed inferte.
Il colonnello Yabushebua, a bordo del suo grande fuoristrada da guerra lascia il villaggio seguito dalla colonna dei mezzi della sua guarnigione. 
Questa operazione gli varrà una medaglia e parecchi denari per il futuro, denari che gli arriveranno dalla guarnigione insediata nella missione di Bagunda.

Mentre esce dal villaggio Yabushebua si volta per dare un'occhio al suo esercito.
Voltandosi vede il cartello con il nome del villaggio cancellato con pennellate di vernice bianca. 
Qualcuno, con vernice nera ha scritto in lettere maiuscole:

WELCOME TO HELL.

Yabushebua si volta, osserva la strada e sorride:"Si troveranno bene, si si, i miei uomini si troveranno proprio bene quaggiù all'inferno"

NOTA
(Sono storie brevi queste, con personaggi che affiorano e muovono qualche passo. 
Sono giornate brevi, quelle invernali ma calde in cui i mosconi escono lenti e strisciano dattorno credendo sia arrivata la primavera. 
Personaggi come questi meritano stagioni vere. 
Meritano in questo caso una nota che sarebbe bene fosse ben più lunga del racconto. Una nota con caratteri grandi come gli altri ma magari un poco diversi giusto per distinguerli. A nessuno piace cavarsi gli occhi per leggere le note.
Ovunque ed in qualunque epoca ci sono stati gatti che vivono in casa al calduccio e gatti che vivono al freddo e mangiano lucertole quando ne trovano. 
Ma non si parla qui certo solo di gatti ma anche di cani, ci mancherebbe. Ecco, così è, così è sempre stato e così sempre sarà perché la storia è una ruota che gira. Ma questo, al fine, non è necessariamente vero. Sfortunatamente la storia potrebbe non essere una ruota. 
E' semplice a ben pensarci: questa odiosa disparità tra gattini che crescono fuori al freddo, tormentati dalla fame e dalla paura della volpe e quelli ben pasciuti e carezzati che li osservano dai vetri delle porte si può risolvere in fretta.  Gattini, va ben, ma vale pur per i cani. per i cani qualche passo avanti è già stato fatto.
Ecco, basta armarsi di buona volontà e sterminare tutti i gatti che vivono al freddo, abbandonati… abbandonati da chi? Ah già, da noi. Ecco, sterminati tutti i gatti…eh si certo e tutti i cani…che hanno preso nome di randagi, ecco che così ci saranno solo gatti -e cani- ben pasciuti e curati. 
Certo ci rendiamo conto che nella mischia, nell'operazione benefica di pulizia, di cui si fanno -fecero- carico diverse associazioni no profit di benpensanti e volontari d'ogni sorta, ci andranno di mezzo anche alcuni gatti da casa che, per malaugurato episodio, si trovassero all'aperto senza collare di riconoscimento durante le crociate benefiche di pulizia sistematica.
Così come questa storia tocca gatti e cani in egual modo, nella stessa maniera riguarda, per diretta via Cani e Cammelli; come emerge dal breve racconto sopra riportato. 
Certo la storia non sta in piedi se si parlasse di cani veri e di cammelli veri poiché il cane è inutile, o poco utile e di sicuro senza Valore, mentre il cammello è molto utile, anzi è molto utile il suo Valore. 
Ma noi stiam qui parlando di Cani e Cammelli con le C maiuscole non minuscole. Anzi noi siam qui a raccontare le vicissitudini di alcuni cani e cammelli che casualmente si trovarono ad essere Cani e Cammelli.
Willy, Alì, Teresa, Viola e molti altri di cui i nomi appariranno a suo tempo.
Adesso siamo nella contingenza di trovare sì il tempo per raccontarvi questi nomi, e la cosa di per sè sarebbe già poco facile perché ci vuole allenamento, ma dobbiamo anche trovare uno spazio in cui metterli e questo potrebbe richiedere ancora più lavoro di quel che immaginate. Trovare uno spazio ai nomi richiede fatica, più di quella che si possa pensare perché le cose vanno fatte per bene e non possiamo mettere il latte nella bottiglia del vino e sopratutto non possiamo mettere il vino nel cartone del latte!)

Nota alla NOTA
Willy ed Alì per un certo periodo frequentarono la stessa scuola ……..


GLI ARCHITETTI SENZA DIMORA
DI Luca Oddera

Il palazzo, visto da lontano, sembra grande si, ma poi quando ti avvicini le sue dimensioni ti sopraffanno. 
Non è abituato l'uomo a vedere un palazzo di tali dimensioni se non inserito in una città.
L'erba, morbida e lunga, copre la prateria come un tappeto. La facciata in cemento inizia così, dal nulla.
C'è solo lui, quaranta piani di cemento e vetri opachi messi lì, in mezzo al niente, in mezzo alla savana, in mezzo alla prateria.
Fosse un immensa meridiana alcune delle sue tacche andrebbero disposte ad un chilometro di distanza.
Fosse un gigantesco monolito della conoscenza non avrebbe ne vetri ne ingresso.
Fosse una torre di controllo ci sarebbero aerei ronzanti come api attorno al favo.
Fosse qualcosa che ha un significato non resteremmo interdetti e spaventati di fronte a Lui.
Ci avviciniamo con le macchine, ci avviciniamo ma non troppo, una cinquantina di metri sono già una vicinanza sospetta.
Scendiamo dalle macchine. 
Il caldo è opprimente il silenzio aberrante. 
Come mai, mi chiedo, se osservo il panorama non trovo nulla di strano nel fatto che nessun rumore si aggiri tra i pochi alberi, mentre se mi volto e guardo l'incombente superficie della facciata mi aspetto dei suoni, suoni di un altro mondo la cui assenza instilla nella mia mente una sensazione di panico incombente, una paura primordiale quasi.
Ma non possiamo restare qui a guardare. 
"Esploratori!" ci è stato detto "Andate e vedete!"
Noi non possiamo sottrarci a questa etichetta che raggira il sorriso, che evita lo scherno, che come un gioco ci è stata adesivata sulla fronte e sulle pagine del giornale, che con grottesca enfasi abbiamo voluto accettare senza meritarne il titolo onorifico che comporta.
Ok. Torcia e bastone, videocamera e macchina fotografica.
Mentre ci avviciniamo noto dei particolari che prima non vedevo: la base del palazzo emerge dalla terra secca, quasi sabbiosa, come se niente fosse. 
Non un cordolo, non un marciapiede, non una linea di giuntura.
Da una piccola crepa nel terreno fuoriesce una fila di grosse formiche. la colonna di insetti prosegue in alto, qualche metro e scompare in una fessura tra vetro e cemento.
il cemento è vecchio ed ha risentito delle intemperie, è macchiato, scolorito e quasi triste. Il palazzo è qui da tempo, lo si vede, lo si sente. Il palazzo è piuttosto vecchio ma in ottime condizioni.
Newton è dietro di me, ma io rallento, osservo e rallento, forse rallento per farmi superare. Tutto sommato non me la sento di entrare per primo.
Newton mi supera entrando nell'ombra. lo seguo con un sospiro di sollievo.
La porta, il portone gigante in vetro è spalancato. Il pavimento, stranamente pulito, si perde in un atrio quasi immenso.
Entriamo e mentre gli occhi si abituano alla bassa luce, il ronzio della prateria si fa sommesso e poco dopo si acquieta completamente. Nessun scricchiolio, nessuno stillare di gocce. Nessun rumore, solo quello del vuoto, solo quello del fluire compresso del proprio sangue vicino ai timpani. 
Un colpo di tosse, il mio, uno strusciare di piedi nelle scarpe di pellaccia, quello di Newton.
L'atrio è grandissimo e luminoso. 
I residui, spogli ma puliti di un desk si stirano pigri tra l'ombra e la luce alla nostra destra. 
Le porte in acciaio lucido di due ascensori sono chiuse ed immobili. le grandi colonne di cemento liscio salgono verso una lontana controsoffittatura in marmo colorato.
Alcune porte si aprono su lunghi corridoi.
Una scalinata larga ed imponente sale ad un mezzo piano rialzato, una terrazza affacciata sul atrio. 
Una balaustra di spesso vetro opaco la divide dal vuoto.
Newton sale la scala ed io lo seguo.
Anche il ballatoio vuoto e deserto è enorme, copre quasi la metà della superficie dell'atrio.
Una fila di vetrate si affaccia sulla pianura circostante e lontano vedo due gazzelle correre, fermarsi, guardare verso il palazzo e poi riprendere la corsa.
Vorrei esse già fuori.
Due piccole porte si aprono sulle trombe di scale. A scendere e salire.
Tre archi danno accesso ad un grande ambiente che poteva servire da bar, ristorante o cucina.
Saliamo di un piano.
La scala è sproporzionatamente stretta e povera. un semplice corrimano in plastica e ferro corre sulla sinistra. i gradini sono di cemento liscio ed i muri sono pitturati sommariamente di bianco sporco.
Quattro rampe a zig zag portano ad un corridoio lungo e ricurvo.
Una fila di porte si stende su un solo lato del corridoio.
Newton si incammina verso destra. Lo seguo. 
Nessun rumore.
Le porte sono in metallo, senza maniglie, senza serrature. Solo una placca di ottone con inciso il simbolo di una mano aperta.
Newton spinge la porta dalla quale si diffonde una tenue luce.
Entriamo.
Uffici, antichi uffici suddivisi in moduli di plastica. nessun oggetto, nulla che serva a datare, capire, dare un giudizio.
Altra porta, altri uffici.
Altra porta, altri uffici.
Uno sgabuzzino e poi altra porta, altri uffici.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
un piano di passaggio, quasi tutto aperto e vuoto, grande quasi come l'atrio ma basso ed opprimente nella sua vastità.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio. 
Dovremmo essere al settimo piano. Qui il corridoio è largo e luminoso. le porte che vi si affacciano sono provviste di grandi maniglie in acciaio e sono più ampie.
Ci sono meno porte e meno vicine l'una all'altra.
Newton gira una maniglia ed entra.
Un appartamento luminoso si affaccia sulla prateria.
Un grande appartamento vuoto.
Un grande salone comunica attraverso un arco con una cucina squadrata ed imponente. 
Legno chiaro ed acciaio.
Mentre newton supera una porta io apro il rubinetto del lavandino. Un suono, un leggero fischio come aria che sfiata, esce dal tubo dell'acqua.
Aspetto qualche secondo poi lo richiudo.
Un'altra porta un altro appartamento, identico ma speculare al primo. 
Ancora una porta, ancora un appartamento.
Un altro piano, altre porte altri appartamenti.
Ancora un piano, ancora appartamenti identici.
Un altro piano ancora. Altri appartamenti ma più piccoli.
Altro piano altri appartamenti.
Siamo al dodicesimo piano, credo. 
Attraverso le finestre dai vetri bruniti vedo la prateria. 
Siamo in alto, qualcosa come cinquanta metri dal suolo.
Riesco a vedere lontano. Prateria, pochi alberi ed in lontananza colline coperte di vegetazione.
Newton torna nella tromba delle scale. Stiamo per salire ancora di un piano quando un colpo, un forte rumore ci giunge dal basso. Non quello di una porta che sbatte, no, piuttosto come un colpo sulla ringhiera della scala. 
Newton si immobilizza.
Un altro colpo.
Paura.
Io comincio a scendere la scala, torcia accesa bastone in alto.
una, due, tre, quattro rampe e passiamo accanto alla porta del piano inferiore.
Scendiamo, spaventati ed affannati.
Mi fermo, mi immobilizzo, una nota stridula, incoerente con tutto il mio essere mi fa fermare e decidere di non desistere.
Guardo Newton che arriva, che mi segue nella fuga.
"Newton, non possiamo scappare, torniamo su."
"Tu sei pazzo, fila, fila via"
Newton mi passa di fianco quasi urtandomi e prosegue la discesa.
La paura è passata.
Senza impeto ricomincio la discesa.
Ad ogni rampa, ad ogni cambio di direzione mi aspetto di incontrare qualcosa, qualcuno.
Quanto eravamo saliti?, mille piani?
Comincio a pensare che siamo scesi troppo, che siamo passati oltre il piano ammezzato, oltre al piano terra, stiamo scendendo sotto terra.
Ma d'improvviso ecco la porta che sbocca sull'ammezzato luminoso e silenzioso.
Ci fermiamo nel centro del grande pavimento inondato di luce.
Siamo sudati fradici, affannati ma meno spaventati.
Lentamente scendiamo lo scalone rivolto alla grande entrata.
Siamo fuori. Un metro, due, tre, dieci, venti.
Apro la portiera della machina, mi volto, nessuno ci segue, niente è successo.
Osservo il palazzo, conto i piani e vedo, lassù, più in alto del piano al quale siamo arrivati, un luccichio, leggero, che filtra attraverso gli scuri vetri. un luccichio che si sposta, poi si ferma. Forse un'ombra ci guarda.
Saliamo in macchina.
Newton parte senza indugio. Ancora qualche istante. Resto fermo, osservo l'ombra lassù, irraggiungibile, solitaria, immobile. 
Ora la vedo meglio, è una sagoma.
Alzo una mano in segno di saluto. 
L'ombra si muove, di nuovo un luccichio. 
Poi d'un tratto l'ombra si muove rapida, veloce, come se corresse, come se stesse correndo da qualche parte, come se stesse…. correndo qui.
Chiudo la portiera, accendo il motore e parto.
Mentre mi allontano osservo il palazzo nello specchietto.
Forse laggiù, nella bocca del palazzo, appare una figura, una figura che resta nell'ombra. 
Qualcosa o qualcuno sembra essere sceso fino in fondo ma senza uscire dall'ombra.
Mi allontano, sempre più veloce, fino a quando raggiungo la nuvola di polvere alzata dalla macchina di Newton.
L'adrenalina se ne va, la paura si allontana, la mano si fa più sicura al volante e mi sento nuovamente presente a me stesso. 
Un dubbio, una curiosità, un tarlo comincia a farsi strada nella mia mente; l'ombra nel palazzo, quel qualcosa o qualcuno che vive quella terra inquietante, quell'essere scuro che non ho conosciuto, quella cosa differente dalla luce, che la mia paura mi ha impedito di affrontare, di vedere, di sapere.
"Esploratori!" hanno detto una volta.
"Codardi" penso io ogni tanto.
L'ombra è rimasta un'ombra.
Il palazzo si allontana e la curiosità cresce, il coraggio aumenta.
Alzo il volume dello stereo, guardo la savana, mi rilasso e sorrido.
Tornerò. 
L'ombra esiste, lo so e tornerò per vedere. Ricaricherò le pile, mi darò coraggio davanti ad una birra, mi organizzerò e tornerò per cercare, per vedere, per capire.
Il palazzo scompare dall'orizzonte ed io guido lungo una pista di terra e polvere, attraverso un panorama che si arrossa dei raggi obliqui del sole. 
La temperatura scende, gli animali si rianimano e corrono via al nostro passaggio. Un'ora o due e saremo da qualche parte, in qualche posto dove ci sono gli uomini, in qualche posto dove potremo dormire all'interno di qualche recinto, circondati dagli uomini, e dalle loro creature.
Tra un'ora o due saremo di nuovo salvi.
Almeno per un pò. 
Fino alla prossima volta.



16

DAL VILLAGGIO ALLA CITTA'
di Felix Mutola
traduzione dal portoghese di Hara Cecilia

Strani animali si aggirano per i quartieri alti della città. 
Ma ancora più strani, incoerenti e bestiali nei loro comportamenti sono quelli che si aggirano per le vie di tutti i giorni.
Animali che camminano in circolo senza meta, che si nutrono degli avanzi gli uni degli altri, animali pieni di risposte ma senza una sola domanda.
Scambiano foglietti con stracotti, e atteggiamenti studiati e impostati con spruzzate di coda su cassonetti di cristallo illuminati.
Come un lupo famelico e grassottello uno di loro accosta una grande vetrata, annusa l'aria e rimane paralizzato dallo stupore, invaso da un senso di pienezza,inebriato dai colori, l'istinto scatena un mare di ormoni, la sua immaginazione lo veste di scintillanti abiti che lo renderanno forte, attraente e desiderabile come un orso puzzolente e sanguinante di fronte alle sue femmine.
Il lupo ha una borsetta, la apre, conta i foglietti, sorride, oltrepassa lo specchio di cristallo e qualche minuto dopo ne esce soddisfatto, pieno, completo e migliore. Ma, sempre a quattro zampe, riprende il suo cammino circolare.
In mezzo agli animali, spaventati e talvolta inermi si aggira una ridotta moltitudine di esseri superiori, di esseri sconfitti e bistrattati, di esseri che camminano con i loro pensieri a due metri da terra e l'anima in cielo.
Gli esseri bipedi si riducono di numero di giorno in giorno, qualche volta si accucciano e camminano anche loro a quattro zampe, per non attirare l'attenzione, per non essere derisi, per non essere guardati.
Musici, saltimbanchi, scienziati, compositori di pietre, terra, parole, suoni e pensieri. 
Esseri che vivono mischiati non al branco ma al gregge di lupi impecorati di trucchi e tessuti colorati. 
Ovali lamierini avvolgono animali da corsa che troppo raramente si spiaccicano allo scarto successivo.
Diminuiscono di numero, forse solo di proporzione, coloro che, eretti, passeggiano e si spostano sulla terra, sospinti dalle masse milioniche se non miliardiche di bestie mai accecate da luci naturali, mai assordate da suoni di tempesta, mai inebriate da profumi di vento.
Come isole alla deriva vagano nel mare contando qualche volta le onde ma guardando oltre più spesso, per vedere se oltre l'ultima ondata non arrivi per caso un angelo.
Un angelo di saggezza, di giustizia, di perseveranza, di concretezza ed amore. "Spirito della bellezza," dicono di quando in quando, "dove sei finito? Dov'è quell'angelo che con spada e carezza consegnava le anime indegne ad un'indegna vita?"
Ed intanto abbassano il capo per non vedere, curvano la schiena per non essere visti, visitano piccoli pensieri per non essere sentiti.
Ma quando si ergono, quando splendono radiosi su due zampe e lanciano fulmini ed aliti di umanità che coprono i suoni del mondo, allora questi animali bipedi, perdono il loro rango di creature terrene e noi povere bestie, crediamo di vedere dio, di vedere la fine di tutto quello che non possiamo capire. 
"Facci sapere" dice il branco, "facci vedere" urla il gregge, "facci sentire" sospirano le mandrie.
Ed ecco che l'incanto ricomincia, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Una parola un fremito, un gesto un ordine, un pensiero un comandamento. 
"Stupide bestie!"
Eppure, in numero sempre inferiore a quello necessario per sopravvivere, l'anima luminosa, il bipede non più incerto, il signore degli animali, si cela anche in esseri che vivono in misura ridotta, che non agiscono da altalene dell'anima della massa inerte.
La maestra. il dottore, l'avvocato che abbandona la poltrona. 
Il legnaiolo che abbraccia la fede dell'albero, il cacciatore che sente dolore ad ogni sparo ma che non smette, il viaggiatore che lascia le ali agli aerei e cammina leggero lungo le strade di asfalto che fanno da pista alla mandria.
Il povero elettricista che ha capito il significato della luce più del professore che glielo insegnò.
L'oracolo del mattino è sceso dalla duna, è uscito dalla gola e resta eretto dietro un bancone mattutino a distribuire brioche e caffè, ascoltando ed elargendo il suo sapere come se un dono di clemenza lo avesse convinto che l'animale che si abbevera alla tazza di fronte a lui meriti qualcosa di più di quel che sa.
Il martire ha abbandonato la pista polverosa che lo condusse a Damasco ed ha acquisito l'autorità di paroliere vendendo frutta in un mercato di ortaggi biologici. Rimane intonso il suo corpo ma lui stesso flagella e sfracella la sua anima ogni giorno di fronte alla stessa constatazione, al medesimo piccolo sentimento, davanti all'ennesima iniqua piccola cattiveria.
Il martire abbandona l'incomprensibile e spaventosa corona di spine e veste la bustina multicolore impostagli dal ben pensare animalesco che si spaventa giorno dopo giorno del suo stesso immenso numero.
Con grembiule e bustina si lascia crocifiggere giorno dopo giorno su una triste croce fatta di carote, sedani e finocchi, ravanelli e patate. Tutti rigorosamente biologici, biochimici, bio-naturali, dal profumo intenso ed il colore perfetto per aderire a stomaci sempre più intolleranti
La sera, come legge prevede, la croce viene smontata, i chiodi-carota asportati, la bustina bicolore riposta e la strada verso il sonno si colora di sogni lontani.
Ogni mattina, eternamente, carota dopo carota, sedano dopo sedano la croce si ricompone e riemerge dai banchi di frutta.
Colui che non abbandona la via per discendere meramente lungo il fiume, assieme alla corrente,colui che con fatica cerca ancora di compiere tutto il tragitto sulle proprie gambe, colui che caccia con arco e frecce e cucina con una vecchia padella su incrostati fornelli, sa che il premio non esiste, che la ricompensa non arriverà, che alla fine, poco prima che la sua fiamma si spenga, tutto quello che potrà fare, forse, sarà tergere il sudore dalla propria fronte, il sudore di tutta una vita, strizzare lo straccio e stillarne un unica, piccola, timida goccia di umana verità, di significato, che lascerà cadere nella vana, ma importante, speranza che venga colta prima che tocchi terra e venga assorbita dalle secche crepe del fango.
L'ammaestratore di animali è di per se più alto e luminoso del giocatore di pallone, allo stesso modo in cui il lanciatore di martello è più robusto della graziosa modella.
Il saltimbanco si piscia sotto dalle risate quando guarda l'uomo comune contorcersi in una grottesca capriola da ubriaco, ma poi, la sera, di nascosto piange lacrime fredde.
Il venditore di tabacchi non si fa domande mentre quello di birra si chiede ogni giorno se quella che percorre è la strada giusta.
Tutto quello che cresce e si compone come atto di vita pura si snerva poi in filacci di ovatta quando la mandria lo scopre e ne prende in prestito il corpo per farne caricature infinite e grottesche, appiattite e superficiali che tendono a modelli, si trasformano in moda e vengono dimenticate come vecchi giocattoli.
Così il cow-boy si vergogna del cappellaccio, l'esploratore abbandona i suoi portatori, il centurione getta la lorica ed indossa le braghe di tela, il faraone arrotonda e rimpicciolisce la piramide, il paroliere scrive banalità, il suonatore di suoni abbandona la sua arte in favore del rumore, il pennello diventa getto di inchiostro ed il sublime messaggio per orecchie fini si trasforma in un'accozzaglia di rumori adatti ad ogni tipo di udito, adatto, quasi quasi, anche al sordo.

Le farfalle nere perdono colore, allargano le ali e gettano un po di luce sulla leggera tela della zanzariera nell'esatto momento che il piccolo Samuel apre gli occhi al mattino.


CONGO
di Luca Oddera

Il pandemonio satanico che esplodeva ogni qualvolta le genti raggiungevano il punto massimo di sopportazione, lasciava sempre una scia di sangue difficile da cancellare. 
So che due generazioni non bastano a riemergere dalle tenebre primordiali della violenza e della sete di sangue. 
L'odio transgenerazionale che brama la morte dell'altro e la vittoria dell'uguale, riesce ad esplodere inaspettato anche quando l'oggetto della sua ira è scomparso dalla terra.
La paura fa si che, figlio dopo figlio, insegnamento dopo insegnamento, i margini delle ferite restino aperti ed un poco sanguinanti, quel tanto che basta per non smettere di ammalarsi di cattiveria e brutalità.
Su queste strade, ancora macchiate di sangue fresco, sotto asfalti neri che celano membra disperse; passano le macchine degli stranieri.
Gli stranieri non sanno niente. 
Non conoscono l'uso della magia ma nemmeno quello della medicina, perché sono stranieri inutili, sono esseri i quali si disperano per la morte di un gattino ma che voltano la testa alla vista del sangue di un loro fratello. 
Gli stranieri dimenticano in fretta.
Li, su quelle strade, il soldato spara ancora proiettili di piombo diretti al centro nevralgico di vite umane, l'infermiera appena violentata si riveste, si ricompone e torna a bendare ai suoi cadaveri con occhi umidi di terrore e rassegnazione.
Lungo le vie dell'antica guerra i vecchi osservano la morte avanzare a passo di danza e ogni tanto si lasciano sfuggire un sorriso perché capiscono che quella è la loro vita, l'unica che conoscono.
Il furto di un  vecchio acchiappamosche può scatenare una breve ma sanguinosa rivoluzione.
L'incenso si consuma nelle chiese fomentando odi millenari, spingendo l'uomo a scegliere, tra le due opzioni, quella che porta alla morte del corpo.
Le ruote rotolano, i pistoni risucchiano nafta, gli assi girano ed il piede preme.
Il venditore di banane verdi arriccia il naso come se sentisse cattivo odore. Gli uomini che brandiscono spiedi di pezzetti di capra come fossero spadoni tentano di arrestare la corsa mentre sudano per il loro caldo secolare.
Le croci si sprecano, sparse ai quattro venti, mutate dall'originale nella forma, nei colori e forse anche nel significato.
Milioni di fedeli passeggiano attorno all'albero dei manghi, senza alzare troppo i piedi lenti, senza sollevare la testa per guardare il cielo.
Milioni di piedi strisciano sulla terra secca alzando nuvole di polvere che impediscono all'occhio di osservare la terra.
Spianano le colline, riempiono le valli, asciugano i fiumi e spengono i vulcani. Scolorano la foresta e riducono il numero delle bestie. 
Dirimono millenarie liti con il solo scopo di uniformare i contendenti.
Giacca e cravatta diventano un bandiera che fa sudare anche i più coraggiosi, l'auto luccicante resta il simbolo di se stessa, mentre la figura del Grì Grì si addolcisce nello sguardo, si umanizza nelle fattezze e perde peso e potere nei cieli e nella terra.
lo sconto richiesto ogni giorno per continuare a vivere diventa un dogma assoluto mentre l'immensa massa fluisce da tutti e tre i punti cardinali possibili.
Un metro, una scarpa, un consiglio ed ecco che le differenze vanno affievolendosi, si distinguono malapena, perse in un luccichio di tasti e virgolette.
Religioni, usi, costumi e credenze diventano ornamenti sempre più simili a quelli del vicino. 
Nord, est, ovest. 
Le masse spingono, utilizzando sottili stratagemmi, spaventate dal proprio numero e non sospinte dalla fame.
Toc toc. C'è nessuno dall'altra parte della foresta? 
Toc toc. Possiamo entrare?
Permesso? Possiamo entrare?
E' possibile passare dall'altra parte senza rimetterci la vita?
Entrate pure signori.
Grazie ed arrivederci.

Coniglio gigante in cammino verso il sole che scende velocemente.
Lo supero, con un battito di ciglia gli scompiglio il pelo bianco.
Guardo nello specchietto-caleidoscopio e vedo venti conigli più piccoli, dritti e riversi in un tunnel abbacinante che mi inseguono senza la vecchia lentezza.
La macchina dovrebbe essere più veloce del coniglio ma a queste latitudini non si sa mai, quindi accelero gradualmente, senza dare ad intendere che forse scappo, che magari cerco di seminarlo.
Novanta all'ora, qualche minuto distratto, faccio finta di niente, poi guardo nello specchio ed il coniglio, più piccolo di prima, ma moltiplicato (per otto, credo) è ancora lì.
Centodieci all'ora. Il coniglio gigante in frantumi è sempre dietro e non accenna a rallentare.
Centotrenta, centoquaranta, centocinquanta…
Il coniglio non molla.
Rallento, tanto è uguale.
Tento il vecchio trucco dello specchio, con una salvietta umidificata lo sfrego, gli lavo via la polvere.
Niente da fare, l'immagine resta, leggermente più nitida ma sempre presente.
Più avanti un foglio di giornale viene sollevato dal vento, sbatte le ali, si innalza… ma non abbastanza.
Sciach. Una pagina mi si appiccica sul vetro.

Congo, più di 200 donne violentate in pochi giorni
Circa 248 donne sarebbero state stuprate, nella Repubblica democratica del Congo, tra il 10 e il 13 giugno scorso da soldati disertori in fuga, guidati dal colonnello Kifaru, nelle città di Abala, Kanguli e Nakiele, nella provincia del Sud-Kivu, nell’est del Paese. Lo rivelano fonti mediche della zona.
Un infermiere del Centro di sanità di Abala ha dichiarato che 55 donne della zona avrebbero subito violenza tra il 10 e l’11 giugno. Nella stessa notte, 72 donne sarebbero state vittime di stupro a Kanguli, mentre il medico dell’ospedale di Nakiele ha precisato che ben 121 donne della sua città avrebbero dichiarato di essere state violentate nella notte tra l’11 e il 12 giugno, notizia diffusa venerdì 1 luglio dall’Onu.
Per il capo del villaggio di Nakiele, Losema Etamo Ngoma, gli stupri e i saccheggi che li accompagnano sarebbero imputabili a un gruppo di 150 soldati in fuga, a piedi, dal centro militare di Kananda, una città a 64 km a sud di Nakiele. A guidare il gruppo ci sarebbe il colonnello Nyiragire Kulimushi, detto “Kifaru”, un ex-soldato Mai Mai dei “Pareco”, i Patrioti resistenti congolesi.
I Pareco sono stati reintegrati nel 2009, a seguito di un accordo di pace con il governo di Kinshasa. Ma l’accordo prevedeva l’assunzione degli irregolari, i soldi però non sempre arrivano e allora i militari allo sbando decidono di prendersi ciò che ritengono sia loro dovuto.
Lo schema adottato dalla milizia di Kifaru sarebbe sempre identico: il gruppo dei soldati prima circonda i villaggi, poi grida a donne, uomini e bambini di uscire dalle case. A quel punto, iniziano i saccheggi e gli stupri.
Ma il colonnello Vianney Kazarama, portavoce delle Forze armate congolesi nel sud del Kivu, difende il suo collega. Secondo lui, le violenze sarebbero imputabili all’azione congiunta di alcune milizie Mai-Mai ed elementi delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda: estremisti hutu fuggiti dal Rwanda dopo il genocidio del 1994. L’ipotesi contraddice però un dato fondamentale che lo stesso Kazarama ha dovuto ammettere: i soldati in fuga nelle boscaglie da tempo si lamentano di non avere nulla da mangiare e da bere.
Nei primi tre mesi del 2010, ben 1244 donne congolesi hanno denunciato di essere state vittime di violenze e abusi: una media di circa 14 stupri al giorno.

Congo. 36.000 bambini soldato tornati a casa
 La buona notizia è che 36mila bambini-soldato sono stati liberati nellaRepubblica Democratica del Congo negli ultimi dieci anni, quella cattiva è che almeno 6 mila continuano a combattere nelle milizie irregolari. I passi avanti sono stati fatti grazie al «Programma di disarmo, demobilizzazione e reintegrazione» coordinato dall’Onu e dal governo congolese con l’aiuto dell’Unicef, di Amnesty international e di diverse Ong internazionali. Secondo fonti mediche della Cooperazione italiana di Kinshasa che dal ’99 è impegnata nel piano internazionale di liberazione dei minori, «la situazione è molto migliorata ma resta critica». «I reclutamenti forzati continuano, soprattutto nei villaggi della provincia del nord Kivu, e i bambini che tentano di fuggire vengono torturati o uccisi, a volte davanti ad altri bimbi, a titolo dimostrativo», spiega all’Agi Paolo Urbano, responsabile del settore sanitario.
A tre anni di distanza dalla Conferenza di Goma sulla pace, la sicurezza e lo sviluppo nelle Province del Nord e del Sud Kivu, i gruppi armati operativi nelle due province hanno violato l’impegno di interrompere i reclutamenti forzati. L'Italia è impegnata in Congo con un finanziamento di 350mila euro nel 2011. L’Opera Don Bosco di Goma è in prima linea nelle operazioni di assistenza ai piccoli soldati liberati. «Il nostro lavoro – spiega ancora Urbano all’Agi  consiste nel reinserimento sociale e civile dei bambini perchè il reclutamento militare sconvolge la loro esistenza. Cerchiamo di dare loro affetto, punti di riferimento, assistenza medica, istruzione e lavoro».
Secondo le stime dell’ Unicef nel mondo sono almeno 250mila i bambini soldato obbligati a uccidere, torturare e farsi a loro volta uccidere. Hanno un’ età compresa fra gli 8 e i 16 anni. Le varie associazioni umanitarie hanno unito gli sforzi creando unaCoalizione Internazionale per fermare lo scandalo dei bimbi soldato e far rispettare la Convenzione di Ginevra che considera il coinvolgimento dei minorenni un crimine di guerra. La Coalizione presenta ogni 3 o 4 anni un rapporto nel quale fa il punto della situazione.Nell'ultimo, uscito nel 2008, erano ben 63 i paesi dove è consentito l'arruolamento di minori nelle forze armate.  Ma in genere i bambini non sono volontari. Spesso sono ragazzi di strada convinti con la promessa di un tozzo di pane o piccoli rapiti e costretti ad imbracciare un fucile

Il foglio di giornale vibra, si disappiaccia dal vetro, scorre accartocciandosi e torcendosi lungo la portiera e poi, con uno strappo, torna a librarsi lento nella mia scia.
Il coniglio gigante continua a seguirmi. 
So che se rallentassi lo farebbe anche lui, so che se mi fermassi lo farebbe anche lui, so che se scendessi e gli andassi incontro si infilerebbe nei cespugli.
Gli stradoni dritti del regno di Buganda finiscono la loro corsa e cominciano ad inerpicarsi in curve e strettoie su per le montagne del Toro. 
La strada sale, si contorce, gira, perde asfalto, guadagna polvere e guarda le montagne lontane.
Questa sera sarò lassù, su quelle montagne lontane da tutto il mondo conosciuto, lontane anni luce da ogni cosa che me ne ricordi un'altra.
Il coniglio gigante mi segue e so che riuscirà ad eludere la sorveglianza armata all'ingresso del villaggio, so che poco prima si inoltrerà nella foresta e riuscirà ad eludere i controlli, so che se verrà visto non si farà riconoscere. 
I sorveglianti alla sbarra sono astuti ma il coniglio gigante è sicuramente più astuto di loro.
"Altolà!" gli viene intimato.
Il coniglio gigante si ferma, si siede mesto sulle zampone posteriori, arriccia il naso ed emette un suono di DO. 
Prolungato ma leggero e vibrante.
"Passi pure signor Colonnello, e ci scusi se non l'abbiamo riconosciuta subito. Porti i nostri omaggi alla famiglia"
Il coniglio gigante con berretto militare e stivaloni neri passa oltre e riprende a seguirmi da lontano, a meno che…. 

La valigia non è mai pronta, a partire pare ci sia sempre tempo, una goccia d'ore in più passata qui sembra sempre vada bene, sembra salubre per l'umore, sembra sbagliato lasciare giaciglio, cuscino e cibo.
Sembra ma non è.
Mi bruciano i polmoni, sono le sigarette, si forse,mi bruciano gli occhi, mi brucia il cervello, anzi frigge, dietro, in basso.
Tremila metri, anzi più. 
Sentieri fangosi, lunghi e sinuosi attraverso basse foreste, piantagioni anzi campi di patate a perdita d'occhio. Qui nel centro dell'universo, nell'immutato mondo che dalla preistoria non ha cambiato ne virgole ne punti. 
Una torsione del collo e poi per forza del corpo, una torsione di trecentosessanta gradi, una vista fuori dal mondo, uno sguardo oltre il tempo, un alito di tenebra che scende lungo il petto a ricordare dove si sta'.
Una corona infinita di vulcani circonda tutta la terra visibile, da sud torna a sud dopo un  giro infinito e completo.
Cima dopo cima.
Quattro ore di cammino e gambe molle, tremila duecento metri di altitudine e testa leggera.
Trentadue vulcani che osservano in cerchio questo piccolo punto, quel piccolo punto, questi piccoli punti.
Trentadue santi o demoni, trentadue divini difensori o sante sbarre di prigione verde. 
Il paradiso non è ad un passo ma è qui, questo è certo, ma somiglia così tanto all'inferno che pensi che tutto ciò che ti è stato raccontato sia bugia o abbandono. 
Campi di patate su donne ricurve, bambini su mosche affamate, terra verde smeraldo su cieli blu come occhi di posti molto lontani.
E camminare, camminare sino a salire solo un poco più in su. 
Passo dopo passo quando sei concentrato.
Cento passi alla volta quando la mente prende il volo verso posti lontani che sono gli stessi di questo dove cammini.
Umidità così intensa che pare di nuotare, nebbia e poi la foresta impenetrabile, la foresta che si fa attraversare solo da ridottissimi sentieri che la percorrono come fili abbandonati. Strisce di fango larghe come un piede e non di più.
Insetti grossi tanto da sembrare pelosi e serpenti striscianti immobili ed invisibili.
Il cielo scompare alla vista e resta il verde a sopperire ad ogni colore. Verde di sopra, di sotto, davanti e di dietro, a destra e a sinistra.
Solo la sottile linea di fango marcio e nero lascia spazio all'immaginazione di altri colori che non siano quelli della foglia.
Milioni di insetti giallastri riempiono l'aria dalle cosce in giù, le mani sono madide come tutto il corpo, sudore che cola e nebbia calda che sale dal terreno.
Ancora cento passi per arrivare ad un"ancora cento passi" che ci permette di farne nuovamente cento.
Un grosso schiocco, uno spezzarsi di rami nemmeno tanto piccoli ci avvisa. Siamo vicini a quegli esseri straordinari.
I sentieri labirintici che ci conducono ai loro creatori, di tanto in tanto si deformano in radure di vegetazione pestata e risorgente, dove qualche raggio di sole rammenta alla mente ottenebrata che la speranza di uscire esiste. 
Prigione e santuario, alberi e liane, tronchi e legna marcia sotto al piede.
L'essere monumentale pasteggia spizzicando foglioline di te verde. 
Non osserva i verminosi e acquosi esseri bianchi che arrancano a fatica, impacciati e stralunati verso il suo dominio.
L'orso ingigantito dal tempo, l'umano primordiale ingrigito dallo scorrere rovesciato dei millenni stacca una foglia, la risucchia con le labbra glabre, volta la testa e guarda negli occhi di quelle creature deboli ed oscillanti che si affacciano nella sua verde realtà osservandolo da uno strappo inciso nella coperta verde del mondo che lo circonda sempre, da tempo immemorabile. 
Il pianeta blu è verde come un immenso ramarro e gli abissi di tempo che separano i due sguardi rimandano il ricordo di una Terra marrone e grigia che forse non fu mai.
L'immenso animale si erge sulle gambe posteriori e, dall'alto in basso, lascia che il suo sguardo calmo inondi i poveri corpi rimpiccioliti dei suoi nipoti smarriti più lontani. 
Lo sguardo di una bestia, lo sguardo di un uomo, le mani di un animale, le zampe di un essere umano, il midollo di una belva i gangli di un cristiano, le paure ancestrali di entrambi, il tocco leggero di una mano sulla gamba come filo continuo che unisce una storia talmente lunga e lontana che annienta in un sol colpo Neroni e Cesari, Colombi e Pascià, vichinghi e piramidi.
Tranne te stesso, niente di più primordiale di questo si aggira sulla terra. Niente di più umano può esistere all'infuori di te di questa creatura nera e argento che ti fronteggia con forza e dolcezza. 
Lo scambio impossibile si perpetua per minuti su minuti. 
Il tocco si ripete ma la distanza è si grande che di nostro fratello non rimane traccia alcuna. 
Troppo lontani abbiamo camminato, eretti un tempo, ripiegati ora come fanatici adoni.     
Pazuzu in questo momento non esisteva ancora, qui, il male lascia il posto vuoto, un posto che la vegetazione ricolma in men che non si dica. 
Fu il cacciatore millenario che si trascinò dietro la belva Pazuzu che però qui si sentì per la prima volta inerme, quasi trasparente, privo di forze, inutile come un Dio.
Le zanne ricurve scintillano colpite dal raggio di sole. 
L'osso emerge dal labbro e divora la fronda, l'animale nero discende di nuovo in forma di animale, ricurva la postura, posa quattro zampe al suolo, si gira e si allontana. 
La schiena d'argento come quella di un toro, il capo acuto come quello di un uomo, il sedere come quello di un antico signore.
La belva, cugina dell'ideatore di tutte le sue paure, si allontana indifferente all'ultimo tocco nel quale ha letto solo paura, nel quale ha sentito impreparazione, dal quale ha carpito il segreto non ancora compreso. 
La foresta si richiude alle spalle del gigante inghiottendo lui, la sua famiglia ed il monumentale abisso di tempo infinito che ci divide.
Liane, alberi e vegetazione ricompongono il tessuto del tempo ricreando l'abisso di milioni di anni che scuote le menti di tutti coloro che non hanno la macchina del tempo.
Forza e coraggio, il ritorno è in discesa, il ritorno è sempre in discesa perché è la strada più facile da percorrere, sempre.
La foresta ti smarrisce e impallidisce al punto da farti ritrarre su te stesso fino allo stadio di piccolo lombrico. 
I labirintici sentieri che dovrebbero insegnarti la strada ti tradiscono come amici invidiosi e lasciano che debba essere tu a decidere ad ogni bivio.
Ma poi il muro del passato arriva e per puro caso lo scavalchi ed i campi di patate tornano ad essere lì, percorsi alla rovescia per apparire nuovamente nel verso giusto, terra e cielo ristabiliscono i loro rapporti, donna e patata, bimbo e …..

…. il coniglio gigante è li che aspetta, non ha passato il muro del tempo perché ne conosce le conseguenze. 
Il coniglio gigante non è troppo interessato a se stesso, è più interessato agli altri, però soffrirebbe molto attraversando il grigio muro del tempo. 
Il coniglio gigante sa che se scavalca quel muro la conseguenza sarebbe la sua completa dissoluzione.
Il coniglio gigante non vuole scomparire perché tiene troppo alla conoscenza degli esseri umani e se scomparisse non potrebbe più comprenderci, studiarci, seguirci, migliorarci o peggiorarci a suo uso e consumo.
Il grigio muro del tempo fa soffrire il coniglio gigante perché di la da quel muro succedono cose che lui non sa, di la dal muro accadono eventi che provocano cambiamenti che lui non capisce. 
Di la da quel muro c'è un vasto strappo nella conoscenza che lo lascia a bocca aperta, sbigottito e qualche volta arrabbiato.
Il coniglio gigante, oggi, per la rabbia ha distrutto mezzo campo di patate facendo scappare le donne coltivatrici ed i bambini.
Le donne coltivatrici non vedono di buon grado le persone che scavalcano il muro perché sanno che poi, il più delle volte, il coniglio gigante si sfoga sui loro campi.
Ma noi, noncuranti riprendiamo la strada in discesa, saliamo in macchina e guidiamo dritti e veloci in mezzo a quel posto dove il coniglio gigante capisce l'uomo, ci dirigiamo rapidi verso la Guerra.   





18

GUERRA
di Primo Campos
traduzione dal castigliano di Romina Farias

     Guerra male dell'uomo, o uomo male di tutte le guerre?
Salta su che ti do un passaggio sembrano dire le guerre agli uomini che osservano il fiume.
Che possa la vita divenire un deserto in lunghi anni senza guerre? 
Chi può saperlo? 
Non certo la nostra storia, la storia di questo mondo che non conosce ere di pace. Un litigio, una litigata, una scaramuccia, una scrollata, una rappresaglia, una protesta, una sommossa, una battaglia, una guerra.
Altrimenti, con il caldo del pomeriggio la palla di neve si scioglie lentamente e resta una piatta distesa bianca.
Il significato non corrisponde all'aspettativa, il senso dello scontro non sta mai nel fine e nei partecipanti, niente vinti ne vincitori, tutti vincenti coloro che sopravvivono a scapito dei morti. 
Il morto, uno o migliaia, è il residuo di un mutamento ineluttabile quanto le sabbie del nord, quanto le sorgenti del fiume, quanto questa savana che stenta a cominciare.
La rivoluzione, tanto desiderata, sostenuta, voluta, mitizzata, non è altro che fucile e preda, pallottola e torace, coltello e sangue, violenza e occhi umidi.
Guerra è un altro nome. 
Non c'è giusto o sbagliato, non esiste nemmeno più un sopra od un sotto. 
La tirannia cade ed il popolo uccide, la democrazia sorge e qualcuno soffoca l'invidia nel malumore, nel malcontento, nell'animosità, nell'irrequietezza, placate da una tv gigante e da un'auto alla portata delle tasche più misere degli uomini più pigri.
Salirebbe dunque un ruggito se mai lo potessimo udire. 
Ma se l'orecchio fosse adatto ad udire antichi suoni si scomporrebbe il grido di guerra del leone in un milione di belati gementi, noiosi ed annoiati che mai salgono l'uno sull'altro, mai si distinguono per paura di essere uditi singolarmente.
Scopri, se ascolti con concetto, che la pecora laggiù sulla destra, grida cose che il suo vecchio Dio non voleva sentir dire, la sua smania di ribellione, di libertà, di autoaffermazione si lascia andare in pubbliche parolacce ed in tatuaggetti "pseudomarinariannicinquantasessantaoldstylescorpioncinofarfallasignifacantiprofondiconcetticinogiapponesidibaliegittoindiafinesettantaconcamaleonteedindianonorddakotamortodivaiolounsecolofa".

L'odore del culo della star del rock scende dal palco come una densa nebbia. L'uomo è libero di agitare le proprie natiche nude sul palco della vita, è libero di esprimere un sesso che non è suo e nemmeno di un suo lontano parente, liberi tutti di fare quello che vogliono. 
"Scopa pure tuo cugino e tua sorella assieme" gli dicono i potenti strizzando l'occhio, dipingiti il capello e le unghie, sii più strano che puoi, perché sei libero di farlo, anzi di esserlo, l'importante, ma questo non te lo dobbiamo dire, è che tu faccia ciò che ti viene detto e sopratutto che tu sia come ti abbiamo insegnato, che tu non dica ciò che non va detto.
In fondo che ci importa se l'elettorato è nudo, dipinto o canterino, l'importante e che tutti sappiano scrivere il loro nome e se proprio non si ricordano come si fa non c'è problema, facciamo in modo che basti apporre una croce.
Sei libero, in questo tempo di pace di esprimere le tue idee, tutte, tranne quelle che tutti non vogliono sentire.
Basta che tu sia "politicamente corretto", che non tocchi i nuovi dogmi del ben pensare ed allora puoi dire e fare ciò che vuoi.
Puoi fare sesso di gruppo in una stanza adiacente al bancone del bar e questo non è male; ma non dire handicappato!
Puoi fumare un pezzetto di hascisc in libertà sommessa ma non dire mai che tuo nonno, quello che la mamma si vergogna quando parla, aveva ed ha ragione, no questo no. 
Invece va bene quello che dice l'altro nonno, quello che invece che essere onesto e serio, si gioca un quarto di pensione al bar e cristona contro coloro che gli permettono di farlo.
Le sigarette fanno male mentre la "droga bianca" è tutelata come un conto in banca.
Sei libero di acquistare una tv grande come un cinema ma non di possedere "Cannibali e re" o "Sterminate tutti i bruti".
Hai l'infinita scelta di mille canali tutti uguali ma non quella di rigirarti per le mani uno Zarathustra commentato.
Puoi andare dove vuoi in quei quindici giorni di libertà ma non quanto vuoi, perché  il tempo e le distanze sono una miscela troppo esplosiva.





19

CONGO DUE
di Luca Oddera

Il coniglio gigante è ora fermo, accovacciato a pallina e freme facendo vibrare il pelo. 
Il coniglio Gigante fremendo produce un rumore spezzettato come di foglie secche ancora sull'albero che vibrano colpite da leggere raffiche di vento.
Il coniglio gigante non parla ma produce rumori più comprensibili delle parole.
Il rumore che sento ora non mi piace per niente. 
Sono attratto da queste frontiere come un orso dal miele e pare che nulla possa interporsi tra me e lei.
Anche quando, per finta, tenti di non oltrepassarla lei ti attira come una calamita ed in un secondo sei dall'altra parte, di nuovo in quel mondo parallelo al nostro, in quel mondo tenuto nascosto a tutti, in quel mondo che non conosce ne capelli colorati ne sesso di gruppo libero.
Salti dall'altro lato in men che non si dica e scopri che la vista del tuo bianco torace è sconveniente se non vietata, che la nudità al bagno pubblico non è un problema perché il corpo nudo è creatura di dio, ma che la donna che ostenta un seno abbondante nell'ombra della notte è una prostituta del demonio.
Qui Gesù è redentore e le armi sparano verso gli uomini, i carri armati cingolato cigolano verso le città e non verso i musei, i fori nella pelle non sono ornati da orecchini, ma contornati da pelle nera bruciacchiata.
I capelli lunghi non sono veri, quelli corti sono solo neri.
In questo mondo il costo giornaliero per mantenere un capello lungo pulito è pari a quello di un giorno di cibo per il tuo bambino.
In questo mondo essere ignoranti non è una libertà come nel mondo da cui arrivo, qui un libro è un oggetto di valore, anche se non è nella lingua desiderata.
Qui, andare a piedi scalzi, non è una forma di ribellione molliccia e perdente, ma un modo per morire prima.
Qui il riciclo dei beni di consumo non è un detergente per le coscienze di coloro che sprecando mille e riciclano uno. 
Qui si usa dieci, si ricicla dieci e si lascia zero a morire sulla terra calda.
I signori degli attentati vivono lontano da questa miseria, i signori delle guerre anche ed i signori della pace stanno più alla larga possibile da questo posto dove vivere e morire sono la stessa cosa.
"Il Congo è la nostra Africa interiore". 
Quel posto che c'è ma non si vede, quel posto che è l'essenza di tutti i viaggi, quel posto che il viaggiatore evita come la peste ma che ricerca in ogni ostello, in ogni albergo, in ogni città, in ogni savana che visita.
Gli spari echeggiano nella notte e gli occhi gialli dei soldati dimenticati si chiudono solo al mattino, stanchi e spaventati come quelli di un bimbo insonne.
I fiumi marroni scorrono lenti attraverso vallate preistoriche ed abbozzi di strade tentano di percorrere maestosi scenari perduti.
Attraversare questo territorio è un privilegio unico, da la sensazione rara di essere in pochi sulla terra. 
La paura viene sconfitta naturalmente dalla meraviglia e dal dolore, dalla stanchezza e dalla gioia.
Il volante vibra, i militari attaccano, l'esercito minaccia ed i ladroni ammiccano, mentre un bimbo si avvicina e chiede una caramella, di qualunque gusto, colore e marca, basta che contenga un poco di zucchero dolce.
Il tragico permea la vita di queste vallate come un liquido denso e vischioso annullando quel senso di infinita attesa che impregna la nostra ricca ma povera società. 
Qui il sorriso è aperto e la brutalità non repressa non si trasforma in piccola cattiveria quotidiana.
La cattiveria gratuita del nulla.

Tududum, tududum, tududum. 
Scrolloni, colpi frenate sterzate e tonfi. 
La strada sembra non finire mai.



20

CAMMINA NELLE FIAMME
di Joseph Banda
tradotto dall'inglese da Pierre-Yves Raoult

Cammina nelle fiamme,il bambino con riccioli bruciati.
Lascia la corda la madre, il secchio scivola nel pozzo.
Nessuno conosce con esattezza quanto sia bruciato il bimbo,
quanto sia profondo quel pozzo.
Alcuni sostengono che vada sino al centro della terra. 
Altri lo negano dicendo che se così fosse l'acqua sarebbe calda.
Ma l'acqua è abbastanza calda.
Pianti ed urla echeggiano per il villaggio. 
Disperazione e grida. 
Un vecchio corre lento verso la sua capanna. 
Due uomini trasportano il bimbo in fiamme verso un'altra capanna. 
La madre urla, si dispera, insegue i portatori.
Il bimbo viene disteso su di un giaciglio all'ombra. 
Geme il bambino, ansima la madre, arriva il vecchio.
Un unguento che forse darà un sollievo che forse guarirà le ferite, che probabilmente non farà niente.
Sale la febbre scendono le tenebre. Torna il sole tra dolori d'anima della madre che sta' per perdere il cuore un'altra volta ed i dolori silenziosi e mortali del bimbo con la pelle che si stacca.
Un giorno d'inferno scorre assieme al sudore, un giorno di infezione, dolore e paura.
Il villaggio si ritira in silenzio al crepuscolo. 
Le donne si chiudono nelle capanne immaginando il dolore, il coraggio, la rassegnazione di quel gesto che compiendosi ogni volta che i mali sono troppo grandi, firma la loro perpetua condizione di miseria.
Uno straccio umido si posa deciso sulla bocca del bambino tremante. 
Decisione e fermezza della mano, delirio e tristezza degli occhi.
Pochi sussulti resi incoerenti dalla febbre. 
Un ultimo sguardo attraverso occhi più grandi della luna.
Tutto è finito. 
Anche il dolore più grande finisce.
Dopo trentasei ore di dolori e convulsioni il bimbo riposa sul giaciglio. 
La mamma, accasciata sulla stuoia ai piedi del lettino fatto di ferro vecchio e paglia nella stoffa, piange senza sapere perché.
La notte è lunga nella solitudine di chi si accompagna ad un cadavere.
Il sole è presagio di verità nelle mattine che seguono le tenebre dell'incubo.
Poco discosto dal villaggio, un uomo, sorpreso dai primi raggi del sole, sta' scavando una piccola buca nel terreno rosso.



21

CONGO 3 : A PASSEGGIO CON LA BANDIERA
di Luca Oddera

Quando l'uomo, qualunque uomo, entra qui torna ad essere una bestia.
Uno sparo non serve a far sorgere un breve interrogativo. Uno sparo fa scattare i muscoli della schiena e del collo. Ti acquatti? Ti volti? Ma non fai domande.
Viaggi secolari di sterminio, conquiste e marce forzate attraverso villaggi di morti. Scie di sangue lunghe secoli. Tutto questo non ha smesso di esistere.
Viviamo in mondi sospesi, trascorriamo anni di storia in cui il nostro giudizio rimane sospeso a causa della sicurezza imposta da fragili leggi territoriali e morali confinate entro ridottissimi spazi mentre  il resto del mondo vive di carne e sangue come mille anni fa.
Nessuna paura è più grande di quella che assale gli uomini bianchi immersi nelle tenebre della storia, il loro cuore si calcifica in un tumore nero che ricorda miti passati e lascia tracce negli occhi e nei pensieri.
Si rivoluzionano tutte le conclusioni alle quali si era giunti con fatica, si rivoltano tutti i dogmi imposti con bastone e carezza, lasciando trasparire interiora ben diverse da quelle che ci saremmo aspettati.
Nessuna nefandezza rientra nel nostro impianto morale, nessun comandamento dirige il nostro spirito religioso, nessuna certezza sorregge più le nostre decisioni.
Le mani, i piedi, la fame, la sopravvivenza. 
Io uccido!
Ecco ciò che resta di migliaia di anni di storia. L'arma meccanica può sopperire al bastone, il veleno al sasso. 
Le risate sono lunghe e frequenti come gli atti di morte e non stupisca questa esagerata ilarità, perché è il trucco che usa la mente per non vacillare, è la pigmentazione multicolore del camaleonte, la pezzatura della giraffa, lo scatto del soldato nell'udire lo schiocco del fucile.
Non lasciamoci sorprendere dalle tenebre, non lasciamo che la truffa si insinui tra noi ed il nostro interlocutore, non lasciamo che capiscano che abbiamo paura, puntiamo invece sulla forza, l'inganno, l'essere spietati più di una belva.
Io attraverso queste regioni con cautela e mi nomino arbitrariamente "uomo moderno" per eccellenza, distinto dagli altri da caratteristiche ben definite: paura del buio, del diverso, della morte, della malattia; insicurezza nelle strategie nel rapportarsi agli altri, a me stesso, all'ambiente; moralità assorbita nei comportamenti casalinghi dei nostri piccoli "stati-villaggio" dove le ombre non si allungano che di pochi centimetri più di noi.
Ecco che allora il corpo appare molliccio e la mente debole e solo l'ignoranza nei nostri confronti ci salva dall'essere divorati.
Passeggio a piedi e con la macchina per queste strade di fango, ora ben cosciente di essere un mito. Nascondo armi sconosciute, una forza sovrumana, capacità intellettuali degne di un superuomo. Sono una specie di divinità scesa dalle stelle e questa credenza mi salva dalla rapida sottomissione a popoli forti ma ingenui.
Questa volta solo quattrocento chilometri mi separano dalle suore che sono mamme, sorelle, amiche e, di volta in volta, salvezza e misericordia.
Quattrocento chilometri che condensano esperienze molto più lunghe, profonde e definitive. Quattrocento chilometri che sono il riassunto di viaggi interminabili attraverso continenti di alberi e morte.
Questi quattrocento chilometri deflagrano in una nuvola scintillante di immagini, momenti e sogni che sono la riscoperta dell'essere umano.
Quattrocento chilometri che sciolgono il nodo del bavaglio che ci hanno costretto ad indossare negli ultimi cento anni di vita.
I paraocchi cadono, non senza difficoltà, poiché il sistema agisce in modo che certi luoghi, certe credenze, certi uomini e certi comportamenti ci siano preclusi. Solo la tenacia, l'incredibile voglia di farlo, l'incoscienza ed un vago senso di mancanza permettono di attraversare certe frontiere, di oltrepassare quei muri eretti con sapienza, di superare le barricate e gli ostacoli che si frappongono tra noi e questo mondo.
Il viaggio per arrivare qui comincia venti anni prima. Scali un'alta collina, con fatica e quando getti lo sguardo sul panorama dalla sua cima non sei soddisfatto. La pochezza dei panorami ti impedisce di scorgere ciò che cerchi.
Poco più in là. al massimo oltre a quel promontorio, ecco una casa, una strada, un ponte, che frenano la tua immaginazione come uno schiaffo mentre sei assorto.
Gli spazi che separano quello che cerchi da quello che potresti trovare sono così spesso interrotti da altre idee, progetti di altri e brandelli di storia, che proprio non puoi fare a meno di volgere lo sguardo prima ed i piedi poi verso terre senza sbocchi sul passato.
Dopo la lunga strada fangosa che discende la montagna arrivi ad un bivio dove l'asfalto è così devastato da parere antico.
Alla mia destra posso andare verso nord. Alla mia sinistra verso sud. Nei prossimi mille chilometri, in una o nell'altra direzione, le cose non sono poi così diverse.
Solo il desiderio di arrivare, più o meno, dove mi ero prefissato di arrivare, impone la scelta.
Mezzo giro di sterzo e la macchina comincia a sussultare tra le buche dell'asfalto.
Uomini neri come la notte dell'uomo, camminano in fila indiana con le vecchie uniformi esageratamente pulite. Occhi gialli e neri, baschi viola e fucili mitragliatori. Armi semi automatiche, pistole e lanciarazzi, coltelli dalle lame consumate, anfibi screpolati ma lucidi e ingrassati. Fischietti e fazzoletti da spalla viola. Spille porpora e cinturoni di cuoio verde.
Le persone si scostano, trasportano banane e non portano scarpe. Le dita dei piedi sono fessurate e quelle delle mani indurite da calli neri e spessi. Le case sono baracche, catapecchie, rimesse sistemate a mò di abitazione. I cortili sono spiazzi di terra troppo angusti se paragonati alla vastità che li circonda. le siepi sono poveri arbusti della foresta trapiantati in giovinezza ed i cancelli rami nodosi legati da stracci consumati.
Iniziano così questi quattrocento chilometri che non mi fanno più paura perché ormai li conosco, non saranno peggio dei sentieri già percorsi. Resta solo l'incidente, la sparatoria, l'arresto, in una parola il fato. Ma il fato tende trappole anche lungo le comode vie illuminate delle nostre città-vetrina, quindi è un dubbio con il quale sono abituato a convivere. la paura dell'ignoto è stata sconfitta già non una ma più volte, eppure oggi, qui su questa strada, non avrei ne la forza ne il coraggio di affrontarla nuovamente.
I prossimi quattrocento chilometri sono un viaggio di giorni e giorni che sovverte la nostra idea di distanze. I prossimi quattrocento chilometri sono un parossismo inverso della razza umana. I prossimi quattrocento chilometri racchiudono i ventimila già percorsi con la mente immobilizzata in un solo pensiero: arrivare.
Meno trecentonovanta.

Discorso dell'albero (che fa da intermezzo)

Sono fermo e faccio ombra mi disse una volta l'albero. Sono fermo si, ma se ti metti sulla mia strada allora mi muovo e tu perderai tutti i tuoi aggettivi, perderai i contorni, piano piano anche i colori. 
Potresti perdere i denti, e magari anche le unghie.
Se ti metti sulla mia strada, disse l'albero prima o poi, perderai la vita. Perderai le meglio opportunità, smarrirai la strada e tornerai nel limbo di BuBu. 
Diverrai vulnerabile e quasi trasparente, debole e senza sostanza.
Guarda questa corteccia, senti queste radici, godi di queste fronde. 
Io sono il tramite tra la terra ed il cielo, trasformo l'aria in acqua e l'acqua in aria, sono nido e burrone per gli uccelli, fuoco e riparo per gli uomini, sogno e realtà per le vostre donne.
Ma non metterti sulla mia strada!
Ecco perché gli uomini della foresta parlano con gli alberi e se non li conoscono bene non vanno a vivere sotto alla loro ombra.

L'uomo con la bandiera è un poveraccio che ha messo l'onore di un regno inventato davanti alla cura per i suoi simili.
L'uomo con la bandiera stracciata cammina al lato della strada con passo da mendicante e non vede le buche che lo indurranno ad inciampare.
La strada sale tortuosa come una biscia allontanandosi dal lago. 
Si aprono scenari meravigliosi che sono finestre sulla preistoria, sono scorci di un passato non tanto dimenticato quanto sconosciuto e tenebroso. 
Niente, anima l'incomprensibile conoscenza del remoto, come questa piccola valletta alluvionale dove un immenso serpente marrone scorre come se fosse un fiume, dove le grandi foglie umide luccicano del sudore della terra.
La strada, le case ed i villaggi sono un miraggio temporaneo, talmente esili ed inconsistenti da non essere di impiccio alla mente ed al cuore.
Ecco ciò che cercavo, ecco che una volta trovato non si lascia afferrare perché ormai non sono più un essere in grado di sopravvivere con me stesso e l'ambiente.
L'uomo qui ha lasciato solo rovine, si muove su relitti macilenti e non riesce a condurre l'acqua alla sua dimora. 
Un ponte ormai vecchio e malandato, cadente e pericoloso è tutto ciò che resta degli umani progetti. 
La terra arriva al fiume e l'uomo non è in grado di condurre il proprio cavallo di ferro arrugginito sull'altra sponda.
Le foglie di banano, a migliaia, sono sistemate a formare un selciato morbido e cedevole che nasconde l'abisso alla vista, ma non protegge dal precipitare. 
L'occhio cieco non ha paura del baratro sino a quando non si sente cadere.
L'uomo con la bandiera attraversa i pochi ponti camminando sul margine esterno del traliccio, i vecchi sputano nella sua direzione, le donne si ritirano ed i bimbi gli lanciano sassi di scherno ben attenti a non colpirlo per davvero. 
Se colpito, porterebbe malasorte a tutto il villaggio.
L'uomo con la bandiera si è perso in un sogno che nessuno ha mai realizzato e si crogiola in quei pensieri senza sapere che lo chiamano pazzo.
La sua bandiera è diventata uno straccio gri-gri lavorato non dall'incantesimo ma dal lungo tempo passato lungo la strada accompagnato dalla follia.
Tutti sanno quanto possa essere deleterio un incontro ravvicinato con costui ed è per questo che chi sa del suo arrivo lascia ciotole di brodo lungo la via, mucchietti di banane bene in vista sui sassi ombreggiati, sigarette deposte su pilette di bastoncini.
Qui il dio della possibilità è molto più potente del dio della certezza e quindi resta sconveniente non abusare di qualche piccolo trucco o sacrificio. 
Qui la notte è lunga; dodici ore separano la luce dalla luce. 
Metà del giorno immersi nel buio è un tempo troppo lungo per far fina che non esista ed anche se la terra su cui cammini è sempre la stessa, hai bisogno di un tramite tra questo mondo e l'altro.
Spari lontani riportano la mia mente alla realtà ed i miei occhi sulla strada. 
Curve su precipizi vertiginosi aprono vedute infinite su valli dove la vita spurga da ogni poro di ogni essere.
La strada diventa il letto di un ruscello fangoso dove anche l'uomo a piedi inciampa e scivola come un bimbo su gambe incerte.
Una curva via l'altra il villaggio ci vede arrancare verso di esso e come da copione, si affolla per attenderci. 
Monuc biscuit, Monuc bon bon. 
La tiritera è sempre la stessa ed i visi, per quanto uguali, sempre differenti.
Non siamo Peace Keeper, non siamo guerrieri distruttori, non siamo nemmeno medici e nemmeno siamo qualcosa mandato da qualcun altro. 
Siamo solo qui di passaggio per arrivare là e questa spiegazione non accontenta mai nessuno.
Il non far parte di un assetto più grande, il non avere caramelle da distribuire, il non avere una meta poi così precisa, destabilizza l'interlocutore che nemmeno può credere che la nostra conoscenza della sua lingua sia così esigua.
Alla fine, spesso, quello che portiamo è delusione.
Niente doni ne promesse, nessuno spiraglio di salvezza o cambiamento, solo la certezza, per i più piccini, che l'uomo chiaro non è una leggenda ma un carovaniere che esiste e che ogni tanto, come un antico zingaro, passa suonando la sua fisarmonica fatta di tubi e cilindri.
Scorre l'auto tanto attesa di fronte agli occhi enormi del bambino; scorre via. 
I rossi lumini posteriori ondeggiano tra le buche e le crepe della strada. 
La curva inghiotte la visione; pochi minuti e la polvere scende nuovamente sulla strada.
Il bimbo resta lì, confuso, contrariato, insoddisfatto e deluso.
Uno spintone da dietro lo riporta alle sue strade di fango e di polvere, ai suoi giochi, al seno di sua madre.   





22

QUATTRO CHIACCHIERE CON IL MORTO
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello

"Paura del buio" ha visto la luce per la prima volta sulla Cordillera che separa un oceano dall'altro. 
Paura del Buio sa che su quelle montagne non è mai salito ma ci è andato vicinissimo. 
Paura del buio sa che da un lato ha visto l'oceano e dall'altro solo un grande lago: ma l'immaginazione è l'arma che aiuta a spiegare un'invenzione. 
La luce, poi, si è riversata nei suoi occhi mille e mille volte; la luce di questo mondo, così difficile da vedere se non attraverso un sottile velo commosso di lacrime.
Così la luce venne ricercata nel più fitto della tenebra e li, Paura del buio, si accorse che la luce non può raggiungere gli occhi.
"E' buio il cuore di questo mondo" disse un giorno Paura del buio al cadavere di un soldato di nove anni. 
"La luce è un invenzione della nostra anima e non serve a schiarire le tenebre quando esse sono fitte come in questo strano posto" continuò.
Il cadavere del soldato bambino disse che nemmeno dove era appena andato lui c'era luce.
Paura del buio capì che quella terra nera era un segnale di monito e quindi fece girare gli ingranaggi della ragione per mettere le cose a posto. 
Pochi minuti ci vollero per capire che "la ragione" è un piccolo impianto di dissalazione della realtà, un piccolo insieme di filtri ed ingranaggi che funziona solo laddove ce ne sia bisogno, un delicato sistema che tiene a galla la barchetta dell'umanità. 
Il cadavere del soldato bambino fece uno sforzo immenso per aprire gli occhi e mostrare le orbite vuote a Paura del Buio. 
La luce che filtrava attraverso quei grandi buchi neri gettò un'ombra sulla mente spenta del cadavere che riuscì comunque a parlare senza che i grassi vermi gli si riversassero fuori dalla bocca: "Qui le bestie usano un altro sistema, oscuro ed incomprensibile, più umano e più vero, ma poco congeniale all'uomo che teme le tenebre".
La ricerca della luce è uno stato di angoscia profonda, è la ricerca di una verità soggettiva che dia pace allo spirito indomito dei nostri antenati, il quale si condensa in piccole gocce di sudore sulla nostra fronte. 
Il movimento continuo sulle lunghe distanze, è un buon sistema di comprensione generale delle cose che ci stanno attorno, sicuramente non il solo, non il più profondo e nemmeno il più affidabile, ma certamente il più attendibile per quanto riguarda i principi basilari che regolano l'esistenza."
"Sono dispiaciuto" disse allora Paura del Buio al cadavere del soldatino guardando però oltre il fiume, anch'esso nero come la notte.
"Non essere dispiaciuto per me" rispose il cadavere cercando di guardare anche lui oltre il fiume, "Sii dispiaciuto per te che cammini sulla terra di altri per portarti via qualche risposta che a casa non riesci a trovare."
Un tonfo al cuore percosse Paura del Buio.
"Non dispiacerti per questo corpo morto" continuò il giovane cadavere " disperati piuttosto per ciò che non sei mai stato, disperati per tutto quello che non vedrai, ma non dispiacerti di questo momento perché sarà una delle poche cose che andranno a far parte del tuo magro bottino quando lascerai queste terre."
Paura del buio raccolse tutto il coraggio sprecato nella vita e si accovacciò accanto al cadavere, abbassò lo sguardo e fissò quelle profonde orbite vuote."
"Come ti chiami soldato?"
"Non devi sforzarti di guardare questo buio" disse il soldato bambino "non ne hai bisogno, guarda pure lontano, osserva l'albero, la pianta o il fiume, siamo la stessa cosa, ora."
Paura del buio restò immobile e ripetè la domanda: "Come ti chiami soldato?"
"Mi chiamo Pay Pay e mio padre si chiamò Nlaza, suo padre Nimi ed il padre di suo padre Mpanzu. Se non fossi morto sarei vissuto fino a cento anni e, in un caldo pomeriggio di sole, avrei forse incornato tuo figlio in un piazzale di terra, gli avrei raccontato una lunga storia inventata che parla di un piccolo coniglio e gli avrei regalato una grossa e matura papaya. Ma le cose non vanno sempre come dovrebbero."
Paura del Buio era dispiaciuto comunque e sopratutto di lasciare lì da solo il cadavere del bambino. 
Gli disse che non voleva andarsene, che avrebbe voluto restare li, accanto al fiume a tenergli compagnia. 
Il cadavere del soldatino sussurrò: "Non stare in pena Paura del Buio, vai dove devi andare, è tardi e tra poco arriveranno le tenebre. Non puoi restare qui. Vai a cercare la luce anche questa notte, vedrai che la troverai, la luce di una candela, forse quella di una lampadina. 
Queste sono le luci che potrai trovare, ma nulla più, almeno fino a domani"

Paura del Buio si allontanò seguendo un sentiero rosso, sottile come una stringa, scostando piante sudate e tergendo la propria fronte bagnata. 
Lontano i rumori del villaggio lo fecero sentire un poco più tranquillo, voci umane arrivavano fino a li. 
In meno di un'ora sarebbe arrivato all'accampamento e se non avesse trovato le candele, quella notte, avrebbe acceso i fari della macchina.


24

MORTE
di Un Uomo
traduzione dal silenzio di Un Uomo

La ancor piccola creatura dal cuore nero, ammalato del male supremo, si lascia sconfiggere da un dolore troppo grande cui i cuori umani non possono far fronte.
Troppo facile non credere nel padre supremo che donò un figlio ad un dolore. 
Troppo facile fuggire nell'una o nell'altra direzione quando il tuo benamato cucciolo soffre di morte più del figlio divino.
Tutte le lacrime si asciugano prima di toccare terra tranne quelle dell'uomo prostrato e distrutto che ha annientato la sua distanza dal suolo.
Le lacrime che cadono da uomini quasi interrati toccano il suolo e favoriscono il germogliare di pene e dolori, amori e gioie; non si asciugano in invisibili nubi prima di toccare la terra!
Immense distanze, diventano pochi metri invalicabili, ma nulla al confronto dell'abisso generato dal cessare di ogni sua parola, gesto o pensiero.
L'immenso baratro cessa di esistere nel mondo e si rintana nel cuore già malato creando una nicchia di vuoto più grande del suo contenitore.
Da qui in poi la strada è in discesa, senza buche ne imprevisti; dritta fino all'inferno.
Questa volta non basteranno antichi e moderni riti e miti, poesie e romanzi che succhino la vita degli altri per farsi riconoscere dal tuo cuore perduto.
Questa volta non basteranno lacrime di grano incastonate nel perfetto ovale del moderno alambicco in cui fermentano sogni e disordini.
Questa volta ne l'ultima ne la prima voluta di fumo denso riusciranno a saturare polmoni che, ormai inerti, non accettano conforto alcuno.
Questa volta nemmeno quel sole di un altro mondo, che ogni tanto guizza dietro la bassa collina del paese dei sogni, basterà a scaldare il freddo dell'incomprensibile visione del feretro panciuto e oblungo.
Lascia le ossa alla terra che di sassi non ne ha mai abbastanza.
Lascia i tuoi liquidi ad un avido terreno asciutto di umori.
Dimentica nell'aria il tuo ultimo pensiero.
Sospira un'ultima volta rivolto al cielo di cemento che sempre sovrasta ogni schema.
Sdraiati ed aspetta che il prossimo respiro si compia da solo, senza che la tua volontà lo richieda.
Dormi un sonno tranquillo perché, uscito dall'incubo, nessun mare sarà più in grado di cullare il tuo riposo; nessun suono raggiungerà più la tua anima profonda che la morte ha reso assente ed inebetita.
Non saranno più il sole e la pioggia ad asciugare o bagnare le membra stanche di una vita di ritiro.
Gli affetti umilieranno tutte le direzioni prese in passato e renderanno inutili e sbagliati tutti gli atti che avranno da venire.
Non avrai più nulla da vedere, pensare, sentire, dire. 
Sarai un sasso assiso sul sofà di legno che aspetta il suo ultimo cambiamento: quello che lo trasformerà in polvere. 
Senza dolore.
Di tutto questo nessuno sa niente e le parole che giungono da lontano non sono dirette al tuo orecchio ma alle stesse autonomie che le pronunciano.
Scivoleranno da lontano suoni dolci come il miele che anche per un solo secondo, pur cercando di darti un rimedio, non ci riusciranno.
La cura che resta è un sonno eterno che purtroppo non esiste.
Quindi dormi un sonno tranquillo perché, uscito dall'incubo, più nessun mare sarà in grado di cullare il tuo riposo.





25

UN PO DI FRESCO IN QUESTO CALDO
di Luca Oddera

 E mentre la strada corre e scorre come un fiume al contrario, mentre le comparsette non pagate perché di colore troppo scuro per ravvivare la scena, mentre un'altra sigaretta scivola in brace e poi in cenere, mentre l'auto continua a scendere verso un sud immaginario di sabbie mobili e spiagge tempestose, lassù nel mondo abbandonato per pochi secondi, scende il freddo gelo di fine autunno.
Lassù le foglie cadute cominciano un lento ciclo di decomposizione e le bianche bacche, tradite da un momentaneo abbaglio di calura estiva, si riattivano ed i cespugli grigi si macchiano di tondi pallini che sono il ricordo di imminenti nevicate. 
Il gelo entra nelle ossa dei senza casa ed il cancro procede lungo le vie dei malati. 
Il grigio si impossessa delle menti di tutti e tutti si adagiano in un sonno mesto in attesa del prossimo colore, sia esso bianco o nero. Sia esso caldo o freddo.
Le miserie dell'uomo si trasformano in piccole cattiverie e tradimenti di stagione; tristi e freddi come le mani che accarezzano la pelle sul sedile posteriore di un'utilitaria parcheggiata nell'inedito talamo di una piazzola di periferia.
L'uomo annuncia la sua venuta con fari nel buio e rombi di motori nella nebbia, mentre le creature infreddolite si scostano quel tanto che basta per non essere viste, per non essere udite, per non essere toccate.
Le malelingue aguzzano quella punta d'ingeno che i loro cuori, piccoli cuori, gli permettono e sfornano giochetti da attoruccolo di avanspettacolo e godono di semi che danno loro frutti tanto vecchi, stantii ed ammuffiti che vengono scartati persino dal maiale.
Facce sempre più pallide si confrontano in battibecchi e discussioni che portano lontano quanto l'arco di uno sputo.
Così, tristi ed irritati, insoddisfatti ed incoerenti, gli omuncoli e le donnette del freddo, recitano la parte che meglio gli si adatta; quella di coloro che giudicano a vuoto. 
Copiano il compito del compagno di banco ed adorano con invidia l'alloro del piccolo imperatore, rotolano nei letti freddi di persone sconosciute che frequentano tutti i giorni della loro corta vita.
Ecco però che l'immagine immaginata è la stessa proiettata dallo specchietto retrovisore della macchina, lo sguardo è lo stesso che osserva le curve snodarsi, lo stesso che questa sera poserà gli occhi su un nuovo tramonto di origine aliena, fatto di una materia estranea a questi agglomerati, fatti a loro volta, di sbuffi di fredda condensa che odora di saliva.

Non tentare di fermare l'onda prima che arrivi sulla costa, sarà lei stessa ad infrangersi, a perdersi ed a farsi dimenticare come un qualunque flusso passeggero.




26

LA STORIA DI PAY PAY
di Luca Oddera

Dopo tanti, tantissimi chilometri, così tanti che fermarsi sembrava, all'uomo bianco, un lusso troppo grosso, ecco che il destino ti rallenta e poi ti impone un insolito ritmo immobile.

Venti giorni bloccato in un villaggio senza pane ne acqua, senza una birra che ti rinfreschi, senza un vino che ti dia sollievo, ogni incontro è fonte di distrazione.

Un antico vecchio, unica testa dai capelli bianchi che vedo da mesi mi si avvicina, mi regala una papaia acerba, mi sussurra il suo nome incomprensibile e poi, seduti di fronte ad una bottiglia di acqua torbida ci scambiamo qualche parola.

"Ho una storia da raccontarti" mi dice.
"Che storia?"  chiedo.
"Una storia di conigli" mi risponde tirando fuori dalla sporca camicia un consunto ciondolo a forma di coniglio che corre e facendomelo dondolare davanti agli occhi, come se volesse ipnotizzarmi……..come se volesse fare in modo che cada sotto qualche influsso…… come se volesse ipnotizzarmi….come se volesse…………..
raccontare una storia…………….

"Un tempo, tanti tanti anni fa qui, proprio in questa città sul fiume vivevano tante persone allegre, spensierate e sane.
Qui tutto era un dono che arrivava da chissà dove: la terra era fertile, il bestiame florido l'acqua dolce come il miele, limpida ed abbondante.

Un giorno però accadde qualcosa, nessuno capì mai dove tutto ebbe inizio ma le cose cominciarono ad andare storte.
Per due anni non scese dal cielo nemmeno una goccia d'acqua, le bestie morirono o furono mangiate. La peste porcellina uccise tutti i maiali, la sete e l'inedia si portarono via tori e mucche, la fame degli uomini fece il resto, così scomparvero a poco a poco anche pecore, capre, galline e conigli.

Dopo due anni le piogge tornarono, anche troppo abbondanti ed il terreno secco non fu in grado di accoglierle. Nuovi fiumi invasero le strade, nuove falde si aprirono da e verso il grande fiume, ruscelli entrarono nelle case e la malattia si diffuse.
Migliaia di persone morirono, le altre si ammalarono e per cinque anni tutti vissero di stenti. Papaia e manioca furono gli unici cibi disponibili ed acqua torbida ed infetta l'unica salvezza dall'arsura.

Proprio qui vicino viveva un bambino il cui nome ora mi sfugge ma non è importante. Questo bambino aveva un amico carissimo che dormiva con lui, si cibava con lui e con lui passava le ore più calde della giornata nascosto nella foresta.
Questo amico era un coniglio.
Il bambino, pur essendo un bambino, sapeva benissimo che chiunque avesse visto il suo amico coniglio se lo sarebbe pappato in un sol boccone.
Così quasi tutta l'esistenza del bimbo era dedicata a mantenere segreta l'esistenza del coniglio.

Un giorno accadde ciò che per anni il piccolo aveva temuto: il coniglio si infilò nella lama di luce che filtrava tra la porta e lo stipite ed uscì dall'oscurità della capanna.
Con un tuffo al cuore il bimbo scattò su ed uscì per riprendere la bestiolina.
Uno, due, tre, quattro secondi ed il pandemonio era già scoppiato.
La povera bestiola si ritrovò in mezzo alla via di terra ed in un secondo era braccato da cento mani affamate.
Ma un coniglio magro è agile come un coniglio magro e un uomo affamato da anni è debole come un uomo affamato da anni.

Cominciò così la più grande caccia che mai fu attuata in tutta l'Africa.

Le urla, lo scompiglio, il passaparola fecero si che in men che non si dica il coniglio fosse braccato non da un uomo, non da due e nemmeno da tre ma da tutta la città.
Ventimila persone erano in subbuglio ed in affanno per catturare quei due miseri chili di carne e pelo.
Il bimbo che si era fatto scappare la bestiola lo inseguiva in preda al pianto, chiamandolo per nome e cercando di raggiungerlo.
Per ore il coniglio zigzagò, scartò, saltò, fece finte, scatti e sterzate, fino a quando riuscì ad ad infilare un sentiero che lo condusse alla foresta.
In pochi minuti la città era deserta come non lo era mai stata. Tutta la popolazione si immerse nella foresta all'inseguimento della bestiola.
Per più di un'ora l'incredibile massa di persone camminò attraverso la foresta ed infine, inaspettatamente, in un'ampia radura trovarono il coniglio immobile, non stanco ne provato, semplicemente accoccolato sulle zampe posteriori.
Tutti rimasero di stucco e l'immensa folla si assiepò tutt'attorno indecisa ed esitante.
Tutti si guardavano di sottecchi, qualcuno aveva persino già l'acquolina in bocca e si asciugava la bava con il dorso della mano.
Un attimo prima dell'assalto il coniglietto si alzò in piedi, fece due passi lenti e cominciò a bere acqua cristallina da una fonte.

Nessuno credeva ai propri occhi: una fonte di notevole portata di acqua così fresca e cristallina che mai si era vista in queste zone.

Ci volle poco per far si che tutti si dimenticassero del coniglio e si cacciassero a capofitto nella dissetante fonte.
Il bimbo, invece corse ansimante dal suo amichetto, lo prese in braccio e lo strinse a se senza smettere di piangere e ridere allo stesso tempo.

In pochi giorni la sorgente fu convogliata in città e distribuita attraverso canali, scoli, vecchi tubi e secchi.
In pochi giorni la città si riempì di gemme, in poche settimane di fiori ed in pochi mesi di frutti e animali.

Il coniglio aveva compiuto il miracolo.
La casa del bimbo divenne una specie di santuario al quale ogni giorno decine di persone portavano doni.
Il bimbo e la sua povera madre vissero tutta la vita senza dover più lavorare ed il coniglio, per il tempo che gli rimase da vivere, visse come vive una divinità.
Poi un giorno il coniglio morì, fu sepolto al centro della casa con una cerimonia che durò una settimana e sul cuscino sul quale era solito riposare fu posata una statuetta di legno che lo raffigurava.

Da quel giorno ovunque sorsero botteghe e negozi che fabbricavano conigli in legno di ogni dimensione ed in breve ognuno ne ebbe uno in casa al quale chiedere aiuto nei momenti più bui.

E fu così che ogni volta che qualcuno si lamentava della vita, che cercava la soluzione ad un problema, che voleva uscire da un guaio, la risposta che riceveva era sempre la stessa: SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO!


CONTINUA...


  UN UOVO.
di Luca Oddera


"L'onestà costa molto più di una Ferrari!", mi diceva sempre il mio vecchio nonno.
Ed io non capivo e vivevo in un mondo che pareva reale ma che in realtà  era fatto di nuvole.
Poi, piano piano, con il passare del tempo, il cielo si aprì, lentamente, negli anni ed io credetti di comprendere e provai a seguire quella significativa e concreta retta via.
Le nuvole, però, ci misero ancora decenni per levarsi di mezzo, per aprire un buco tanto vasto e sgombro da far entrare il primo raggio di sole.
Ed il sole arrivò.
"Onestà morale!" mi dissi un giorno e tutto divenne chiaro.
"Adesso facciamo i conti! Quante Ferrari dovrò acquistare da qui in avanti?"
Tutto intorno i contorsionisti della morale hanno fatto in modo che la moralità si trasformasse in un mucchio di spiccioli, monete, banconote, conti bancari; di modo che tutto il genere umano si dividesse in due categorie soltanto: i ladri presi e messi in prigione ed i ladri mai scoperti ed in parte moralmente autorizzati.

Se escludiamo una terra con una storia di lacrime e sangue quasi infinita, un genocidio ancora sussultante che ha eliminato dal pianeta milioni di persone.
Se escludiamo montagne tanto alte quanto meravigliose, gorilla e vulcani, dolci colline e veneri nere.
Se escludiamo immense praterie, eserciti e leoni, elefanti e gazzelle, migliaia di chilometri di coste e savane.
Se escludiamo meteoriti e scarpate di viva roccia, foreste interminabili e laghi grandi come nazioni.
Se escludiamo deserti di sale e di sabbia, miraggi di altri mondi, delta allagati ed uccelli multicolore.
Se escludiamo vallate lunari e ferrovie antiche come la terra, mari tempestosi e torri d'avorio.
Se escludiamo tutto questo, da qui, da questo confine fino alla fine del mondo, lungo un sentiero di seimila chilometri, non resta altro che il Malawi.
Lago e montagna e nel mezzo tutta la vita del genere umano, dall'uomo delle stelle al rettile, dall'australopiteco all'"uomo con il computer".

La strada che percorre le vette si snoda lungo percorsi sinuosi, affacciandosi su laghi immensi e strette vallette. I pini lasciano spazio all'eucalipto e quest'ultimo alla mangrovia che scivola nel profondo mutandosi in alga.
Questa strada già percorsa scorre via ed un sussulto raggiunge il cuore: "che sia questo il posto adatto?"


Safari lungo sentieri piste e strade. 
Si snoda così la volontà di viaggiare, disintrecciando vecchi percorsi per vedere il filo tutto in un pezzo, senza pieghe e nodi. 
All'improvviso la voglia di fermarsi diventa più forte di quella di muoversi. la voglia di restare invece cede in fretta il passo alla febbre da movimento. basta raccogliere le idee e vedere cosa si può fare.
D'improvviso, quello che succede ti coglie alla sprovvista. 
Quel filo che sempre percorri diventa troppo stretto e la tua lunga vista troppo debole. 
Conoscere, condividere, esplorare l'interno di quella fantasmagorica e memorabile superficie.
Il tempo che sempre ci resta è troppo poco o breve per non cercare di entrare ed interagire.
Un filo lungo cento chilometri si srotola come un foglio e crea un mondo immenso, un milione di volte più grande, sul quale le persone si muovono, si sdraiano e vivono.
Gli equilibristi del filo, che devono scartarsi al tuo passaggio perché sul sottile c'è posto per una persona sola, possono ora conoscerti ed eventualmente restare o scartarti.
Ecco una scelta.
Fermarsi. 
Non Restare. 
Fermarsi è una scelta piena come un uovo e come esso ricca di senso, significati, analogie e vita.
L'uovo è li, deposto dalla creatura volante più grande del mondo, il pensiero.
L'uovo è li, a metà strada tra il lago e la montagna, salvo ed al sicuro in un paniere fatto di persone, terre e milioni di alberi.
Da qui lo sguardo spazia fino alle vette intermedie e bastano quattro passi per raggiungere la terrazza da cui scorgi l'infinito. Da qui, seduto, scopri che l'infinito è più vuoto che pieno ed è calmo, stranamente calmo.
Troppe immagini, volti, colori, suoni, denti, foglie, incidenti, fumi, nebbie e vetri. fango sudore e fatica; cieli, grigi, blu, rossi, d'oro e d'argento. Stelle cadenti fissate nella corsa, soli accecanti e lune passanti.
Tutto, ad un tratto, si apre e riserva soli cento chilometri di avventura su una strada rossa che porta a mete tanto vicine quanto irraggiungibili.
La terra dei giganti si trova proprio li, tra il lago e la montagna, coperta di un verde senza ombra e da un cielo blu senza nubi all'orizzonte.
Costruzioni che diventano case. Macchie che diventano fiori di tappezzeria. Approssimazioni che dopo un certo periodo paiono lavori ben fatti e macchie d'erba che si trasformano in prati.
Le  facce nere come il carbone si schiariscono ed assumono lineamenti riconoscibili per quello che sono.
"Ecco" ti dice l'Uomo che Passa, "vedi, ora la strada è dissestata e scavata dall'acqua delle ultime notti, ora puoi si percorrerla ma puoi anche appianare le buche, scalzare i sassi e renderla una strada buona. Ora, se te la senti puoi andare avanti all'infinito, puoi portare sassi e consolidare il fondo, puoi portare terra asciutta e creare un manto uniforme, puoi impastare il cemento o comprare e stendere l'asfalto, puoi piantare pali e costruire muretti e poi passare più e più volte per questa stessa strada e puoi farla usare ad altre persone, automobili, animali e carri. Puoi creare la magia del tuo passaggio, una magia non eterna ma molto duratura che, come un vecchio re, un giorno cederà il suo sapere ad un qualche figlio di passaggio."
L'Uomo che Passa dice queste cose senza sapere che parla per tuo conto, senza sapere che non esiste, senza sapere che è una tua invenzione, tale quale quel muretto che forse un giorno sorgerà lì, accanto al selciato.
Sono persone, quelle che abitano questa antica terra di giganti, sono persone che hanno perso qualcosa e trovato qualcosa d'altro; sono persone che sono qui per qualche motivo, non a caso abitano questo posto disabitato. 
Non tutti siamo uguali a questo mondo e che pianga pure l'inventore di questa sbagliata idea. 
Non tutti valiamo per quello che siamo, ma per quello che possiamo fare, dare, avere.

Ecco, uno dei modi è quello di imboccare quel sentiero sulla sinistra, accedere a quella piccola proprietà e provare a stare seduto qualche ora…almeno fino al tramonto.
Poi verrà il buio!

28


AFTER è una cosa buona


"Del resto, per restare li a contare gli spiccioli da dare al Grande Mostro Contabile (G.M.C.) pare sia meglio legarsi qualche piuma al braccio e buttarsi giù dalla collina"
Così andava dicendo quel tipo che vidi camminare dalla città alla collina……però l'ho anche sentito cristonare, nemmeno troppo sommessamente, perché, diceva, era rimasto a piedi.
Ecco che cosa ho capito, ho capito che era felice, pareva felice di essersi scrollato di dosso quell'opprimente peso con il quale ti tengono schiacciato a terra tutti coloro che quel peso lo chiamano responsabilità.

Così decisi di tirargli un urlo per dargli un consiglio:
"Hei tu", dissi a voce alta alzando il mento  nella sua direzione, "Hey tu, stai all'occhio, scegli bene la tua collina; scoscesa e pietrosa non te la consiglio…..cerca qualcosa di più…come dire, collinare, un dolce declivio erboso per esempio…"
Mi guardò in modo strambo, quasi non capisse. Del resto parlava un'altra lingua e la mia la conosceva ben poco.
Ma com'e, come non è, io comunque parlo in musica ed allora qualcosa giunse comunque al suo orecchio, ne son certo, poiché sfilandomi accanto lo sentii smettere di bestemmiare e lo vidi camminare  un poco più diritto, un poco più sciolto e vidi persino che il sole gli infastidiva meno gli occhi.
Pareva una buona azione, la mia, sul momento, se nonché tutt'attorno mi s' affollavano una miriade di sordi, scure caricature che pareva di me avessero nessun bisogno.
Quello era il posto! Mi dissi allora, si si, quello era il posto giusto…..
Pochi macchinari all'orizzonte, pochissimi ingranaggi disposti a girare con sempre meno olio, nessun mostro dai tentacoli bipedi che chiedeva, chiedeva, chiedeva…….e tante colline dolci ed erbose nei dintorni.
E poi, arrivare lì richiedeva una lunga, lunghissima via, irta di insidie e trabocchetti e quindi chi ci arrivava aveva tante cose poco noiose da raccontare e questo è davvero importante se vuoi passare una bella serata ed alzarti al mattino pieno di energia.
E poi, a me pareva, a me che li ero arrivato da poco, che il mondo fosse più nuovo, si insomma, più giovane, per così dire, così giovane che ovunque potevi vedere i segni della sua infinita vecchiaia, e se questa vi pare una contraddizione allora vuol dire che non siete stati attenti.
Laggiù le strade sembravano appena scavate nella terra e comunque ti davano l'idea di essere lì per lo meno da millenni, sentieri prima, strade poi, ovviamente, ma qualcuno c'era già passato.  Non molti per dire la verità e molti di coloro che passarono prima di me, comunque, non se ne resero conto…..così le strade erano sia vecchie che giovani. E questa è una cosa buona.
"Scegli tu il posto dove camminare!" gli urlai ancora dietro…….spero mi abbia sentito ma penso non avesse bisogno di quest'ultimo mio consiglio…ma mi piace parlare quando penso.
E' ben giusto decidere dove posare i piedi, senza dover per forza calpestare tutto ciò che ci dicono e, solo nella lunga domenica senza coda nera, calpestare pezzetti d'erba sintetica se ci piace l'erba o roccette di plastica dagli infimi panorami se ci piacciono le roccette; ma che ciò venga fatto sempre e comunque forniti e vestiti di costose attrezzature. La scarpa per la roccetta, la scarpetta per l'erbetta, il ramponcino per il paretino, il cappellino per la salita e quello, uguale ma diverso, per la discesa.  Si, SI, è più giusto posare i piedi dove meglio ci si trova…..e comunque questa sarebbe già una bella responsabilità……se non lo fosse!

Così considerando mi fermai sotto un tetto di lamiera ed ordinai una zuppa di carne e patate calda e unta e buona.

Le sedie erano di plastica, un pò consunte e, a dir la verità, nessuno sentiva il benché minimo bisogno che fossero di acciaio, alluminio o chissà chè. Si stava bene così e, a dispetto della latitudine, c'era una certa fresca brezza che ti consolava.
Ecco perché alla fine decisi di rimanere per vedere se quel tizio cui avevo urlato consigli poco prima sarebbe tornato.
Tornerà, tornerà, mi dicevo sorbendo il brodo della zuppa.
Tornerà perché in questa zuppa c'è un bel pezzo di carne gustosa ed una grossa patata bollente.
Solo la Coca Cola era un poco calda o meglio, non troppo fredda.
Mangiai la carne, la patata, bevvi tutto il brodo e la coca, pagai, poco, e mi misi in cammino.
Verso sud mi dicevo, ma stavo andando verso est, solo che la strada era quasi tutta in discesa e quindi, a me, sembrava di andare a sud…..
Il paesaggio era rassicurante. Perché? Non lo so, ditemelo voi.
La gente camminava, guidava (poco) e pedalava. Tutto questo per muoversi. Ma mi pareva che la maggior parte di essi stesse ferma, sulle sue posizioni, si, ma sopratutto nel posto in cui si trovava. Piccoli scambi di piccole merci strappavano sorrisi qua e la e anche piccole o grandi languide occhiate nei miei confronti non facevano altro che strappare tutt'intorno dolci sorrisi.
Gruppetti di persone stavano all'ombra a scambiarsi frasi e parole prendendo quello che veniva come veniva senza decidersi ad interrompere quel flusso benefico.
E questo è bene.
Si è bene perché quando vuoi interromper quel flusso benefico per dire la tua pare tu faccia solo ridere i polli. 
Ed i polli, lo sappiamo tutti, non sono famosi per produrre gradevoli risate…e nemmeno dolci sorrisi.
La strada saliva, poi scendeva, poi saliva tanto, poi scendeva di nuovo e poi risaliva un poco. Poi cominciava a scendere senza smettere, fino alla meta.
La meta era, o almeno avrebbe dovuto essere, un immenso specchio di acqua dolce e quando dico immenso intendo proprio immenso e quando dico dolce vuol dire che è proprio dolce.
Così, un pò per fortuna, un pò perché avevo voluto cercare di interrompere il flusso malefico, il viaggio divenne una passeggiata, le avventure la mia vita, lo straniero un amico e la terra riarsa si trasformò in terra fertile e verde…..ed apparvero i ruscelli, i torrenti, gli alberi giganti e i misteriosi uccelli microscopici, i serpenti si allontanarono, le persone salutarono ed i cani abbaiarono. Su e giù, su e giù. Era cominciata la discesa, così passeggiando in una sola direzione senza troppa fatica avevo il tempo di guardarmi attorno.
Che bel posto mi dissi una volta di più, mi piace pensare  che oltre quell'orizzonte ce n'è un altro e poi un'altro ancora, all'infinito, beh, non proprio all'infinito, ma così tante volte che per noi così piccoli è quasi infinito.
E questa è una cosa buona. E' buona perché quando l'orizzonte è troppo piccolo tu non puoi fare altro che comprimerti mentre quando è così grande….beh, dovreste saperlo…c'è più spazio, è semplice.
E collina dopo collina, a scendere, l'immane specchi d'acqua si avvicinava, si avvicinava perché lo so, ma ancora non lo vedevo.
Passai per strade quasi deserte, ricche di grande vegetazione alta e lussureggiante e per nulla opprimente. Passai attraverso gruppi di case e di uomini che sorrisero e salutarono, presi curve in discesa e rettilinei in pianura….ma scendevo sempre.
In tasca non avevo molto ma mi consolava parecchio il fatto che non c'era nulla da comprare e questa è una cosa molto buona quando in tasca hai poco.
Mi chiesero tante volte se volevo un passaggio ma declinai l'invito, il sole era ancora alto nel cielo e sapevo esattamente a che ora avrei voluto arrivare dove stavo andando.
Arrivarci troppo presto avrebbe voluto quasi dire andare in un'altro posto e quindi affrettarmi o prendere un passaggio sarebbe stato esattamente come dire:"toh, ora decido di sbagliar strada"
L'acqua apparve dietro una collina, come in una canzone, il lago sterminato come un mare scintillava di luce dorata, come in una canzone, le prime forme cominciavano ad annebbiarsi per diventar sagome di un rosso tramonto, come in una canzone, ma mi accorsi che una canzone c'era davvero, arrivava da un cortile dove brevi preghiere si alternavano a lunghi canti che mi rapivano.
E scendevo, scendevo, scendevo.
Arrivai sulle sponde delle acque, così come niente fosse, trovai un luogo abbandonato, deserto solitario. una spiaggia lunga ed arcuata si interrompeva di qua e di la facendo emergere dal lago una enorme foresta. una sola pietra, grande e tonda era lì, vicina all'acqua, mi sedetti e rimasi stupefatto, stordito, affascinato a contemplare tutto quello che vedevo.
Ero solo, li dove volevo essere e fu così che mi accorsi che quell'uomo cui avevo gridato i miei consigli era già tornato ed era li con me ed era un uomo nuovo, più alto, più tranquillo, più rilassato e molto molto più buono di prima……..ed aveva anche una macchina!
"Bello qui vero?" mi disse
"Molto bello" risposi.
"quando viene buio, se vuoi ti do un passaggio per tornare su" continuò.
"certo grazie" dissi
"però prima ci fermiamo al bar qui dietro a bere due birre…"
"Una Io ed una Tu"



29

Estratto da "Acque e tamburi"



Quel diavoletto bavoso ed invasato che mi saltellava attorno cominciava a darmi sui nervi.
Avevo compiti ben più importanti ed interessanti da svolgere per stare a perdere tempo cercando di tenerlo alla larga dalla mia persona.
"Tutta l'importanza che ha" mi dissero un giorno, "è quella che gli dai tu!"
Ci pensai su qualche secondo, mi voltai verso di lui e lo vidi dapprima ritirarsi a statura ancor più ridotta e subito dopo…Puff!……svanire in una nuvoletta di polvere e mediocre anonimato…..


Tratto da "Acque e tamburi"  di Mike "Big Man" Butterfield.1996



30

INTERMEZZO

Seduti, dietro al davanzale, 
guardavamo gli uccellini posati sulle poltrone 
e ci chiedevamo, 
senza dircelo, 
perché mai fossimo lì.

Lì in quel posto, 
così lontano. 

L'unica risposta che trovammo, 
senza dircela, 
era che non volevamo stare in quell'altro posto. 

E comunque adesso eravamo lì, 
a guardare gli uccellini adagiati sulle poltrone di paglia.

Ma due piccoli fantasmini, 
che mi seguivano, 
sempre e ovunque nell'ultimo periodo, 
invece di saltellarmi attorno, 
si erano accoccolati l'uno sulla spalla destra, 
l'altra su quella sinistra e
invece di sputar consigli, 
mi leccavano le orecchie.

Fastidio e solletico,
in egual misura, 
erano senz'altro più ben venuti, 
di qualsiasi inopportuno consiglio.
Loro due, sapevano perché eravamo li
 e mi leccavano le orecchie, 
come per dire: 
"guarda cosa stiamo facendo, dai guarda, ti stiamo leccando le orecchie…eh eh, dai, guarda qui, ti stiamo leccando le orecchie…"

Meno male che loro erano li...

...altrimenti mi sarei perso lo spettacolo di quegli uccellini multicolore che saltellavano e cinguettavano sulle poltrone che avevamo li davanti… 

e
senza di loro,
mai, 
avrei capito perché eravamo lì, così lontano … 






DELTI O KAHAANIYON? 

di Chandraki Malini "Nadee" Narayan 
traduzione dall' hindi di Bupesh "Samudr" Subram

I viaggi in questo strano continente dalla forma di pera ritorta pare, spesso, finiscano come due dei sui grandi fiumi.
Ci sono questi due grandi fiumi, ma proprio grandi, grandi che in Europa sono troppo grandi, che finiscono lì, a mille chilometri dal mare, dispersi in fiumiciattoli, torrentelli, rii e rigagnoli.
Ecco quello che succede; al mare non ci torni più, cerchi una strada, da principio, poi provi a scavarti una galleria, poi torni sui tuoi passi, fai una serie di curve e slalom tra gli alberi secolari e gli arbusti, poi incontri te stesso di qualche chilometro prima, ti incroci, ti schivi ti mischi ed ecco qui la magia: ti fai casa!

Certo ci sono i Giganti veri e propri, quei fiumi che sono i più grandi e più lunghi di tutta questa sfera che tanto sferica non è. Questi vanno fino al mare, loro non possono certo esimersi da questo compito eterno ed immutabile. 
Hanno delle responsabilità.
La responsabilità di arrivare al mare.
Ma l'acqua al mare ci arriva sempre e comunque, poco importa che a portarcela sia il fiume, il temporale o l'uccello. Lei ci arriva, sempre.
Quindi qui puoi perderti, puoi perdere parte dell'immutabile senso delle cose che la storia cerca di inculcarti non conscia di essere lei stessa un fiume che porta l'acqua esattamente dove l'acqua va, dove l'acqua comunque andrebbe. 
Al mare, sempre e comunque.   (A parte quella infinitesimale parte che da sessanta anni andiamo a pisciare nello spazio)
Ed allora le cose si confondono un poco. una leggera nebbiolina affiora, poi sale, poi diviene bruma, poi nebbia e poi sta' li, pesante, rarefatta in filamenti e linee di diverse densità, sospesa a colorare i raggi di soli giganteschi all'alba ed infuocati al tramonto, incapace di decidere se sono colori mai visti, riflessi d'altri tempi od un gioco di specchi deformanti dovuti alla sua presenza in sospensione. 
Il solo guardarci attraverso in direzione del sole ne cambia il colore! Lo sapevate? Io l'ho studiato, si l'ho studiato in un passato remoto, ma così remoto che l'altro ieri sembra domani.
Da questi luoghi dove i fiumi sfociano senza arrivare al mare, si può anche decidere di ritornare indietro, di risalire la corrente per vedere cosa successe in passato. Se arrivi nel mare, eh no, li non puoi più far niente, lo scopo è raggiunto, le acque si mischiano, ti perdi, ti mischi. hai dato il tuo contributo. Ecco fatto!
Invece da qui puoi scalare a ritroso il sentiero che qui ti ha condotto, puoi riscoprire cose che non hai mai avuto, puoi riscoprire  racconti di parenti lontani nel tempo tanto quanto nonni e bisnonni. Da qui riesci a risalire al nocciolo delle cose senza perdere tutto il gusto della cosa. 
Chissà che non si riesca a raggiungere le sorgenti e capire da dove si arriva. Qualcuno dice sia possibile, io penso sia difficile altri sanno che non sono raggiungibili. Questi ultimi solitamente si lasciano scivolare in mare come chiazza d'olio!
E' comunque lassù, tra quelle montagne tanto lontane quanto immense che puoi trovare ciò che di più antico esiste. Se segui il filo a ritroso più in dietro di così non puoi andare….ed è già un successo arrivarci…chissà se qualcuno mai ci è arrivato. Eppure le sorgenti, lassù, tra nebbie e foreste sono proprio il punto più lontano raggiungibile su questa terra. Bisogna poi stabilire, caso per caso, se davvero ci si vuole arrivare o se basta poi risalire a ritroso la storia e trovare un'ansa nella quale comodamente osservare la corrente al rovescio.
Di sicuro è un bel vedere, con immensi spazi aperti, animali che si abbeverano, il tempo che si ferma e poi fa un salto furioso in avanti ma poi torna un po più indietro di prima. Farfalle giganti e colorate come arcobaleni ti ricordano musiche e disegni dell'infanzia di tua madre ed immensi animali preistorici ti ricordano l'infanzia di tuo padre.
Spazi infiniti, tramonti inverosimili ed albe primordiali ti lasciano senza fiato giorno dopo giorno. Senza mai, almeno apparentemente, essere contaminate da storie già scritte ed abbruttite da fili spinati.
E così, mamma, mi perdo in un sogno di stoffe colorate che non avranno mai l'intensità vera e propria dei colori di casa, ma sicuramente un odore più forte, una fragranza più persistente, una trama più semplice e lontana nel tempo e nello spazio, un tocco che sempre richiama altri mondi altrimenti invisibili, altrimenti solo raccontati, altrimenti facenti parte di favole che son, si belle, ma senza sapori. Storie mai vissute han bisogno di piedi scalzi che vadano ad indurirsi altrove o scarpe che si consumino diversamente per far si che la storia resti viva….altrimenti diviene una mummia da museo della quale si traviseranno poi le origini, i significati….
Hei! Mamma, però, mi raccomando, "acqua in bocca"…tutto questo deve rimanere un segreto tra te e me.
Sempre tua C.M.N.N.


34

Il pullmino.
(Una storia vera successa da un'altra parte)
Raccontata da un signore vestito di nero con le scarpe a punta lucide ma piuttosto malandate, il cravattino e la camicia bianca, seduto vicino ad una baracchetta che vendeva bibite calde in un giorno di pioggia in un posto dove le strade avevano smesso di alzare polvere in ogni dove.

Tutti quei turisti cominciavano a snervarmi, non ne potevo più. Era come se mi rovesciassero addosso della vernice appiccicosa che non riuscivo a levare completamente. 
Arrivavano trafelati ed indaffarati…si, già all'aeroporto erano incasinati, chiedevano di connettersi, di avere una schedina, di telefonare, di scrivere commenti su commenti dei commenti e di verificare che i bagagli ci fossero tutti….proprio tutti. Cose inutili dalla prima all'ultima, senza paura di sbagliare.
Eccoli discesi dall'aereo ma rimasti a casa, al cento per cento…rimasti a casa. Avevano pagato per spedire i loro corpi in vacanza, un'avventura simulata per poter raccontare cose che non sono capaci ne di fare ne di immaginare. Ma le teste ….quelle…le avevano lasciate a casa…giuro..erano senza testa..al cento per cento.
E così mi sono caricato questi zombie senza testa sul piccolo pulmino che guido da sei anni e sono partito. 
Tutti, ma proprio tutti, avevano i visi chini su diversi aggeggi tecnologici……."ciao Mamma, sono arrivata"…..beh, certo che sei arrivata, e dove cazzo volevi essere?…avevi paura di essere smarrita come un bagaglio? Forse si, forse si perché la testa è rimasta a casa…..addosso avevano pure i cartellini come se fossero delle valigie.
Guardavano ognuno il suo schermo, ogni tanto alzavano lo sguardo vuoto ed assente e mi facevano domande inutili che richiedono risposte nozionistiche da incamerare, comprimere, stoccare e poi più avanti vedere se c'è qualcosa di impressionante da raccontare.
Le nozioni, pensavo, perché non le arrotolate e ve le mettete su da un foro di quelli che vi fanno comunicare con l'esterno? Uno qualsiasi…. 
Quando guardi qui attorno l'ultima cosa che dovresti fare sono delle domande…perché se sei li dovrebbe essere proprio perché hai bisogno di farne……..e le risposte sono tutte li…altrimenti bastava farmi una telefonata…e che cazzo, almeno non vi avrei visti…….
Così decisi di andare dove sapevo, un po lontano, dove davvero ci sono i leoni, aprii le porte del furgone, tolsi le chiavi, presi un po di carne cruda nel bagagliaio e la buttai sotto al furgone e sul tetto e me ne andai dove sapevo io, dove i leoni non sarebbero venuti……

Buon appetito ragazzi


VIAGGI INVENTATI
di un inventore
Beh, potrei raccontarvi un viaggio di sei mesi, totalmente inventato, facendo un puzzle di trenta paesi, dandogli un minimo di coerenza spaziotemporale e lasciandomi poi andare ad ogni tipo di invenzione, lasciando correre l'immaginazione, scrivendo aneddoti utili a raccontare, insegnare, denigrare, spiegare, disincantare, rattristare…… e nessuno, dico nessuno, potrebbe smentirmi. Quel periodo appartiene solo a me. Nessuno tranne Cecilia, perché era là, ovunque sia questo o quel "là". Solo una grande schiera di amici, conoscenti e parenti potrebbero, tutti assieme, dopo lunghe consultazioni e studi, solo un team di questo genere, dicevo, potrebbe smentirmi. Ma non succederà mai che un gruppo di questo genere si riunisca per venire a capo di cosa così poco interessante. Quindi posso sentirmi libero di utilizzare lettere, parole, periodi, viaggi, avventure, invenzioni, storie fantastiche, per ridare lustro al libro che sto scrivendo.

Econe un esempio:

quell'anno stavo risalendo il corso del Nilo (il Nilo è un grande fiume -più lungo che grande- ed è inoltre ramificato, e, come molte cose della natura, indescrivibile se non in poesia. 
Mi spiego: cercano d dirci quanto è lungo, ma la foce si sposta, e poi non sanno bene da dove parte, o meglio, "il mistero è stato svelato all'epoca delle grandi esplorazioni (e che esplorazioni!) ma sarà poi vero? Visto che poi di Nilo ad un certo momento se ne trovano più d'uno gli hanno dato dei nomi di colori (bianco ed azzurro)….quindi è piuttosto complesso capire dove effettivamente comincia….
Tutti e due cominciano da un lago, ma quel lago è solo grassa parte rigonfia di un fiume precedente, o di fiumi precedenti…..
Quindi l'origine si perde in un dedalo di ramificazioni poco comprensibile ad una mente che cerca spiegazioni nette e precise. 
Di sicuro nasce sopra all'equatore……ah ah… ne siete così sicuri? Nooooo….
Ebbene se non ho voglia di spiegare esattamente, tramite coordinate, numeriche, temporali, sociali, geografiche, ecc, ecc…..nemmeno per sogno che possiate capire quando dove e se ero……

Quindi riprendiamo:
quell'anno stavo risalendo il corso del nilo, sgommavo verso sud alla velocità della luce, quella velocità cui speri il tempo non passi…ma passa, passa come è vero iddio. Ma passa più lentamente…questo pare sia accertato e certificto…basterebbe essere tanto intelligenti da capirlo…io non lo sono, quindi non capisco, ma lo sento e ne ho fatto appositamente esperienza……

Il sole sorgeva dietro una duna di sabbia e terra, la luce si irradiava dapprima soffusa e poi netta. I contorni delle cose mutavano come muta il baco in farfalla e dalle nebbie del buio mattutino affioravano chiari e netti i profili di ogni cosa, dal sasso a un centimetro dalla mia scarpa al minareto lontano un chilometro. 
La pace eterna arrivava così come niente fosse a regalaci una nuova giornata.
Il caldo, quello vero aveva ancora da arrivare e mi godevo ogni momento della temporanea frescura.
Di fronte a me, ad ovest vedevo il sinuoso corso del fiume scendere  lento e placido, in direzione dell'ancora sonnolenta cittadina, che correva tra rive di rada vegetazione e sporadiche anse deserte. 
Fluiva sotto un ponte men che eterno e poi, poco prima dell'arrivo delle prime lavandaie, strisciava a nascondersi dietro l'innalzarsi del mio primo orizzonte.
da li il l'occhio correva veloce seguendo i tratti di una collina che lentamente si alzava verso est e qui un nuovo orizzonte più scuro copriva il primo.
Una costruzione piramidale molto ripida spezzava l'incanto della natura , lei sì, un pò più eterna del ponte.
Da lì l'infinito riappariva tra il discendere della prima collina e l'innalzarsi della seconda, più maestosa ed imponente, tanto da poter coprire con la sua ombra le costruzioni degli uomini di qualsiasi epoca. 
pare che quella imponente collina abbia conosciuto in passato razze e civiltà che mai potremo conoscere.
ma il mio sguardo correva rapito, sempre verso est, carezzando la sommità del monte, ridiscendendo lungo il suo crinale, distratto solo dal volo sicuro di alcuni uccelli multicolore che planavano lungo i pendii. Uccelli di cui non conosco i nomi perché dare nomi agli uccelli e poi ricordarli è mestiere più da nordici e britannici che mio.
Ed ecco il fiume riapparire, sulla sinistra, come per incanto inondato della nuova luce obliqua del giorno, scintillante di mille piccole stelle.
La prima ansa lo riportava verso di me, ma la successiva lo rimetteva in riga e lo allontanava verso nord est a dissipare nuove nebbie ed a scomparire dalla mia vista.
mi sentivo circondato dalle acque ed in pace, pronto ad un altro giorno di scoperte.

Quindi, di malavoglia, mi allontanai da quell'incanto mattutino; che alle volte è meglio andarsene prima che la natura completi il suo dipinto inserendo comparse non gradite che possono rovinare l'idillio. 
mi allontanai portando con me quell'immagine che è quella che voglio, di quel poso, d quel momento, mia. 

E poi….


………………….

LA PIZZA

Siamo andati là, fin dove il mondo finiva ed abbiamo trovato il buio.
Non che il luogo in se fosse così importante, doveva essere davvero lontano da tutto e da tutti.
Lo era.
Non sarebbe stato corretto ritirarsi in un piccolo cubo in un alveare affollato,
Non sarebbe stato corretto ritirarsi in uno stagno del parco di una città sovraffollata.
Non sarebbe stato sopportabile provare a stringersi negli interstizi verdi che restano come imprigionati tra tentacolari vie di passaggio che uniscono gangli che connettono intere città-stato.
Abbiamo provato a raggiungere i recessi più reconditi, più inaccessibili al tempo che passa ed alla moda che arriva.
Ci siamo allontanati da tutto quel che corre sulla stessa affollata strada.
Ed abbiamo trovato il buio.
Ma il grigio resta lontano.
Sospesi tra una leggera e frustrante ipocrisia ed un coraggio, impensabile negli anni della cecità e della prigionia, che ci ha spinti oltre al nodo scorsoio della rassegnazione.
Annoiati come pere cotte lasciate all'aperto ad ammuffire ci chiedevamo saltuariamente cosa facevamo lì, sotto ad una veranda esposta alle piogge tropicali. 
Osservavamo la vegetazione che cresceva al ritmo di un centimetro all'ora. Quasi potevamo scorgere in lontananza le montagne crescere e consumarsi alla brezza calda dei venti dell'est.
Sentivamo che la terra tremava sotto di noi senza scomporci più di tanto.
Ci abbiamo provato per anni ed anni. abbiamo tentato di resistere aspettando che una goccia di verità stillasse dal tetto malandato di quella veranda sul mondo. 
Nel mentre passavano accanto a noi specie di umanità talmente differenti da sbalordire il più ardito dei viaggiatori. Uomini, donne e bambini che a seconda della stagione si riparavano dalla pioggia sotto alla nostra veranda oppure scappavano dal caldo sedendosi di fronte ai nostri impolverati ventilatori. E noi guardavamo ed ascoltavmo giapponesi, statunitensi e messicani, cinesi e thailandesi, australiani e bretoni, olandesi e scozzesi, indiani, iracheni, pachistani iraniani, russi, ukraini e polacchi, svizzeri, coreani, nigeriani, congolesi e uruguaiani, argentini, spagnoli, portoghesi, kenioti, ugandesi, sudanesi, apolidi e malawiani, tanzaniani e mongoli, slovacchi e cechi, tedeschi e israeliani, svedesi, norvegesi, neozelandesi e finlandesi, islandesi e colombiani, uruguaiani e cileni, saponai e canadesi, indonesiani e brasiliani, uomini delle regnino, donne dell'Arabia saudita e bambini di taiwan, buthanesi e filippini, zimbabwiani bianche e neri e color cioccolato, mozambicani , ruandesi, camerunesi e gabbiani, ivoriani e scozzesi, belgi e irlandesi, baschi e austriaci, inglesi e lituani, estoni e graci, vietnamiti e cambogiani, egiziani e marocchini, maltesi e libanesi, burundesi e tagiky, siriani e turchi, capoverdiani e camerunesi……..
E tra loro tanti depressi, allegri, solipsisti, razzisti, stalinisti, ecologici, modernisti, tracotanti, alcolizzati, salutisti, amanti del surf, naturalisti, naturisti, dogmatici, sandinisti, musulmani, taoisti ebrei, ebrei ortodossi, ebrei ultraortodossi, ebrei ultra ultra ortodossi, protestanti, battisti, cristiani, atei, taoisti, sik, induisti, avventisti, buddisti, confuciani, praticanti di culti tribali, giainisti, scintoisti, sciamannasti, adoratori dei Rolling Stones, copulatori dei Led Zeppelin, mangiatori di ashish, di tabacco, di pelote e di acidi assortiti. sedentari e viaggiatori apocalittici, ricchi, poveri, benestanti e martiri del viaggio, preppers e insegnanti apostolici, convertiti e rinati, persone che poi sono morte, persone che erano nelle pance delle donne e poi sono uscite, costruttori di strade, demolitori di ponti, commercianti di polli e costruttori di imperi economici, politici e criticoni, inventori e falegnami, ciclisti, autisti, guidatori e motociclisti, bianchi, chiari, colored, neri, neri come il carbone, neri quasi blu, gialli dagli occhi all'insù, gialli dagli occhi all'ingiù, rossi, color oro, color caffè latte, verdi per l'effetto della sbronza del giorno prima, mormoni e insegnanti della bibbia a tutti i costi, traduttori, persone che seguono le mode del vestire e persone che non hanno vestiti, insegnanti, spazzini, ingenieri, fornai, fattori, ricconi sdentati, dottori, infermieri, stregoni, navigatori e barcaioli, baristi, ristoratori, industriali, autotrasportatori, frequentatori di uffici, banchieri, saldatori e gommisti, meccanici burundesi e meccanici generici, alcolisti anonimi, preti e vescovi, muratori veri e falsi, stampatori, praticanti di lavori perduti, vasai e cesellatori, copisti e stilatori di elenchi, elettricisti ed idraulici senza attrezzi, disinfestatori e spianatoi di buche, diplomatici, presidenti, vicepresidenti, consoli e ambasciatori, piloti di aerei e di alianti, cacciatori, ranger e bracconieri, cuochi veri e falsi, macellai e sarti, ……ecco, poi la lista va ripetuta tutta al femminile…..

Ed a tutti, ma proprio a tutti,  piaceva la pizza.




CONTINUA…………..









1

"PAURA DEL BUIO" ED ALTRI NOMI
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello

Quando l'uomo solitario si perse per la giungla le scimmie gli dissero che faceva ridere.
Passo dopo passo le sgorbie figurine lo seguivano saltellando di ramo in ramo lanciando striduli versi e mimando gesti osceni.
"Torna nel tuo appagamento" gli gridavano dai rami più alti, "tornatene in città 'paura del buio'." 
Così lo chiamavano. 
"Paura del buio" era il suo nome da quando era entrato nella foresta.
Le scimmie lo chiamavano "Paura del buio", i coccodrilli "Paura delle Profondità", i pesci gatto "Paura dell'acqua", l'ippopotamo lo redarguiva dalla riva: "Non provare ad avvicinarti al fiume "Paura della tua ombra", altrimenti ti stritolo come un rametto"
"Paura del cibo" lo chiamavano le donne e "Paura delle donne" lo chiamavano gli uomini.
L'uomo solitario continuava a camminare chiedendosi perché tanti nomi per un uomo solo, ma la sua mente, impegnata a leggere tutto quel verde, quel marrone, quei colori che dominavano creature, esseri umani, terra e piante, non riusciva a darsi risposta.
Camminando per i sentieri fatti dagli uomini, sgusciando lungo le piste fatte dagli animali, insinuandosi nelle intercapedini tra le casette di paglia e fango, l'uomo solitario, si rivolgeva alla gente ed alle bestie chiamandole tutte con un solo nome.
"Paura di me" le chiamava, tutte, nessuna esclusa, persone e bestie si contorcevano dal dolore ogni volta che lui le chiamava così. 
Dove passava lasciava una scia interminabile di dolore, di sogni infranti, di rabbia, di sconfitta, di potere corrotto che mai arrivava al suo culmine.
Dall'alto di qualche lieve collina, osservando ampi tratti di foresta, si compiaceva, qualche volta, del suo potere, immenso ma provvisorio, un potere che scemava ogni qual volta la luce si abbassava lasciando spazio alle bestie della notte, agli uomini invisibili, a coloro ai quali, nelle tenebre, basta chiudere gli occhi per scomparire alla vista. 
Lui, così luminoso e potente restava inerme ed inerte come una radice bianca, in attesa che il giorno tornasse.
L'uomo delle notte chiude la bocca, serra gli occhi e scompare alla vista di chi non ha naso per sentire il sospiro delle cose che non si vedono.

Tanta acqua che nessuno poteva immaginare scendeva dal cielo. 
Lungo un pianeta che ha nome Fiume scorrono le vite di tante persone che nessuno conoscerà mai, persone che vivono in un pianeta che non è una sfera, non è un sasso, ma una lunga discesa con cataratte che rompono la monotonia della quieta distesa in movimento.
L'uomo che camminava da solo si addormentava ogni sera con il cuore in gola e si svegliava ogni mattina con il gusto della notte in bocca.

Continuare a camminare.





2

LUNGHEZZA VARIABILE DEI CHILOMETRI
 E CONIGLIO BIANCO
di Luca Oddera

La cosa più strana che abbiamo visto, incontrato, incrociato, nella quale ci siamo imbattuti, in questo strano viaggio, è stato il coniglio gigante.

La strada è lunga, liscia ma lunghissima, scorre veloce e ogni km fatto è un km in meno. Però è anche vero che ogni km fatto è un km in più sulla schiena. 
I primissimi km sono lunghi poco più di cento metri mentre si distendono mano a mano che si avanza.
Può capitare, di solito mesi dopo essere partiti, che ci si imbatta in km lunghi otto novemila metri.
Stranamente la lunghezza variabile dei km non dipende dal tracciato delle strade, dal fondo stradale , dal traffico o dalle condizioni meteorologiche. Sono proprio i km che non hanno una lunghezza fissa e questa lunghezza oltre ad essere differente per ogni km è anche variabile a seconda del senso in cui si percorre la strada e del periodo o addirittura dell'orario.
In somma, la strada è come un lungo elastico stropicciato, teso, rilasciato, teso di nuovo e ancora rilasciato, all'infinito. Intanto tu ci corri sopra. 
L'albero si avvicina, sempre di più, poi passa. poi ritorna, si allontana, poi si avvicina di nuovo e poi scompare; a volte per sempre, a volte per un pò. Magari un giorno ritorni e l'albero è di nuovo li, magari invece lo ritrovi, proprio lo stesso, mille chilometri più avanti. Quando succede ti domandi che cosa stia capitando, ti scervelli per qualche minuto ma poi pensi ad altro perché l'albero è scomparso un'altra volta.
La cosa si ripete all'infinito per un numero preciso di volte ed il rapporto che intercorre tra l'infinito numero di volte che vedi l'albero ed il numero effettivo di quell'albero dipende in modo direttamente proporzionale dalla lunghezza del viaggio che stai facendo.
A complicare le cose ci si mette anche il fatto che il nostro pianeta è si ricco di alberi ma contiene anche una moltitudine, finita questa volta, di altre cose.
Così succede che ciò che accade con l'albero lungo la strada si verifica anche quando si incontrano: città, paesi, villaggi, agglomerati di baracche, campi UN, campi tendati, abbaraccamenti di cantiere, fabbriche, negozi, case, ospedali, caselli, scuole e chiese, (le scuole e le chiese sono in numero immensamente più infinito di ogni altra cosa e spesso indistinguibili le une dalle altre), caserme, accampamenti militari, tende, case crollate e case in costruzione, uomini, donne, bambini, vecchi, ragazzi, pazzi, militari, predoni, guerrieri, ribelli, banditi, disperati, suore, preti, macellai e calzolai, leoni, gazzelle, elefanti, facoceri, ippopotami, coccodrilli, aquile, serpenti, passeri, ragni, api, bufali, zebre, piscine, laghetti, torrenti, mari, fiumi, montagne, vallette, canyon, pianure, deserti, vulcani, piramidi, foreste , nevai, spianate, paludi, burroni, scogliere, laghi grandi come nazioni e nazioni grandi come laghi, colate laviche, marcite, campi coltivati, serre, campi abbandonati, saline, prigioni, ponti, scorciatoie, guadi, superstrade, sottopassi, viadotti, rampe, deviazioni, sentieri, piste, sabbia, terra, fango, foglie, erba, tronchi, cemento, asfalto…
...così non resta molto tempo per pensare all'albero che scompare e poi si ripresenta.

Però quando incontri il coniglio gigante resti contraddetto per un istante. Poi, avvicinandoti, ti rendi conto che è ancora più grande di quanto non sembrasse da lontano.
Le persone attorno non ci fanno molto caso e lui zampetta via per inoltrarsi nella savana, zampetta lasciando impronte grandi come un pullmino.
La vegetazione si apre ed il coniglio gigante scompare lontano.
Ogni tanto anche lui riappare, ma presto ci fai l'abitudine, se non è in una bella posizione non lo stai nemmeno più a fotografare e nei momenti di noia cancelli le foto che non lo ritraggono al suo meglio.
Il coniglio gigante è più grande di un  ippopotamo, ma anche un pò più grande di un elefante. 
Se il coniglio gigante è vicino ad un TIR è più grande del TIR e se sta' mangiando erba dietro ad una scuola, è più grande della scuola. 
Il coniglio gigante è più o meno bianco ma non è mai bianco come le cose bianche che gli stanno attorno. 
Per esempio se è accanto ad una salina è abbastanza bianco ma se è vicino alle lenzuola appena stese è molto più bianco.

Il coniglio gigante non parla.
Il coniglio gigante ti guarda, ma non sempre. 
Il coniglio gigante non si annoia mai. 
Credo.




3

VITA QUOTIDANA NELLA FORESTA 
E PAZUZU NELLA TESTA
di Mpanzu Nimi
traduzione dal francese di Pierre-Yves Raoult

Le cime degli alberi della foresta, spesso, sono a cinquanta, sessanta metri dal suolo. A volte sono anche più vicine, raramente più lontane.
Non soffia quasi mai il vento, la calura si deposita come un telo e, assieme a qualche raggio di luce perfora la coltre verde e scende come un manto scuro puntellato da stelle di luce fino a raggiungere il suolo, fino ad incontrare uno sguardo alzato verso il cielo che non c'è, verso la vegetazione lassù, ricca di vita, cibo e acqua.
Il fuoco crepita umido ed i ratto cuoce con gli arti contratti. lo sguardo si abbassa sullo spiedo legnoso ed i piedi crepati e callosi cercano continuamente un punto di perfetto equilibrio che non troveranno mai.
Le mani dalle unghie ricurve modellano un legno puntuto, i capelli crespi sono cosparsi di mille goccioline di umido sudore.
Le grandi foglie si muovono sospinte dal calore del fuoco, si innalzano di qualche passo e poi cedendo e ridiscendono, in un continuo movimento.
Un gruppo di scimmie non viste osserva da lontano ed annusa l'odore acre del primo strato di carne che comincia a carbonizzarsi.
Una vecchia e semplice lama viene usata per ridurre il ratto in pezzetti più piccoli di una noce. 
L'animale fatto a bocconi viene deposto su una grande foglia verde smeraldo lavata con l'acqua di fiume.
L'uomo accucciato si guarda attorno circospetto ed estrae da sotto le strane vesti lacere un pacchetto di carta, lo apre e cosparge la carne con qualche pizzico di polvere di sale, poi ne rovescia un pò accanto al cibo facendone un mucchietto.
L'uomo rimette il sale sotto le vesti, si alza e scompare nel folto della foresta portando tra le mani la foglia imbandita come fosse un vassoio.
Il villaggio consiste in una decina di capanne disposte secondo un preciso schema socio-naturale, ovvero a seconda della posizione sociale di ogni  proprietario e delle asperità del terreno.
La radura è ampia e tutta bruciacchiata, cosparsa di residui vegetali.
L'uomo emerge dalla vegetazione con il suo bel vassoio tra le mani, si avvicina ad una capanna, mette la testa dentro ad un'apertura, strilla qualcosa e poi si siede su un tronco.
Pochi minuti dopo una quarantina di persone si è radunata attorno alla capanna.
Tutti chiacchierano ed assaggiano un boccone intingendolo nel sale.
La carne deve essere squisita, la gustano, la masticano e si leccano le labbra prima e le dita poi.
Molti ringraziano, qualcuno a parole altri con una pacca sulle spalle. Alcune donne dimostrano gratitudine accarezzando l'uomo.
Qualcuno, però, in disparte, guarda l'uomo con odio prima, con risentimento poi e con malizia, alla fine e si ritira nell'ombra.
Pazuzu sta' per uscire dalla foresta, quando scenderanno le tenebre uscirà dal folto degli alberi e si avvierà per la radura.
Pazuzu è stato chiamato al villaggio e la sua venuta non si farà attendere.
Scende la notte mentre gli stomaci digeriscono il pezzetto di carne; scende la notte mentre un ombra striscia fuori dagli alberi.





4

JEBEL BARKAL 
ED ALTRI POSTI MOLTO SIMILI
di Luca Oddera

Un vento leggero, arancione e giallo, allontana il fumo caldo della prima sigaretta della giornata lasciando un mondo limpido davanti ai miei occhi.
Il sole tiepido sta' sorgendo e la notte di rugiada sta' evaporando esile come un sogno.
I talloni sull'asfalto macinato, le punte dei piedi sulla sabbia rossa puntellata di stracciotti di plastica da sacchetto.
Le piramidi a gradino imitano la collina facendole il verso in modo imponente ed eterno.
L'indice sul tasto della macchina fotografica, la mano sinistra attorno all'obbiettivo.
Il sole fa capolino e la macchina fotografica si posa rapidamente sul cofano del fuoristrada.
Gli occhi si spalancano, la bocca trema e l'indice torna a scrollare la sigaretta.
Con solo uno o due colori a disposizione, preferisco non dipingere lo spettacolo che mi sta di fronte.
C'è la collina e ci sono le piramidi, c'è il sole che sorge rosso ed il cielo grigio e viola. Tutto il resto è già visto, già stato, già esistito nella memoria , nei disegni e nei racconti.
Nessun recinto, nessun biglietto, nessun turista esistono in questo spazio tra l'uomo e la natura.
Siamo di fronte allo spettacolo della creazione e tutto quello che abbiamo a disposizione per comprenderlo sono una manciata di minuti, un paio di mani ciascuno e due fuoristrada pronti a ripartire verso sud.
Prima che le ossa della terra, emerse dal deserto come vertebre fossilizzate, si trasformino in blocchi di pietra sfregiati da piccole mani ignoranti, ci spostiamo vicino alle macchine.
Prima che la collina lasci trasparire, attraverso l'aria tersa, i fili di un telefono rattrappito ed arcaico, saliamo in macchina.
Prima che gli uccelli del deserto si posino su un sacchetto di plastica traballante, mettiamo in moto.
Prima che sorga un sole capace di far dimenticare questi momenti, partiamo verso sud.
Prima, seconda, terza, quarta, quinta e nemmeno un'ultima occhiata, solo un'idea nella mente capace di suscitare da sola momenti millenari, capace di svegliare racconti sopiti come sentimenti di quando eri bambino. 
Un ricordo che è il ricordo di un racconto di mio nonno, un'immagine mai vista che è la mia ed insieme quella di mio nonno.
Piramide e collina è tutto quello che esiste in questo pezzo di mondo, un'immagine così potente che nessuna storia è mai stata capace di sminuire, di cancellare, di superare, di raccontare.





5

CHINATOWN 
E IL FANTASMINO BIANCO CON LE MUTANDE SPORCHE
di Luca Oddera

Sfrecciamo veloci e silenziosi su asfalto cinese liscio come un biliardo, nero come la notte.
Wadi Halfa-Kartoum: un' avventura.
"Quale strada ci consiglia di prendere?. questa che passa da…, quella di… oppure questa?"
"Quella che preferite, sono state asfaltate tutte e tre, questa qui è la più veloce e quella più interessante perché costeggia in parte il fiume."
Eccco qui, 3.000 km di asfalto spianati li in pochi mesi in cambio di cosa?
In cambio di un passato coloniale sconfitto, in cambio di un'autonomia finta come un trattore di plastica, in cambio di un cambio della guardia, in cambio di uno sguardo sottile al posto di uno sguardo blu, in cambio di un padrone freddo e calcolatore al posto di un padre severo e padrone.
Metri di asfalto, strisce infinite di asfalto che sono come corde che legano l'intero continente ad una sedia gialla capace di stringere ed allentare i nodi a suo piacimento.

Coltan, petrolio, uranio, cotone, oro, diamanti, bauxite, stagno, argento, frutta, tè, caffè, noci, avorio, gas naturale, legno, unghie e capelli in cambio di un motorino.

Scuole senza insegnanti, ospedali senza dottori e palazzi senza signori; motori senza benzina, collane di perle senza il filo, tubature senza acqua, in cambio di un cellulare senza credito.
Fabbriche senza operai, negozi senza commessi, cantieri senza sudore, in cambio di lampadine senza corrente.
Navi senza porto, benessere senza salute, cultura senza libri in cambio di ristoranti senza ingresso e quartieri senza vie di accesso.

Il serpente si snoda tra villaggi poveri come un sasso nel deserto. 
Il sentiero nero si inerpica su una collina, scende e se lo abbandoni per qualche metro, trovi un super albergo, nascosto dalle palme, una struttura che incassa milioni in Europa e lascia cadere scorza di arachidi negli immediati dintorni, con aria di sufficienza.
La masthaba si sta' disfacendo come un budino lasciando trasparire un'ossatura di rami ed un cuore di pietra, mentre i contorni del serpente nero si frastagliano in sabbia e farina di copertoni.

La pecora scuoiata sta' lassù, a due metri dal suolo, quella sgozzata resta a gocciolare sangue ad un metro da terra, sdraiata sul tavolo con il collo riverso e lo sguardo fisso al sole. Più sotto la pecora viva passeggia legata ad una corda corta, in attesa della sua prossima ascensione.
Li accanto due moto BMW sfrecciano alla velocità della luce verso una meta di fretta e autocompiacimento, un pullman si ferma e riversa uno sciame di divoratori di pezzettini di capra. 
Due omuncoli al tavolo sorseggiano coca cola e guardano i vestiti neri e le mani sinuose, ascoltano il vento e riprendono il cammino rotondo che va sempre verso sud.
Qui, su queste strade passano uomini che non vedono l'ora di arrivare, che sognano un salotto dove raccontare, che vivono in cambio della vita di qualcun'altro. 
Correre, correre per arrivare in fondo, volare a casa e fissare compiaciuti i loro interlocutori nel caldo tepore di un salotto.
Faccio fatica a correre così forte. Faccio fatica a capire il perché di questa fretta, non ho ne voglia ne intenzione di arrivare.
La strada è calda e lunga, nera ed abbagliante e, poco a poco, attraverso un velo di dune, lascia affiorare lo scheletro di un immenso essere millenario le cui vertebre appaiono all'orizzonte come punte di lancia sommerse da un passato possente e tradito.
Un piccolo oggetto ricorda un grande uomo. 
Un nuovo manufatto stampato nella terra della sedia ritrae un monolito di panorama che nessuno ha mai visto per davvero.
Una collana in vendita ti ricorda che ancora oggi c'è chi è capace di comprare una nazione con le perline di vetro, di comprare la libertà con una coperta.
Il cammello si inginocchia ed il suo uomo fa la stessa cosa dopo pochi secondi. Tutti e due in ginocchio di fronte al loro signore e padrone, la mia macchina, ad elemosinare qualcosa, qualsiasi cosa non sia un pezzo di quel deserto che li rende così asciutti, così bruciati, così isolati.
Denaro, tecnologia, carta, parole, scatti fotografici, avanzi, meraviglie e benessere.
L'astronave riaccende i reattori e riparte lungo la via celeste, che oggi è nera come la pece.
Mille e mille chilometri vengono percorsi per arrivare alla "Grande città' crocevia di culture e commerci" .
Notti calde e pomeriggi bollenti, deserto e tanto asfalto.
La confluenza dei due Fiumi che si contendono la paternità del regno millenario, è un miscuglio di poco più che niente, è una silenziosa metropoli adagiata nel deserto, è un grattacielo mozzo immerso tra i cammelli e la guerra.
Strade polverose conducono ad alberghi costosissimi e viali malamente asfaltati filano dritti verso periferie di polvere e recinti fatti di rovi.
La manutenzione del passato è scarsa ed ingannevole, il mantenimento del presente incerto e traballante, il futuro un miraggio che danza nelle pozze di calore come una Morgana sdentata e poco reattiva, sfiancata dal caldo del pomeriggio e dalle sconfitte notturne, desolata ed abbattuta da migliaia di anni di rovesci.
Le luci del centro farebbero sorridere un contadino di paese e le regge per uomini lontani sono isole nel deserto, pronte a scomparire in tutta fretta all'alzarsi della marea.
Caldo, caos silenzioso e piccoli interessi reciproci fanno da contorno a mercati del niente di nuovo, a negozi di merci impolverate, ad oggettini che arrivano da lontano nella speranza di andare ancora più lontano.
Abiti senza sarti, vasi senza vasai, tappeti veramente magici perché arrivati fino a qui in volo, collane di un altro mondo e pipe spente.
No alcool, No droghe, No tabacco, Niente labbra al vento. 
Abbiamo tutti il diritto di preservare e vivere la nostra cultura ed per questo che la sera ci si ritrova a discuterne in un ristorante cinese che però non serve Moutai.
Una mattina qualsiasi, dopo giorni e giorni di uffici governativi, CNN, ambasciate, consolati, polizia, decisioni, incontri, politica e denaro, le auto riprendono il loro stato di mezzi che scendono a sud, correndo veloci sul nastro nero che conduce alla terra dell'uomo nero, alla mitica regione del leone, verso le montagne invalicabili del regno di Dio.

La politica, l'uomo, la società, la volontà di potenza, i traumi del passato, il malessere del presente e la paura del futuro, il razzismo e la religione, i colori della pelle, la forma del naso e la consistenza dei capelli, tutti assieme hanno tirato una linea ed anche noi su quella linea ci arrestiamo, ci fermiamo per chiedere permesso.





6

IL SERPENTE DEI TRE PASSI
di Mpanzo Nimi
traduzione dal francese di Pierre-Yves Raoult


Passo numero uno:
annullane la volontà.

Priva.

Togli la luce come fossi dio.
Fai in modo che il cibo sia poco, difficile da reperire e caro. Il cibo deve avere poco gusto e l'acqua deve essere sempre un pò torbida.
Fai in modo che i professori siano pochi, mal pagati o pagati per niente. 
Fai che i professori e le scuole siano vuoti, cadenti, rattoppati e sempre sull'orlo di una crisi. 
Scuole e professori devono cambiare mestiere: granaio, soldato, contrabbandiere, caserma.
Fai in modo che la religione spieghi le quattro semplici idee che ti sei fatto nella vita, fai in modo che le parabole, compiuto il loro arco tornino sempre giù, da dove sono partite, nel secchio di melma delle quattro idee che hai.
Spacca le strade o lasciale invadere dalla natura, fai in modo che lui non si possa muovere, che loro non si possano incontrare, che le loro menti restino ferme in un posto solo e diventino dure e piccole come una noce.

Dividi:

Se riesci dividi le famiglie, dissipa le amicizie, smembra i clan, parcellizza le etnie, promuovi l'odio tra cugini, insegna la lontananza, impedisci il comitato, vieta il ritrovo, imponi la divisione, fomenta l'odio fraterno. 
Metti le religioni sul ring, fai scendere le loro idee nell'arena, fai combattere le fazioni, dai diversi colori allo stesso esercito, tira linee provvisorie sui terreni ed ogni tanto regala una casa ed un diamante a chi non se lo merita. 
Insisti a fare in modo che le strade si inondino, i fiumi crollino, le barche restino senza carburante e le radio finiscano le pile.

Spaventa:

Inventa nemici, mostri, detrattori, cattivoni lontani e sconosciuti, capri espiatori potenti ed inconsistenti. 
Fatti passare per un Dio ma lascia che lontano dalla tua terra ci sia sempre almeno un Dio più grande di te sul quale far ricadere colpe ed incantesimi.
Fai razzie, uccidi, mutila, schiaccia e spacca, armati e mostra a tutti il tuo grande fucile da guerra, fai che la rovina incomba sempre come un cielo cupo sulle teste dei senza tetto e sui tetti dei senza cibo. 
Mitizza il passato, rendi incomprensibile il presente e cancella il futuro con un colpo di spugna.

Passo numero due:

Comanda.

Ruba, porta via tutto ciò che desideri, vivi nella reggia delle regge, fai in modo che la tua immagine brilli come il sole, sorgi ogni mattina da un palazzo d'oro irraggiungibile, coricati ogni sera in un letto di piume e disprezza i giacigli di rami e paglia. 
Uccidi, sfregia e violenta. 
Attacca, spara e fai esplodere e poi ritirati a guardare la disperazione e sorridi.
Fino a quando non verrai avvelenato, fino a quando non ti spareranno in testa, sino a quando non ti faranno saltare in aria, fino a quando durerai sarai l'uomo più potente del mondo.
Comportati così ma dai un occhio ai potenti che non possono fare altrettanto, a quelli che hanno dovuto affinare armi più sottili ed impara, che forse nella vecchiaia ti serviranno.


Passo numero tre:

Impara:

Piccoli regali ai pezzenti, schermi luminosi come il sole ai poveri, auto a qualcuno, anzi a tutti, libertà provvisorie, ammennicoli luccicanti libertà inventate, grandi canali in cui far marciare con ordine e disciplina la melma umana. 
Digli che possono andare dove vogliono, ci penseranno da soli a tornare indietro non appena il prezzo della benzina sale, non appena la strada muta nome, non appena casa si raffredda.
Rendi l uomo schiavo del debito e la donna del denaro del debito. 
Fai finta che il tuo grande amico sia il tuo più grande nemico ed assieme raccogliete il consenso di tutti e poi giocateci la sera come fosse un passatempo qualsiasi.
Fai che si osservino l'un latro compiacendosi a vicenda della bellezza della loro cravatta e poi fai che ridiscendano tutti assieme verso il grande mare, che lo osservino con speranza tutti uniti dagli stessi piatti di pesce e poi fai in modo che le acque non si dividano mai. 
Fai in modo che tornino tutti assieme nello stesso posto da cui sono partiti, stessa giacca, stesso capello, stesso sogno piccolo senza meta. 
Digli che stanno costruendo il futuro, non fargli mai capire che il futuro arriva come uno schiaccia sassi e che nessuno lo può fermare: costruire, gestire, interrompere.
Fagli mangiare un piccolissimo pezzo di cibo facendolo pagare un prezzo altissimo, fagli credere di essere signori come te, fagli credere che milioni di pezzi di cibo tutti uguali sono una rarità ed un benessere irraggiungibile per gli altri.
Mettili tutti in riga ben vestiti, con la mano sinistra accarezzagli la testa e con la destra colpiscili sul sedere con una frusta.
Lascia che siano loro a creare i loro stessi miti, la loro idea di arte, il loro senso del bello, lascia che siano liberi di agire all'interno del recinto ben fatto che hai creato, e vedrai che ci penseranno da soli a trasformarsi in melma.
Con il tuo esercito di schiavi senza idee ti sarà facile scovare ed escludere le poche menti che non stanno al tuo gioco. 
Vedrai che il nuovo sistema li ingloberà come niente fosse, con un sorriso non avrai nemmeno bisogno di epurarli.  
Il tuo muro di gomma, la barricata di melma umana sono pronti ad assorbire ogni urto come niente fosse.
Fai in modo che spendano più denaro di quanto ne potranno mai guadagnare, fai che facciano sempre un figlio in meno di quanti gliene servano per essere liberi, fai in modo che la prole sia sempre in numero sufficiente ma non superiore a quello necessario per essere una scusa.
Con il debito, il figlio, il matrimonio, la certezza di mille monetine per la vecchiaia, la casa di proprietà, loro sulla carta ma di una banca nella realtà, si costruiranno da soli la loro prigione. 
Dai loro il ferro e la saldatrice e da soli si costruiranno una gabbia tutto attorno.
Fai in modo che possano comprarsi auto care come anni ed anni di lavoro, sempre più grosse e belle, con le quali continuare a spostarsi verso quel lavoro che serve a mantenerle e pagarle. 
Il perfetto circolo della schiavitù è chiuso.
Schiavi consenzienti senza futuro, pronti a tutto per restare in questo stato di semi libertà vigilata. 
Pronti ad uccidere e soverchiare se gli viene toccato uno degli oggetti del loro desiderio: auto, tv, giardino, giocattoli vari.
Fai in modo che la loro proprietà diventi sacra, la loro proprietà di oggetti che hai fatto tu, di oggetti deperibili ed effimeri il cui valore lo decidi tu di volta in volta.
Fai in modo che la proprietà della terra diventi un male e quella dei tuoi piccoli oggetti vinca ancora sulla vita di tutti noi.

E tu, sarai tranquillo al comando della grande nave in secca mentre il mare traballa e scintilla limpido e tranquillo in attesa dei futuri rovesci.





7

"BOCCA LARGA"
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello


Un numero assolutamente imprecisato di persone si aggira sul pianeta terra. due miliardi e mezzo nel 1950? Sei miliardi e mezzo oggi? Mah chi può saperlo.
Alzi la mano chi era presente. Alzate tutti la mano che così diamo una contata proprio oggi.
Mentre l'uomo dal ventre piatto passeggia attraverso questa immensa moltitudine qualcuno lo apostrofa: "Chi sei tu per giudicare!?"

"Io sono te" risponde l'uomo dal ventre piatto; si gira e riprende la sua strada già dispiaciuto di aver dato risposta a quella voce.
"Da oggi non succederà più, da oggi" si dice l'uomo dal ventre piatto," risponderò a questi poveracci, a questi nessuno, con parole non incomprensibili ma con false risposte, con parole che li faranno meditare senza sapere che staranno meditando sul niente."  
Così la mattina dopo, mentre l'uomo dal ventre piatto arringa in una piazza sperduta nel deserto, un piccolo drappello di omuncoli si avvicina, lo ascolta e uno di loro domanda: "ma chi sei tu che vieni qui in questa nostra terra a dirci del bene e del male?"
L'uomo dal ventre piatto risponde con un lieve sorriso: "Sono il tuo dio disceso da sud, portato dal vento tiepido creato dallo sfarfallare delle grandi orecchie del coniglio gigante. 
Sono una rana saltata fuori dallo stagno prima che il perfido meteorite ci precipitasse dentro. 
Sono lo spettro del maialino arrostito il mese scorso in una terra lontana da uomini che non avevano fame ma solo uno spiedo nuovo. 
Sono la scarpa del suonatore di mandolino che da nove anni ha smesso di suonare perché gli duole il tallone nudo. 
Sono il granello di sabbia più grande di tutti, gigante nella duna e nano nella sassaia. 
Sono colui che spende il denaro con un sorriso perché spera sempre che basti a pagare un momento di gioia. 
Sono il sicomoro più sottile dell'intero cerchio, quello che lascia trapelare un raggio di luce anche quando la luce si sta' facendo da parte. 
Sono la strega dai capelli crespi, la madre di tutti i mali a venire ed allo stesso tempo il padre di tutto ciò di buono che c'è stato fino ad oggi.
Sono il teschio ritrovato tra le ceneri della casa in fiamme, l'osso di pollo che assume la posizione sgradita nell'ordine prestabilito. 
Sono il filo che sempre verrà tagliato in cambio di un po di tranquillità."

"Sei solo uno stupido ""bocca larga' qualunque"", ecco cosa sei" lo apostrofa un uomo del gruppo; un uomo seduto su una cesta di paglia che si piega sotto al suo peso e che lo lascerà con il sedere a terra entro pochi minuti.
L'uomo dal ventre piatto sorride come se quell'uomo fosse un giullare nemmeno troppo capace di fare il suo mestiere.

"I tempi dei re sono lontani mio caro ""culo in terra'" risponde l'uomo dal ventre piatto," i tempi grandi si sono sciolti come zucchero nel formicaio, le dame hanno perso le vesti ed i re le corone, le regine non sanno leggere nemmeno il loro nome, i principi sono capricciosi come piccoli cani viziati e tutta la gente del mondo si sente re di quel piccolo spazio che c'è tra la punta del loro naso e la mosca che ci si è posata sopra".

Qualcuno si alza come per allontanarsi, qualcuno si alza come se volesse dire qualcosa, ma tutti vengono distratti da un rumore tra i cespugli. 
Gli sguardi si voltano e dal folto delle palme esce trotterellando il coniglio gigante, si ferma a pochi metri dal gruppo, osserva gli uomini uno per uno e non dice niente. pochi secondi, pochi balzi ed il coniglio gigante è di nuovo scomparso tra la vegetazione.
"Il coniglio gigante ha parlato" dice l'uomo con il ventre piatto "è ora che io vada, è l'ora in cui, se le avessi, dovrei muover le tende".
L'uomo con il ventre piatto scende dalla montagnola di sabbia e si incammina verso sud.

Dal gruppetto di poveracci alle sue spalle si leva una voce: "Ma di che coniglio parli, quella era solo una nuvola! Apri gli occhi 'Bocca larga', aguzza la vista 'Orecchie piccole'."

L'uomo dal ventre piatto si allontana incurante della calura pensando a come può l'uomo confondere il coniglio gigante con una nuvola, come può l'uomo credere che una nuvola esca dalla vegetazione e ti parli, come può l'uomo essere così cieco e sordo ai consigli che il mondo intero cerca di dargli.
Lasciate le sabbie non resta che scalare la montagna. 
Il regno millenario fatto di gole ripide, di canaloni scavati dal tempo, di picchi aguzzi e verdi vallate, di luoghi sacri che vivono tra le montagne di nebbia di laghi antichi come dei.





8

ETHIOPIA
di Luca Oddera

La strada si trasforma piano piano. le curve, una dopo l'altra prendono il posto degli infiniti rettilinei. La strada sale, scende, si inerpica, si inabissa, oltrepassa villaggi colorati e si macchia di orina e sterco dei mille animali che la passeggiano, la percorrono la seguono, la attraversano, la vivono.
Carri, carretti, biciclette, piccoli furgoni trasformati in traini per asini, casette sulle ruote, bambini festanti ed animali addormentati.
è pericolosissimo percorrere queste strade tortuose, un traffico eterogeneo di mezzi ed umanità usa la strada come piazza, come casa, come campo da gioco come ambiente di lavoro.
Le carreggiate si trasformano in spianate ardenti usate come seccatoi, i ponti in trampolini per tuffi, i brevi rettilinei sono campi da calcio perfetti, le zone di tiepido asfalto ombreggiato diventano stalle a cielo aperto. 
I pochi slarghi vengono utilizzati come mercati, mattatoi fermate dei bus stracarichi.
La vita brulica lungo la strada e si disperde negli sterminati campi che costellano le dolci colline lussureggianti. 
La gente sorride, sbraita, si arrabbia, si fa da parte e addenta una banana.
I residui bellici arrugginiti sono accostati nelle cunette come temporanei monumenti a quella guerra che qui è sempre dietro all'angolo.
Le spianate punteggiate di vibranti residui di sacchetti di nylon, si affacciano su abissi panoramici che hanno dell'incredibile, che danno l'impressione di poter osservare tutta la Terra con un unico sguardo.
Le catene di montagne sfumano all'orizzonte troppo lontano per essere percepito. Ogni Fila di monti è più scura della successiva e più chiara della precedente. 
Onde di terra pietrificate nel mare di questa umanità festante che digerisce manioca e banana ad ogni nostro battere di ciglia.
La strada è un capolavoro di ingegneria, è un'opera d'arte lunga duemila chilometri distesa a disegnare e cadenzare il passo ed il passaggio dell'uomo su questa terra.
Ogni curva ne inventa un'altra ancora più stretta ed improbabile, ogni tornante ne lascia presagire un altro più stretto e ripido, superando pendenze impossibili e correndo lungo colline verticali. 
Ogni curva inventa sua sorella , la sua strana cugina la sua folle parente per fare in modo che i ponti siano sempre pochi, sempre meno.
Ma quando l'asfalto non ne può fare a meno si getta sul cemento in un salto vertiginoso su un baratro che divide il pianeta come una ferita. 
"Di là dal ponte tra gli arbusti" la discesa si trasforma in salita. 
Gemelle opposte conducono i viaggiatori lungo abissi speculari.
I motori diesel arrancano, quelli a benzina fischiano, gli asini abbassano le orecchie, gli uomini sudano i viaggiatori attendono.
I santi al braccio i cristi al collo, le croci sulle fronti, i santuari in mezzo al lago e sulle montagne, dio ovunque ed uomini dappertutto. 
Antichi monasteri di roccia osservano come anziani il gioco dei bambini e le nuove chiese con il tetto in lamiera chiedono quando scenderà il sole cocente.
I telefoni portatili squillano in città e l'asino raglia nel villaggio.
La cattedrale tenta di fare bella mostra di se sotto il sole della città, davanti ad un giardino abbandonato e ad una rotonda affollata.
Il sasso scolpito in foggia di pietra cuoce i suoi peccati come un forno immerso nella calura limpida delle montagne di roccia.
La chiesa di assi e lamiera accoglie mille persone al minuto intente a dimenticare il rutto di manioca ed il rigurgito di banana. 
Mille visi speranzosi che sognano una capra cotta e limpida acqua domenicale.
Intanto il sole scende sul cartello stradale che nomina due località: una a 1320 km l'altra a 1400.
Lascia che il tempo si dilati e si acquieti altrimenti non arriverai mai.





9

BORDERLINE… 
DIPENDE DA CHE LATO ARRIVI
di Luca Oddera

L'albero d'argento scintilla al sole come se fosse coperto di gocce di rugiada. I profani lo osservano con reverenza, i credenti lo adorano senza limitazioni.
Laggiù nella terra di confine, dove tutto si allunga in un orizzonte lunghissimo, l'albero d'argento lascia cadere la sua rugiada cristallina solo quando la sera rinfresca l'aria, solo nel momento in cui gli occhi degli uomini smettono di essere socchiusi. 
La rugiada scende, si asciuga, disseta le radici e fuori, lontano, si accendono le luci.
L'ultima città della terra si anima di piccoli truffatori, prostitute da quattro soldi, fuochi e pezzetti di carne arrosto. I volti dei poliziotti e dei soldati si contorcono disegnati dalle fiamme dei mille fuochi, i sottili vicoli si infrangono nel buio e le baracche di lamiera accendono rossastre luci che invitano l'uomo abbandonato. Gira l'alcool e qualche droga, le donne cosce aperte stese su letti sudici invitano uomini sporchi e sudati. 
L'accampamento degli unni, il bordello visionario posto sotto al vulcano, l'incubo dal quale non riesci ad uscire perché le gambe corrono nella molla gomma, il regno della malattia, lo scolo di fogna che scorre lento accanto all'abbandonata verdura notturna. 
Il topo corre, scarta e si intrufola, il dio denaro cambia mano in quantità minuscole ma importanti. 
Un vicolo buio dopo l'altro, un fioco fuoco, la lampadina traballante, il posto dove l'uomo chiaro non scende mai, la malattia non si accontenta di strisciare ma galleggia nell'aria torrida. 
C'è del sugo sul letto, della marmellata sul cuscino, delle bucce di banana marce sotto al materasso, un sacchetto di unghie appeso sopra alla culla e gruppi di disperati che defecano nel buio. 
La lampadina traballa, si spegne  e occhi blu passa oltre. Qualche volta è meglio non guardare, non assaporare, non sentire, ma è importante essere li per cogliere quel rivolo minuscolo di realtà, di verità di vita.
Il cristo piange lacrime di sangue sulla croce e le sue lacrime assumono il loro ultimo e primigenio significato, quello della salvezza, della redenzione. 
Il sacrificio cruciforme salva l'uomo, lo divide dalla bestia con un colpo deciso e sicuro e solamente lo stolto pensa che si possa tenere il piede in due scarpe.
Maometto resta immobile in attesa della montagna, cristo lacrima sangue sui sudditi di satana.
Non so proprio quale occhio allenato all'autostrada, al cinema, alla piscina, all'estate, al mare, al cruscotto, al bidè, allo schermo luminoso, al denaro di papà, al sorriso di un'amica… non so proprio quale occhio così allenato si sia mai posato su questo dedalo umano. 
Solo i "cuori di tenebra", le anime perdute, i vigliacchi del paradiso sono passati di qui ed hanno visto. 
Quello che vede l'occhio sente l'anima e se ne allontana come se non conoscesse la verità.
Troppo duro, crudo e bestiale è il dipinto oscuro del sentiero di fango, delle baracche in fila delle anime infilzate dallo spiedo del soldato stanco di allettare. Troppo difficile da ammettere è quel misto di sangue, sudore e piume di gallina, quel pianto di bambino sommesso che si intreccia con il sospiro roco del coito malato del dio ubriaco.

Il letto traballa, il fucile scivola, i fianchi oscillano, gli sguardi si allontanano, i colpi aumentano il ritmo, le dita dei piedi si ritirano come artigli, il peso aumenta sui reni, una mano si allunga, afferra la culla improvvisata, e sotto ai colpi della disperazione, trova il tempo di farla dondolare per acquietare quel pianto che distoglie la mente dal lavoro e prolunga la pena del cliente pagante e maleodorante.

Piedi nel fango, abbandono, notti scomode ed ammuffite, amuleti tanto potenti quanto inutili, cibi insipidi e code di topo.
Le armi passano di mano, i sultani della frontiera passano le consegne e sperano di giacere in letti di rose. 
I brandelli di taccuini attendono nella scrivania abbandonata e qualche occhio lucido e brillante trova forza nell'onestà, nella dedizione al suo lavoro destinato ad essere strumento di chi giace nella baracca illuminata a giorno immerso nel sesso e nelle zanzare.
Qualcuno ci prova, con dedizione, coraggio ed orgoglio pur sapendo che anche quella notte il fucile passerà di mano e sparerà ancora. 
Il bambino lontano dorme sonni tranquilli in posti appena più decenti mentre il padre aspetta che cada qualche moneta dalle bisacce dei gendarmi, dei viaggiatori, dei signori del male. 
Una fotografia sul cuore, un piccolo crocifisso al collo e la speranza di poter presto smettere.
Un'ora prima dell'alba, otto ore dopo il tramonto, la notte si calma, si lascia snodare dal sonno. 
Gli uffici malandati aprono i catenacci.

"Avanti signori, venite avanti e mostratemi un'altra volta le vostre effimere e sudicie scartoffie, i balli sono aperti.

10

CANI BASTARDI E CAMMELLI MARCI
di Joseph Mwangwa
traduzione dal inglese di Pierre-Yves Raoult

Willy mangia banane vicino alle falde del vulcano, le ha trovate accanto alla porta della sua piccola casa fatta di giunchi intrecciati, fango e paglia.
Un bel cesto misto di banane, papaia e mango. 
Veramente ci sono sei banane un mango ed una papaia.
Willy, mentre sbuccia un'altra banana cerca di immaginare chi può avergli lasciato quel dono. 
Cerca impronte attorno alla casa, nella polvere umida scopata la sera prima. le impronte ci sono, ben nette e precise. 
Sono piedi di donna, sono i piedi di Teresa che hanno lasciato quelle impronte. Certo lo sapeva già, ma nono si sa mai.
Una dura serata con quelli del clan dei Cani, una dura serata di amicizia e fermentato di palma, di pacche sulle spalle, di risate fragorose e progetti per cambiare il mondo. 
Una serata di donne veloci che si strusciano come bestioline.
Era tornato alla capanna senza cedere alle lusinghe di Viola, di Mawunga, di Jane? Willy credeva di si ma non ne era mica sicuro.
A casa ci era tornato da solo, c'erano le impronte a dimostrarlo, ma prima di tornare a casa?
Le banane di Teresa erano un vero toccasana, dopo una dura notte non fa bene rimanere a stomaco vuoto. Willy era sicuro che Teresa avesse saputo della sua notte brava e proprio per questo ora quel cibo era li.
"Che donna, che creatura dolce e formidabile."
Willy doveva fare una scelta, erano mesi se non anni che doveva fare questa scelta. 
Teresa la dolce donna della sua vita lo attendeva e lui sprecava il suo tempo a gironzolare scapolo nella speranza di cosa?
Willy sapeva benissimo cosa avrebbe fatto nei prossimi giorni, si sarebbe dato una ripulita, si sarebbe iscritto all'università per finire gli studi da dottore che aveva abbandonato due anni prima e sarebbe andato da Teresa a dirle che gli sarebbe piaciuto che fosse proprio lei a preparargli la colazione tutte le mattine.
Ancora un giorno o due per dissipare i fumi delle sostanze alcholiche, per sgonfiare un pò e potersi presentare al rettore ed a lei in piena forma.
Vita lunga, figli e benessere, ecco tutto ciò che cercava.
Willy scese la scarpata fangosa, si incamminò lungo la strada segnata da profondi solchi e si diresse verso la piccola missione di Bagunda. 
Là, suor Maria lo avrebbe aiutato, lo avrebbe consigliato, sarebbe stata felice di accompagnarlo passo dopo passo in questa sua nuova avventura. 
Suor Maria, che veniva da così lontano sapeva tante cose e sicuramente lo avrebbe approvato, gli avrebbe scritto una piccola letterina di raccomandazioni per il rettore e chissà, magari anche un lavoro...
Mentre scendeva a valle Willy si sentiva leggero e tranquillo, non scacciò i cani quella mattina, non tirò sassi ai monelli che gli correvano attorno e non abbassò lo sguardo passando davanti alle case degli anziani.
La terra risplendeva del rosso della Grande Madre, i tetti di paglia scintillavano della leggera pioggia notturna, la vegetazione sgocciolava di quel verde che non esiste in nessun altro posto al mondo. 
Un acre odore di foglie umide, di frutta in fermentazione, di pollini e fumo cominciava a levarsi nell'aria. 
Quello era l'odore della sua terra, del suo popolo, della sua vita e Willy ne era felice.
Un'ora di cammino, di buona lena anche solo cinquanta minuti, un'ora per mettere assieme gli ultimi pensieri prima di cambiar vita per sempre.
Non ci volle molto per capire che era successo qualcosa.
Fuori dai cancelli della piccola missione di Santa Lucia si era radunata una folla.
Willy acellerò il passo, poi corse per un tratto e vide donne in lacrime e uomini seduti che cercavano bastoni con lo sguardo, bastoni da percuotere a terra , bastoni per scaricare la rabbia.
Willy riuscì ad arrivare al cancello di ferro, ad aprire lo sportellino ed a parlare con la guardia.
La guardia lo fece entrare, era di casa Willy.
"Cosa è successo?"
La guardia gli mise le mani sulle spalle e, con gli occhi pieni di lacrime e rossi delle lacrime già versate, gli comunicò la morte.

Willy spinse di lato l'uomo e corse verso il portico e lì, riverse sulla porta, una fuori, una dentro giacevano, straziate, insanguinate, contorte, quasi smembrate, morte, suor Maria e Teresa.
Willy si accucciò accanto ai corpi, sfiorò la veste di suor Maria e fece per accarezzare il viso di Teresa, qualcuno lo spinse via, un poliziotto, un militare forse.

Ventuno coltellate a suor Maria.
Ventuno coltellate a Teresa che si trovava lì per caso.
Ventuno coltellate erano una firma, un segno inconfondibile, un sicuro atto di guerra.

Il clan dei Cammelli era sceso lungo le strade buie, aveva chiesto asilo, era entrato nella missione ed aveva firmato la condanna a morte di migliaia di persone.
"Bastardi, maledetti assassini, Cammelli marci, adoratori di satana e Maometto, avete messo le mani nel posto sbagliato" urlava qualcuno da dietro al cancello ed intanto i primi bastoni cominciavano a percuotere la terra, sempre più forte, sempre in maggior numero.

Quattro case più in là, Alì ebbe notizia dell'accaduto, gli tornarono alla mente le tragedie di quindici anni prima. Chiamò sua moglie e le disse di correre alla scuola, prendere il figlio e dirigersi dagli zii al villaggio. 
Poi Alì uscì di corsa per andare a prendere la sua bambina alla scuola di cucito ma quando arrivò il mondo gli crollò addosso.
la piccola ………… era stata uccisa a bastonate assieme ad un'insegnante e ad altre sei bimbe.
I corpi erano lividi e gonfi. 
Alì si inginocchiò, prese in braccio il corpicino ed urlò di rabbia e dolore.
Poco lontano echeggiò il primo sparo ed il mondo si gelò per un'istante, poi si riprese, cambiò espressione ed indossò la maschera della guerra, della follia, della morte.

Pazuzu riemerse dalla vegetazione, rinvigorito e sogghignante e fiero e potente scivolò rapido e silenzioso verso la città. 
Cibo e vita per il grande Dio, morte e distruzione agli uomini.
Pazuzu sbava pregustando i giorni a venire, si solletica lo stomaco marcio al pensiero della fresca carne pronta ad imputridire, si inebria dell'odore dell'odio che potente si sta' levando.

Quaranta giorni durò la follia, quaranta giorni e quaranta notti ci mise la marea nera per salire e defluire.
Morirono in migliaia, morirono innocenti e traditori, succubi e padroni di fucili, donne, bambini e vecchi furono trucidati, animali sgozzati e lasciati a marcire. 
I tetti presero fuoco le scuole crollarono e gli ospedali si riempirono di cadaveri e fumo.
L'esercito arrivato dalla capitale e i grossi blindati dell'uomo bianco, misero fine alla violenza, misero fine al dolore con altro dolore.
Ne buoni ne cattivi, solo cadaveri.
Oggi la quiete è tornata, un cane passeggia curioso attorno ai resti carbonizzati della casa di Willy, la missione di Bagunda è stata sostituita da una piccola caserma permanente di soldati arrivati dalla città. 
Viola, Mawunga, Jane sono andate via, al seguito dei militari sono andate alla capitale.
Willy è morto l'ultimo giorno di combattimenti, ma solo dopo essersi guadagnato un posto di rilievo nell'inferno che lo attende.
Le suore per il momento se ne sono andate e le strade sono sprofondate sotto il peso dei blindati.
I pochi anziani rimasti hanno discusso a lungo con il colonnello Yabushebua a proposito del cambio di nome del villaggio. 
Alcuni dicono che il nome è troppo cristiano, troppo legato al clan dei Cani, altri dicono il contrario, dicono che i musulmani ci hanno messo lo zampino, che il clan del cammello è troppo vicino a quel nome. 
Sarebbe bello pensare che tutti vogliano semplicemente dimenticare ma Pazuzu è ancora in agguato.
Il grosso dell'esercito torna in città senza aver risolto il problema del nome.

Adesso, lungo la strada di terra rossa giace un grande villaggio senza nome, un posto abbandonato dagli spiriti buoni, un luogo che Pazuzu trova ricco e confortevole, un luogo che nel bisogno di dimenticare si scorderà presto delle violenze subite ed inferte.
Il colonnello Yabushebua, a bordo del suo grande fuoristrada da guerra lascia il villaggio seguito dalla colonna dei mezzi della sua guarnigione. 
Questa operazione gli varrà una medaglia e parecchi denari per il futuro, denari che gli arriveranno dalla guarnigione insediata nella missione di Bagunda.

Mentre esce dal villaggio Yabushebua si volta per dare un'occhio al suo esercito.
Voltandosi vede il cartello con il nome del villaggio cancellato con pennellate di vernice bianca. 
Qualcuno, con vernice nera ha scritto in lettere maiuscole:

WELCOME TO HELL.

Yabushebua si volta, osserva la strada e sorride:"Si troveranno bene, si si, i miei uomini si troveranno proprio bene quaggiù all'inferno"

NOTA
(Sono storie brevi queste, con personaggi che affiorano e muovono qualche passo. 
Sono giornate brevi, quelle invernali ma calde in cui i mosconi escono lenti e strisciano dattorno credendo sia arrivata la primavera. 
Personaggi come questi meritano stagioni vere. 
Meritano in questo caso una nota che sarebbe bene fosse ben più lunga del racconto. Una nota con caratteri grandi come gli altri ma magari un poco diversi giusto per distinguerli. A nessuno piace cavarsi gli occhi per leggere le note.
Ovunque ed in qualunque epoca ci sono stati gatti che vivono in casa al calduccio e gatti che vivono al freddo e mangiano lucertole quando ne trovano. 
Ma non si parla qui certo solo di gatti ma anche di cani, ci mancherebbe. Ecco, così è, così è sempre stato e così sempre sarà perché la storia è una ruota che gira. Ma questo, al fine, non è necessariamente vero. Sfortunatamente la storia potrebbe non essere una ruota. 
E' semplice a ben pensarci: questa odiosa disparità tra gattini che crescono fuori al freddo, tormentati dalla fame e dalla paura della volpe e quelli ben pasciuti e carezzati che li osservano dai vetri delle porte si può risolvere in fretta.  Gattini, va ben, ma vale pur per i cani. per i cani qualche passo avanti è già stato fatto.
Ecco, basta armarsi di buona volontà e sterminare tutti i gatti che vivono al freddo, abbandonati… abbandonati da chi? Ah già, da noi. Ecco, sterminati tutti i gatti…eh si certo e tutti i cani…che hanno preso nome di randagi, ecco che così ci saranno solo gatti -e cani- ben pasciuti e curati. 
Certo ci rendiamo conto che nella mischia, nell'operazione benefica di pulizia, di cui si fanno -fecero- carico diverse associazioni no profit di benpensanti e volontari d'ogni sorta, ci andranno di mezzo anche alcuni gatti da casa che, per malaugurato episodio, si trovassero all'aperto senza collare di riconoscimento durante le crociate benefiche di pulizia sistematica.
Così come questa storia tocca gatti e cani in egual modo, nella stessa maniera riguarda, per diretta via Cani e Cammelli; come emerge dal breve racconto sopra riportato. 
Certo la storia non sta in piedi se si parlasse di cani veri e di cammelli veri poiché il cane è inutile, o poco utile e di sicuro senza Valore, mentre il cammello è molto utile, anzi è molto utile il suo Valore. 
Ma noi stiam qui parlando di Cani e Cammelli con le C maiuscole non minuscole. Anzi noi siam qui a raccontare le vicissitudini di alcuni cani e cammelli che casualmente si trovarono ad essere Cani e Cammelli.
Willy, Alì, Teresa, Viola e molti altri di cui i nomi appariranno a suo tempo.
Adesso siamo nella contingenza di trovare sì il tempo per raccontarvi questi nomi, e la cosa di per sè sarebbe già poco facile perché ci vuole allenamento, ma dobbiamo anche trovare uno spazio in cui metterli e questo potrebbe richiedere ancora più lavoro di quel che immaginate. Trovare uno spazio ai nomi richiede fatica, più di quella che si possa pensare perché le cose vanno fatte per bene e non possiamo mettere il latte nella bottiglia del vino e sopratutto non possiamo mettere il vino nel cartone del latte!)

Nota alla NOTA
Willy ed Alì per un certo periodo frequentarono la stessa scuola ……..


GLI ARCHITETTI SENZA DIMORA
DI Luca Oddera

Il palazzo, visto da lontano, sembra grande si, ma poi quando ti avvicini le sue dimensioni ti sopraffanno. 
Non è abituato l'uomo a vedere un palazzo di tali dimensioni se non inserito in una città.
L'erba, morbida e lunga, copre la prateria come un tappeto. La facciata in cemento inizia così, dal nulla.
C'è solo lui, quaranta piani di cemento e vetri opachi messi lì, in mezzo al niente, in mezzo alla savana, in mezzo alla prateria.
Fosse un immensa meridiana alcune delle sue tacche andrebbero disposte ad un chilometro di distanza.
Fosse un gigantesco monolito della conoscenza non avrebbe ne vetri ne ingresso.
Fosse una torre di controllo ci sarebbero aerei ronzanti come api attorno al favo.
Fosse qualcosa che ha un significato non resteremmo interdetti e spaventati di fronte a Lui.
Ci avviciniamo con le macchine, ci avviciniamo ma non troppo, una cinquantina di metri sono già una vicinanza sospetta.
Scendiamo dalle macchine. 
Il caldo è opprimente il silenzio aberrante. 
Come mai, mi chiedo, se osservo il panorama non trovo nulla di strano nel fatto che nessun rumore si aggiri tra i pochi alberi, mentre se mi volto e guardo l'incombente superficie della facciata mi aspetto dei suoni, suoni di un altro mondo la cui assenza instilla nella mia mente una sensazione di panico incombente, una paura primordiale quasi.
Ma non possiamo restare qui a guardare. 
"Esploratori!" ci è stato detto "Andate e vedete!"
Noi non possiamo sottrarci a questa etichetta che raggira il sorriso, che evita lo scherno, che come un gioco ci è stata adesivata sulla fronte e sulle pagine del giornale, che con grottesca enfasi abbiamo voluto accettare senza meritarne il titolo onorifico che comporta.
Ok. Torcia e bastone, videocamera e macchina fotografica.
Mentre ci avviciniamo noto dei particolari che prima non vedevo: la base del palazzo emerge dalla terra secca, quasi sabbiosa, come se niente fosse. 
Non un cordolo, non un marciapiede, non una linea di giuntura.
Da una piccola crepa nel terreno fuoriesce una fila di grosse formiche. la colonna di insetti prosegue in alto, qualche metro e scompare in una fessura tra vetro e cemento.
il cemento è vecchio ed ha risentito delle intemperie, è macchiato, scolorito e quasi triste. Il palazzo è qui da tempo, lo si vede, lo si sente. Il palazzo è piuttosto vecchio ma in ottime condizioni.
Newton è dietro di me, ma io rallento, osservo e rallento, forse rallento per farmi superare. Tutto sommato non me la sento di entrare per primo.
Newton mi supera entrando nell'ombra. lo seguo con un sospiro di sollievo.
La porta, il portone gigante in vetro è spalancato. Il pavimento, stranamente pulito, si perde in un atrio quasi immenso.
Entriamo e mentre gli occhi si abituano alla bassa luce, il ronzio della prateria si fa sommesso e poco dopo si acquieta completamente. Nessun scricchiolio, nessuno stillare di gocce. Nessun rumore, solo quello del vuoto, solo quello del fluire compresso del proprio sangue vicino ai timpani. 
Un colpo di tosse, il mio, uno strusciare di piedi nelle scarpe di pellaccia, quello di Newton.
L'atrio è grandissimo e luminoso. 
I residui, spogli ma puliti di un desk si stirano pigri tra l'ombra e la luce alla nostra destra. 
Le porte in acciaio lucido di due ascensori sono chiuse ed immobili. le grandi colonne di cemento liscio salgono verso una lontana controsoffittatura in marmo colorato.
Alcune porte si aprono su lunghi corridoi.
Una scalinata larga ed imponente sale ad un mezzo piano rialzato, una terrazza affacciata sul atrio. 
Una balaustra di spesso vetro opaco la divide dal vuoto.
Newton sale la scala ed io lo seguo.
Anche il ballatoio vuoto e deserto è enorme, copre quasi la metà della superficie dell'atrio.
Una fila di vetrate si affaccia sulla pianura circostante e lontano vedo due gazzelle correre, fermarsi, guardare verso il palazzo e poi riprendere la corsa.
Vorrei esse già fuori.
Due piccole porte si aprono sulle trombe di scale. A scendere e salire.
Tre archi danno accesso ad un grande ambiente che poteva servire da bar, ristorante o cucina.
Saliamo di un piano.
La scala è sproporzionatamente stretta e povera. un semplice corrimano in plastica e ferro corre sulla sinistra. i gradini sono di cemento liscio ed i muri sono pitturati sommariamente di bianco sporco.
Quattro rampe a zig zag portano ad un corridoio lungo e ricurvo.
Una fila di porte si stende su un solo lato del corridoio.
Newton si incammina verso destra. Lo seguo. 
Nessun rumore.
Le porte sono in metallo, senza maniglie, senza serrature. Solo una placca di ottone con inciso il simbolo di una mano aperta.
Newton spinge la porta dalla quale si diffonde una tenue luce.
Entriamo.
Uffici, antichi uffici suddivisi in moduli di plastica. nessun oggetto, nulla che serva a datare, capire, dare un giudizio.
Altra porta, altri uffici.
Altra porta, altri uffici.
Uno sgabuzzino e poi altra porta, altri uffici.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
un piano di passaggio, quasi tutto aperto e vuoto, grande quasi come l'atrio ma basso ed opprimente nella sua vastità.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio. 
Dovremmo essere al settimo piano. Qui il corridoio è largo e luminoso. le porte che vi si affacciano sono provviste di grandi maniglie in acciaio e sono più ampie.
Ci sono meno porte e meno vicine l'una all'altra.
Newton gira una maniglia ed entra.
Un appartamento luminoso si affaccia sulla prateria.
Un grande appartamento vuoto.
Un grande salone comunica attraverso un arco con una cucina squadrata ed imponente. 
Legno chiaro ed acciaio.
Mentre newton supera una porta io apro il rubinetto del lavandino. Un suono, un leggero fischio come aria che sfiata, esce dal tubo dell'acqua.
Aspetto qualche secondo poi lo richiudo.
Un'altra porta un altro appartamento, identico ma speculare al primo. 
Ancora una porta, ancora un appartamento.
Un altro piano, altre porte altri appartamenti.
Ancora un piano, ancora appartamenti identici.
Un altro piano ancora. Altri appartamenti ma più piccoli.
Altro piano altri appartamenti.
Siamo al dodicesimo piano, credo. 
Attraverso le finestre dai vetri bruniti vedo la prateria. 
Siamo in alto, qualcosa come cinquanta metri dal suolo.
Riesco a vedere lontano. Prateria, pochi alberi ed in lontananza colline coperte di vegetazione.
Newton torna nella tromba delle scale. Stiamo per salire ancora di un piano quando un colpo, un forte rumore ci giunge dal basso. Non quello di una porta che sbatte, no, piuttosto come un colpo sulla ringhiera della scala. 
Newton si immobilizza.
Un altro colpo.
Paura.
Io comincio a scendere la scala, torcia accesa bastone in alto.
una, due, tre, quattro rampe e passiamo accanto alla porta del piano inferiore.
Scendiamo, spaventati ed affannati.
Mi fermo, mi immobilizzo, una nota stridula, incoerente con tutto il mio essere mi fa fermare e decidere di non desistere.
Guardo Newton che arriva, che mi segue nella fuga.
"Newton, non possiamo scappare, torniamo su."
"Tu sei pazzo, fila, fila via"
Newton mi passa di fianco quasi urtandomi e prosegue la discesa.
La paura è passata.
Senza impeto ricomincio la discesa.
Ad ogni rampa, ad ogni cambio di direzione mi aspetto di incontrare qualcosa, qualcuno.
Quanto eravamo saliti?, mille piani?
Comincio a pensare che siamo scesi troppo, che siamo passati oltre il piano ammezzato, oltre al piano terra, stiamo scendendo sotto terra.
Ma d'improvviso ecco la porta che sbocca sull'ammezzato luminoso e silenzioso.
Ci fermiamo nel centro del grande pavimento inondato di luce.
Siamo sudati fradici, affannati ma meno spaventati.
Lentamente scendiamo lo scalone rivolto alla grande entrata.
Siamo fuori. Un metro, due, tre, dieci, venti.
Apro la portiera della machina, mi volto, nessuno ci segue, niente è successo.
Osservo il palazzo, conto i piani e vedo, lassù, più in alto del piano al quale siamo arrivati, un luccichio, leggero, che filtra attraverso gli scuri vetri. un luccichio che si sposta, poi si ferma. Forse un'ombra ci guarda.
Saliamo in macchina.
Newton parte senza indugio. Ancora qualche istante. Resto fermo, osservo l'ombra lassù, irraggiungibile, solitaria, immobile. 
Ora la vedo meglio, è una sagoma.
Alzo una mano in segno di saluto. 
L'ombra si muove, di nuovo un luccichio. 
Poi d'un tratto l'ombra si muove rapida, veloce, come se corresse, come se stesse correndo da qualche parte, come se stesse…. correndo qui.
Chiudo la portiera, accendo il motore e parto.
Mentre mi allontano osservo il palazzo nello specchietto.
Forse laggiù, nella bocca del palazzo, appare una figura, una figura che resta nell'ombra. 
Qualcosa o qualcuno sembra essere sceso fino in fondo ma senza uscire dall'ombra.
Mi allontano, sempre più veloce, fino a quando raggiungo la nuvola di polvere alzata dalla macchina di Newton.
L'adrenalina se ne va, la paura si allontana, la mano si fa più sicura al volante e mi sento nuovamente presente a me stesso. 
Un dubbio, una curiosità, un tarlo comincia a farsi strada nella mia mente; l'ombra nel palazzo, quel qualcosa o qualcuno che vive quella terra inquietante, quell'essere scuro che non ho conosciuto, quella cosa differente dalla luce, che la mia paura mi ha impedito di affrontare, di vedere, di sapere.
"Esploratori!" hanno detto una volta.
"Codardi" penso io ogni tanto.
L'ombra è rimasta un'ombra.
Il palazzo si allontana e la curiosità cresce, il coraggio aumenta.
Alzo il volume dello stereo, guardo la savana, mi rilasso e sorrido.
Tornerò. 
L'ombra esiste, lo so e tornerò per vedere. Ricaricherò le pile, mi darò coraggio davanti ad una birra, mi organizzerò e tornerò per cercare, per vedere, per capire.
Il palazzo scompare dall'orizzonte ed io guido lungo una pista di terra e polvere, attraverso un panorama che si arrossa dei raggi obliqui del sole. 
La temperatura scende, gli animali si rianimano e corrono via al nostro passaggio. Un'ora o due e saremo da qualche parte, in qualche posto dove ci sono gli uomini, in qualche posto dove potremo dormire all'interno di qualche recinto, circondati dagli uomini, e dalle loro creature.
Tra un'ora o due saremo di nuovo salvi.
Almeno per un pò. 
Fino alla prossima volta.



16

DAL VILLAGGIO ALLA CITTA'
di Felix Mutola
traduzione dal portoghese di Hara Cecilia

Strani animali si aggirano per i quartieri alti della città. 
Ma ancora più strani, incoerenti e bestiali nei loro comportamenti sono quelli che si aggirano per le vie di tutti i giorni.
Animali che camminano in circolo senza meta, che si nutrono degli avanzi gli uni degli altri, animali pieni di risposte ma senza una sola domanda.
Scambiano foglietti con stracotti, e atteggiamenti studiati e impostati con spruzzate di coda su cassonetti di cristallo illuminati.
Come un lupo famelico e grassottello uno di loro accosta una grande vetrata, annusa l'aria e rimane paralizzato dallo stupore, invaso da un senso di pienezza,inebriato dai colori, l'istinto scatena un mare di ormoni, la sua immaginazione lo veste di scintillanti abiti che lo renderanno forte, attraente e desiderabile come un orso puzzolente e sanguinante di fronte alle sue femmine.
Il lupo ha una borsetta, la apre, conta i foglietti, sorride, oltrepassa lo specchio di cristallo e qualche minuto dopo ne esce soddisfatto, pieno, completo e migliore. Ma, sempre a quattro zampe, riprende il suo cammino circolare.
In mezzo agli animali, spaventati e talvolta inermi si aggira una ridotta moltitudine di esseri superiori, di esseri sconfitti e bistrattati, di esseri che camminano con i loro pensieri a due metri da terra e l'anima in cielo.
Gli esseri bipedi si riducono di numero di giorno in giorno, qualche volta si accucciano e camminano anche loro a quattro zampe, per non attirare l'attenzione, per non essere derisi, per non essere guardati.
Musici, saltimbanchi, scienziati, compositori di pietre, terra, parole, suoni e pensieri. 
Esseri che vivono mischiati non al branco ma al gregge di lupi impecorati di trucchi e tessuti colorati. 
Ovali lamierini avvolgono animali da corsa che troppo raramente si spiaccicano allo scarto successivo.
Diminuiscono di numero, forse solo di proporzione, coloro che, eretti, passeggiano e si spostano sulla terra, sospinti dalle masse milioniche se non miliardiche di bestie mai accecate da luci naturali, mai assordate da suoni di tempesta, mai inebriate da profumi di vento.
Come isole alla deriva vagano nel mare contando qualche volta le onde ma guardando oltre più spesso, per vedere se oltre l'ultima ondata non arrivi per caso un angelo.
Un angelo di saggezza, di giustizia, di perseveranza, di concretezza ed amore. "Spirito della bellezza," dicono di quando in quando, "dove sei finito? Dov'è quell'angelo che con spada e carezza consegnava le anime indegne ad un'indegna vita?"
Ed intanto abbassano il capo per non vedere, curvano la schiena per non essere visti, visitano piccoli pensieri per non essere sentiti.
Ma quando si ergono, quando splendono radiosi su due zampe e lanciano fulmini ed aliti di umanità che coprono i suoni del mondo, allora questi animali bipedi, perdono il loro rango di creature terrene e noi povere bestie, crediamo di vedere dio, di vedere la fine di tutto quello che non possiamo capire. 
"Facci sapere" dice il branco, "facci vedere" urla il gregge, "facci sentire" sospirano le mandrie.
Ed ecco che l'incanto ricomincia, giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Una parola un fremito, un gesto un ordine, un pensiero un comandamento. 
"Stupide bestie!"
Eppure, in numero sempre inferiore a quello necessario per sopravvivere, l'anima luminosa, il bipede non più incerto, il signore degli animali, si cela anche in esseri che vivono in misura ridotta, che non agiscono da altalene dell'anima della massa inerte.
La maestra. il dottore, l'avvocato che abbandona la poltrona. 
Il legnaiolo che abbraccia la fede dell'albero, il cacciatore che sente dolore ad ogni sparo ma che non smette, il viaggiatore che lascia le ali agli aerei e cammina leggero lungo le strade di asfalto che fanno da pista alla mandria.
Il povero elettricista che ha capito il significato della luce più del professore che glielo insegnò.
L'oracolo del mattino è sceso dalla duna, è uscito dalla gola e resta eretto dietro un bancone mattutino a distribuire brioche e caffè, ascoltando ed elargendo il suo sapere come se un dono di clemenza lo avesse convinto che l'animale che si abbevera alla tazza di fronte a lui meriti qualcosa di più di quel che sa.
Il martire ha abbandonato la pista polverosa che lo condusse a Damasco ed ha acquisito l'autorità di paroliere vendendo frutta in un mercato di ortaggi biologici. Rimane intonso il suo corpo ma lui stesso flagella e sfracella la sua anima ogni giorno di fronte alla stessa constatazione, al medesimo piccolo sentimento, davanti all'ennesima iniqua piccola cattiveria.
Il martire abbandona l'incomprensibile e spaventosa corona di spine e veste la bustina multicolore impostagli dal ben pensare animalesco che si spaventa giorno dopo giorno del suo stesso immenso numero.
Con grembiule e bustina si lascia crocifiggere giorno dopo giorno su una triste croce fatta di carote, sedani e finocchi, ravanelli e patate. Tutti rigorosamente biologici, biochimici, bio-naturali, dal profumo intenso ed il colore perfetto per aderire a stomaci sempre più intolleranti
La sera, come legge prevede, la croce viene smontata, i chiodi-carota asportati, la bustina bicolore riposta e la strada verso il sonno si colora di sogni lontani.
Ogni mattina, eternamente, carota dopo carota, sedano dopo sedano la croce si ricompone e riemerge dai banchi di frutta.
Colui che non abbandona la via per discendere meramente lungo il fiume, assieme alla corrente,colui che con fatica cerca ancora di compiere tutto il tragitto sulle proprie gambe, colui che caccia con arco e frecce e cucina con una vecchia padella su incrostati fornelli, sa che il premio non esiste, che la ricompensa non arriverà, che alla fine, poco prima che la sua fiamma si spenga, tutto quello che potrà fare, forse, sarà tergere il sudore dalla propria fronte, il sudore di tutta una vita, strizzare lo straccio e stillarne un unica, piccola, timida goccia di umana verità, di significato, che lascerà cadere nella vana, ma importante, speranza che venga colta prima che tocchi terra e venga assorbita dalle secche crepe del fango.
L'ammaestratore di animali è di per se più alto e luminoso del giocatore di pallone, allo stesso modo in cui il lanciatore di martello è più robusto della graziosa modella.
Il saltimbanco si piscia sotto dalle risate quando guarda l'uomo comune contorcersi in una grottesca capriola da ubriaco, ma poi, la sera, di nascosto piange lacrime fredde.
Il venditore di tabacchi non si fa domande mentre quello di birra si chiede ogni giorno se quella che percorre è la strada giusta.
Tutto quello che cresce e si compone come atto di vita pura si snerva poi in filacci di ovatta quando la mandria lo scopre e ne prende in prestito il corpo per farne caricature infinite e grottesche, appiattite e superficiali che tendono a modelli, si trasformano in moda e vengono dimenticate come vecchi giocattoli.
Così il cow-boy si vergogna del cappellaccio, l'esploratore abbandona i suoi portatori, il centurione getta la lorica ed indossa le braghe di tela, il faraone arrotonda e rimpicciolisce la piramide, il paroliere scrive banalità, il suonatore di suoni abbandona la sua arte in favore del rumore, il pennello diventa getto di inchiostro ed il sublime messaggio per orecchie fini si trasforma in un'accozzaglia di rumori adatti ad ogni tipo di udito, adatto, quasi quasi, anche al sordo.

Le farfalle nere perdono colore, allargano le ali e gettano un po di luce sulla leggera tela della zanzariera nell'esatto momento che il piccolo Samuel apre gli occhi al mattino.





17

CONGO
di Luca Oddera

Il pandemonio satanico che esplodeva ogni qualvolta le genti raggiungevano il punto massimo di sopportazione, lasciava sempre una scia di sangue difficile da cancellare. 
So che due generazioni non bastano a riemergere dalle tenebre primordiali della violenza e della sete di sangue. 
L'odio transgenerazionale che brama la morte dell'altro e la vittoria dell'uguale, riesce ad esplodere inaspettato anche quando l'oggetto della sua ira è scomparso dalla terra.
La paura fa si che, figlio dopo figlio, insegnamento dopo insegnamento, i margini delle ferite restino aperti ed un poco sanguinanti, quel tanto che basta per non smettere di ammalarsi di cattiveria e brutalità.
Su queste strade, ancora macchiate di sangue fresco, sotto asfalti neri che celano membra disperse; passano le macchine degli stranieri.
Gli stranieri non sanno niente. 
Non conoscono l'uso della magia ma nemmeno quello della medicina, perché sono stranieri inutili, sono esseri i quali si disperano per la morte di un gattino ma che voltano la testa alla vista del sangue di un loro fratello. 
Gli stranieri dimenticano in fretta.
Li, su quelle strade, il soldato spara ancora proiettili di piombo diretti al centro nevralgico di vite umane, l'infermiera appena violentata si riveste, si ricompone e torna a bendare ai suoi cadaveri con occhi umidi di terrore e rassegnazione.
Lungo le vie dell'antica guerra i vecchi osservano la morte avanzare a passo di danza e ogni tanto si lasciano sfuggire un sorriso perché capiscono che quella è la loro vita, l'unica che conoscono.
Il furto di un  vecchio acchiappamosche può scatenare una breve ma sanguinosa rivoluzione.
L'incenso si consuma nelle chiese fomentando odi millenari, spingendo l'uomo a scegliere, tra le due opzioni, quella che porta alla morte del corpo.
Le ruote rotolano, i pistoni risucchiano nafta, gli assi girano ed il piede preme.
Il venditore di banane verdi arriccia il naso come se sentisse cattivo odore. Gli uomini che brandiscono spiedi di pezzetti di capra come fossero spadoni tentano di arrestare la corsa mentre sudano per il loro caldo secolare.
Le croci si sprecano, sparse ai quattro venti, mutate dall'originale nella forma, nei colori e forse anche nel significato.
Milioni di fedeli passeggiano attorno all'albero dei manghi, senza alzare troppo i piedi lenti, senza sollevare la testa per guardare il cielo.
Milioni di piedi strisciano sulla terra secca alzando nuvole di polvere che impediscono all'occhio di osservare la terra.
Spianano le colline, riempiono le valli, asciugano i fiumi e spengono i vulcani. Scolorano la foresta e riducono il numero delle bestie. 
Dirimono millenarie liti con il solo scopo di uniformare i contendenti.
Giacca e cravatta diventano un bandiera che fa sudare anche i più coraggiosi, l'auto luccicante resta il simbolo di se stessa, mentre la figura del Grì Grì si addolcisce nello sguardo, si umanizza nelle fattezze e perde peso e potere nei cieli e nella terra.
lo sconto richiesto ogni giorno per continuare a vivere diventa un dogma assoluto mentre l'immensa massa fluisce da tutti e tre i punti cardinali possibili.
Un metro, una scarpa, un consiglio ed ecco che le differenze vanno affievolendosi, si distinguono malapena, perse in un luccichio di tasti e virgolette.
Religioni, usi, costumi e credenze diventano ornamenti sempre più simili a quelli del vicino. 
Nord, est, ovest. 
Le masse spingono, utilizzando sottili stratagemmi, spaventate dal proprio numero e non sospinte dalla fame.
Toc toc. C'è nessuno dall'altra parte della foresta? 
Toc toc. Possiamo entrare?
Permesso? Possiamo entrare?
E' possibile passare dall'altra parte senza rimetterci la vita?
Entrate pure signori.
Grazie ed arrivederci.

Coniglio gigante in cammino verso il sole che scende velocemente.
Lo supero, con un battito di ciglia gli scompiglio il pelo bianco.
Guardo nello specchietto-caleidoscopio e vedo venti conigli più piccoli, dritti e riversi in un tunnel abbacinante che mi inseguono senza la vecchia lentezza.
La macchina dovrebbe essere più veloce del coniglio ma a queste latitudini non si sa mai, quindi accelero gradualmente, senza dare ad intendere che forse scappo, che magari cerco di seminarlo.
Novanta all'ora, qualche minuto distratto, faccio finta di niente, poi guardo nello specchio ed il coniglio, più piccolo di prima, ma moltiplicato (per otto, credo) è ancora lì.
Centodieci all'ora. Il coniglio gigante in frantumi è sempre dietro e non accenna a rallentare.
Centotrenta, centoquaranta, centocinquanta…
Il coniglio non molla.
Rallento, tanto è uguale.
Tento il vecchio trucco dello specchio, con una salvietta umidificata lo sfrego, gli lavo via la polvere.
Niente da fare, l'immagine resta, leggermente più nitida ma sempre presente.
Più avanti un foglio di giornale viene sollevato dal vento, sbatte le ali, si innalza… ma non abbastanza.
Sciach. Una pagina mi si appiccica sul vetro.

Congo, più di 200 donne violentate in pochi giorni
Circa 248 donne sarebbero state stuprate, nella Repubblica democratica del Congo, tra il 10 e il 13 giugno scorso da soldati disertori in fuga, guidati dal colonnello Kifaru, nelle città di Abala, Kanguli e Nakiele, nella provincia del Sud-Kivu, nell’est del Paese. Lo rivelano fonti mediche della zona.
Un infermiere del Centro di sanità di Abala ha dichiarato che 55 donne della zona avrebbero subito violenza tra il 10 e l’11 giugno. Nella stessa notte, 72 donne sarebbero state vittime di stupro a Kanguli, mentre il medico dell’ospedale di Nakiele ha precisato che ben 121 donne della sua città avrebbero dichiarato di essere state violentate nella notte tra l’11 e il 12 giugno, notizia diffusa venerdì 1 luglio dall’Onu.
Per il capo del villaggio di Nakiele, Losema Etamo Ngoma, gli stupri e i saccheggi che li accompagnano sarebbero imputabili a un gruppo di 150 soldati in fuga, a piedi, dal centro militare di Kananda, una città a 64 km a sud di Nakiele. A guidare il gruppo ci sarebbe il colonnello Nyiragire Kulimushi, detto “Kifaru”, un ex-soldato Mai Mai dei “Pareco”, i Patrioti resistenti congolesi.
I Pareco sono stati reintegrati nel 2009, a seguito di un accordo di pace con il governo di Kinshasa. Ma l’accordo prevedeva l’assunzione degli irregolari, i soldi però non sempre arrivano e allora i militari allo sbando decidono di prendersi ciò che ritengono sia loro dovuto.
Lo schema adottato dalla milizia di Kifaru sarebbe sempre identico: il gruppo dei soldati prima circonda i villaggi, poi grida a donne, uomini e bambini di uscire dalle case. A quel punto, iniziano i saccheggi e gli stupri.
Ma il colonnello Vianney Kazarama, portavoce delle Forze armate congolesi nel sud del Kivu, difende il suo collega. Secondo lui, le violenze sarebbero imputabili all’azione congiunta di alcune milizie Mai-Mai ed elementi delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda: estremisti hutu fuggiti dal Rwanda dopo il genocidio del 1994. L’ipotesi contraddice però un dato fondamentale che lo stesso Kazarama ha dovuto ammettere: i soldati in fuga nelle boscaglie da tempo si lamentano di non avere nulla da mangiare e da bere.
Nei primi tre mesi del 2010, ben 1244 donne congolesi hanno denunciato di essere state vittime di violenze e abusi: una media di circa 14 stupri al giorno.

Congo. 36.000 bambini soldato tornati a casa
 La buona notizia è che 36mila bambini-soldato sono stati liberati nellaRepubblica Democratica del Congo negli ultimi dieci anni, quella cattiva è che almeno 6 mila continuano a combattere nelle milizie irregolari. I passi avanti sono stati fatti grazie al «Programma di disarmo, demobilizzazione e reintegrazione» coordinato dall’Onu e dal governo congolese con l’aiuto dell’Unicef, di Amnesty international e di diverse Ong internazionali. Secondo fonti mediche della Cooperazione italiana di Kinshasa che dal ’99 è impegnata nel piano internazionale di liberazione dei minori, «la situazione è molto migliorata ma resta critica». «I reclutamenti forzati continuano, soprattutto nei villaggi della provincia del nord Kivu, e i bambini che tentano di fuggire vengono torturati o uccisi, a volte davanti ad altri bimbi, a titolo dimostrativo», spiega all’Agi Paolo Urbano, responsabile del settore sanitario.
A tre anni di distanza dalla Conferenza di Goma sulla pace, la sicurezza e lo sviluppo nelle Province del Nord e del Sud Kivu, i gruppi armati operativi nelle due province hanno violato l’impegno di interrompere i reclutamenti forzati. L'Italia è impegnata in Congo con un finanziamento di 350mila euro nel 2011. L’Opera Don Bosco di Goma è in prima linea nelle operazioni di assistenza ai piccoli soldati liberati. «Il nostro lavoro – spiega ancora Urbano all’Agi  consiste nel reinserimento sociale e civile dei bambini perchè il reclutamento militare sconvolge la loro esistenza. Cerchiamo di dare loro affetto, punti di riferimento, assistenza medica, istruzione e lavoro».
Secondo le stime dell’ Unicef nel mondo sono almeno 250mila i bambini soldato obbligati a uccidere, torturare e farsi a loro volta uccidere. Hanno un’ età compresa fra gli 8 e i 16 anni. Le varie associazioni umanitarie hanno unito gli sforzi creando unaCoalizione Internazionale per fermare lo scandalo dei bimbi soldato e far rispettare la Convenzione di Ginevra che considera il coinvolgimento dei minorenni un crimine di guerra. La Coalizione presenta ogni 3 o 4 anni un rapporto nel quale fa il punto della situazione.Nell'ultimo, uscito nel 2008, erano ben 63 i paesi dove è consentito l'arruolamento di minori nelle forze armate.  Ma in genere i bambini non sono volontari. Spesso sono ragazzi di strada convinti con la promessa di un tozzo di pane o piccoli rapiti e costretti ad imbracciare un fucile

Il foglio di giornale vibra, si disappiaccia dal vetro, scorre accartocciandosi e torcendosi lungo la portiera e poi, con uno strappo, torna a librarsi lento nella mia scia.
Il coniglio gigante continua a seguirmi. 
So che se rallentassi lo farebbe anche lui, so che se mi fermassi lo farebbe anche lui, so che se scendessi e gli andassi incontro si infilerebbe nei cespugli.
Gli stradoni dritti del regno di Buganda finiscono la loro corsa e cominciano ad inerpicarsi in curve e strettoie su per le montagne del Toro. 
La strada sale, si contorce, gira, perde asfalto, guadagna polvere e guarda le montagne lontane.
Questa sera sarò lassù, su quelle montagne lontane da tutto il mondo conosciuto, lontane anni luce da ogni cosa che me ne ricordi un'altra.
Il coniglio gigante mi segue e so che riuscirà ad eludere la sorveglianza armata all'ingresso del villaggio, so che poco prima si inoltrerà nella foresta e riuscirà ad eludere i controlli, so che se verrà visto non si farà riconoscere. 
I sorveglianti alla sbarra sono astuti ma il coniglio gigante è sicuramente più astuto di loro.
"Altolà!" gli viene intimato.
Il coniglio gigante si ferma, si siede mesto sulle zampone posteriori, arriccia il naso ed emette un suono di DO. 
Prolungato ma leggero e vibrante.
"Passi pure signor Colonnello, e ci scusi se non l'abbiamo riconosciuta subito. Porti i nostri omaggi alla famiglia"
Il coniglio gigante con berretto militare e stivaloni neri passa oltre e riprende a seguirmi da lontano, a meno che…. 

La valigia non è mai pronta, a partire pare ci sia sempre tempo, una goccia d'ore in più passata qui sembra sempre vada bene, sembra salubre per l'umore, sembra sbagliato lasciare giaciglio, cuscino e cibo.
Sembra ma non è.
Mi bruciano i polmoni, sono le sigarette, si forse,mi bruciano gli occhi, mi brucia il cervello, anzi frigge, dietro, in basso.
Tremila metri, anzi più. 
Sentieri fangosi, lunghi e sinuosi attraverso basse foreste, piantagioni anzi campi di patate a perdita d'occhio. Qui nel centro dell'universo, nell'immutato mondo che dalla preistoria non ha cambiato ne virgole ne punti. 
Una torsione del collo e poi per forza del corpo, una torsione di trecentosessanta gradi, una vista fuori dal mondo, uno sguardo oltre il tempo, un alito di tenebra che scende lungo il petto a ricordare dove si sta'.
Una corona infinita di vulcani circonda tutta la terra visibile, da sud torna a sud dopo un  giro infinito e completo.
Cima dopo cima.
Quattro ore di cammino e gambe molle, tremila duecento metri di altitudine e testa leggera.
Trentadue vulcani che osservano in cerchio questo piccolo punto, quel piccolo punto, questi piccoli punti.
Trentadue santi o demoni, trentadue divini difensori o sante sbarre di prigione verde. 
Il paradiso non è ad un passo ma è qui, questo è certo, ma somiglia così tanto all'inferno che pensi che tutto ciò che ti è stato raccontato sia bugia o abbandono. 
Campi di patate su donne ricurve, bambini su mosche affamate, terra verde smeraldo su cieli blu come occhi di posti molto lontani.
E camminare, camminare sino a salire solo un poco più in su. 
Passo dopo passo quando sei concentrato.
Cento passi alla volta quando la mente prende il volo verso posti lontani che sono gli stessi di questo dove cammini.
Umidità così intensa che pare di nuotare, nebbia e poi la foresta impenetrabile, la foresta che si fa attraversare solo da ridottissimi sentieri che la percorrono come fili abbandonati. Strisce di fango larghe come un piede e non di più.
Insetti grossi tanto da sembrare pelosi e serpenti striscianti immobili ed invisibili.
Il cielo scompare alla vista e resta il verde a sopperire ad ogni colore. Verde di sopra, di sotto, davanti e di dietro, a destra e a sinistra.
Solo la sottile linea di fango marcio e nero lascia spazio all'immaginazione di altri colori che non siano quelli della foglia.
Milioni di insetti giallastri riempiono l'aria dalle cosce in giù, le mani sono madide come tutto il corpo, sudore che cola e nebbia calda che sale dal terreno.
Ancora cento passi per arrivare ad un"ancora cento passi" che ci permette di farne nuovamente cento.
Un grosso schiocco, uno spezzarsi di rami nemmeno tanto piccoli ci avvisa. Siamo vicini a quegli esseri straordinari.
I sentieri labirintici che ci conducono ai loro creatori, di tanto in tanto si deformano in radure di vegetazione pestata e risorgente, dove qualche raggio di sole rammenta alla mente ottenebrata che la speranza di uscire esiste. 
Prigione e santuario, alberi e liane, tronchi e legna marcia sotto al piede.
L'essere monumentale pasteggia spizzicando foglioline di te verde. 
Non osserva i verminosi e acquosi esseri bianchi che arrancano a fatica, impacciati e stralunati verso il suo dominio.
L'orso ingigantito dal tempo, l'umano primordiale ingrigito dallo scorrere rovesciato dei millenni stacca una foglia, la risucchia con le labbra glabre, volta la testa e guarda negli occhi di quelle creature deboli ed oscillanti che si affacciano nella sua verde realtà osservandolo da uno strappo inciso nella coperta verde del mondo che lo circonda sempre, da tempo immemorabile. 
Il pianeta blu è verde come un immenso ramarro e gli abissi di tempo che separano i due sguardi rimandano il ricordo di una Terra marrone e grigia che forse non fu mai.
L'immenso animale si erge sulle gambe posteriori e, dall'alto in basso, lascia che il suo sguardo calmo inondi i poveri corpi rimpiccioliti dei suoi nipoti smarriti più lontani. 
Lo sguardo di una bestia, lo sguardo di un uomo, le mani di un animale, le zampe di un essere umano, il midollo di una belva i gangli di un cristiano, le paure ancestrali di entrambi, il tocco leggero di una mano sulla gamba come filo continuo che unisce una storia talmente lunga e lontana che annienta in un sol colpo Neroni e Cesari, Colombi e Pascià, vichinghi e piramidi.
Tranne te stesso, niente di più primordiale di questo si aggira sulla terra. Niente di più umano può esistere all'infuori di te di questa creatura nera e argento che ti fronteggia con forza e dolcezza. 
Lo scambio impossibile si perpetua per minuti su minuti. 
Il tocco si ripete ma la distanza è si grande che di nostro fratello non rimane traccia alcuna. 
Troppo lontani abbiamo camminato, eretti un tempo, ripiegati ora come fanatici adoni.     
Pazuzu in questo momento non esisteva ancora, qui, il male lascia il posto vuoto, un posto che la vegetazione ricolma in men che non si dica. 
Fu il cacciatore millenario che si trascinò dietro la belva Pazuzu che però qui si sentì per la prima volta inerme, quasi trasparente, privo di forze, inutile come un Dio.
Le zanne ricurve scintillano colpite dal raggio di sole. 
L'osso emerge dal labbro e divora la fronda, l'animale nero discende di nuovo in forma di animale, ricurva la postura, posa quattro zampe al suolo, si gira e si allontana. 
La schiena d'argento come quella di un toro, il capo acuto come quello di un uomo, il sedere come quello di un antico signore.
La belva, cugina dell'ideatore di tutte le sue paure, si allontana indifferente all'ultimo tocco nel quale ha letto solo paura, nel quale ha sentito impreparazione, dal quale ha carpito il segreto non ancora compreso. 
La foresta si richiude alle spalle del gigante inghiottendo lui, la sua famiglia ed il monumentale abisso di tempo infinito che ci divide.
Liane, alberi e vegetazione ricompongono il tessuto del tempo ricreando l'abisso di milioni di anni che scuote le menti di tutti coloro che non hanno la macchina del tempo.
Forza e coraggio, il ritorno è in discesa, il ritorno è sempre in discesa perché è la strada più facile da percorrere, sempre.
La foresta ti smarrisce e impallidisce al punto da farti ritrarre su te stesso fino allo stadio di piccolo lombrico. 
I labirintici sentieri che dovrebbero insegnarti la strada ti tradiscono come amici invidiosi e lasciano che debba essere tu a decidere ad ogni bivio.
Ma poi il muro del passato arriva e per puro caso lo scavalchi ed i campi di patate tornano ad essere lì, percorsi alla rovescia per apparire nuovamente nel verso giusto, terra e cielo ristabiliscono i loro rapporti, donna e patata, bimbo e …..

…. il coniglio gigante è li che aspetta, non ha passato il muro del tempo perché ne conosce le conseguenze. 
Il coniglio gigante non è troppo interessato a se stesso, è più interessato agli altri, però soffrirebbe molto attraversando il grigio muro del tempo. 
Il coniglio gigante sa che se scavalca quel muro la conseguenza sarebbe la sua completa dissoluzione.
Il coniglio gigante non vuole scomparire perché tiene troppo alla conoscenza degli esseri umani e se scomparisse non potrebbe più comprenderci, studiarci, seguirci, migliorarci o peggiorarci a suo uso e consumo.
Il grigio muro del tempo fa soffrire il coniglio gigante perché di la da quel muro succedono cose che lui non sa, di la dal muro accadono eventi che provocano cambiamenti che lui non capisce. 
Di la da quel muro c'è un vasto strappo nella conoscenza che lo lascia a bocca aperta, sbigottito e qualche volta arrabbiato.
Il coniglio gigante, oggi, per la rabbia ha distrutto mezzo campo di patate facendo scappare le donne coltivatrici ed i bambini.
Le donne coltivatrici non vedono di buon grado le persone che scavalcano il muro perché sanno che poi, il più delle volte, il coniglio gigante si sfoga sui loro campi.
Ma noi, noncuranti riprendiamo la strada in discesa, saliamo in macchina e guidiamo dritti e veloci in mezzo a quel posto dove il coniglio gigante capisce l'uomo, ci dirigiamo rapidi verso la Guerra.   




GUERRA
di Primo Campos
traduzione dal castigliano di Romina Farias

     Guerra male dell'uomo, o uomo male di tutte le guerre?
Salta su che ti do un passaggio sembrano dire le guerre agli uomini che osservano il fiume.
Che possa la vita divenire un deserto in lunghi anni senza guerre? 
Chi può saperlo? 
Non certo la nostra storia, la storia di questo mondo che non conosce ere di pace. Un litigio, una litigata, una scaramuccia, una scrollata, una rappresaglia, una protesta, una sommossa, una battaglia, una guerra.
Altrimenti, con il caldo del pomeriggio la palla di neve si scioglie lentamente e resta una piatta distesa bianca.
Il significato non corrisponde all'aspettativa, il senso dello scontro non sta mai nel fine e nei partecipanti, niente vinti ne vincitori, tutti vincenti coloro che sopravvivono a scapito dei morti. 
Il morto, uno o migliaia, è il residuo di un mutamento ineluttabile quanto le sabbie del nord, quanto le sorgenti del fiume, quanto questa savana che stenta a cominciare.
La rivoluzione, tanto desiderata, sostenuta, voluta, mitizzata, non è altro che fucile e preda, pallottola e torace, coltello e sangue, violenza e occhi umidi.
Guerra è un altro nome. 
Non c'è giusto o sbagliato, non esiste nemmeno più un sopra od un sotto. 
La tirannia cade ed il popolo uccide, la democrazia sorge e qualcuno soffoca l'invidia nel malumore, nel malcontento, nell'animosità, nell'irrequietezza, placate da una tv gigante e da un'auto alla portata delle tasche più misere degli uomini più pigri.
Salirebbe dunque un ruggito se mai lo potessimo udire. 
Ma se l'orecchio fosse adatto ad udire antichi suoni si scomporrebbe il grido di guerra del leone in un milione di belati gementi, noiosi ed annoiati che mai salgono l'uno sull'altro, mai si distinguono per paura di essere uditi singolarmente.
Scopri, se ascolti con concetto, che la pecora laggiù sulla destra, grida cose che il suo vecchio Dio non voleva sentir dire, la sua smania di ribellione, di libertà, di autoaffermazione si lascia andare in pubbliche parolacce ed in tatuaggetti "pseudomarinariannicinquantasessantaoldstylescorpioncinofarfallasignifacantiprofondiconcetticinogiapponesidibaliegittoindiafinesettantaconcamaleonteedindianonorddakotamortodivaiolounsecolofa".

L'odore del culo della star del rock scende dal palco come una densa nebbia. L'uomo è libero di agitare le proprie natiche nude sul palco della vita, è libero di esprimere un sesso che non è suo e nemmeno di un suo lontano parente, liberi tutti di fare quello che vogliono. 
"Scopa pure tuo cugino e tua sorella assieme" gli dicono i potenti strizzando l'occhio, dipingiti il capello e le unghie, sii più strano che puoi, perché sei libero di farlo, anzi di esserlo, l'importante, ma questo non te lo dobbiamo dire, è che tu faccia ciò che ti viene detto e sopratutto che tu sia come ti abbiamo insegnato, che tu non dica ciò che non va detto.
In fondo che ci importa se l'elettorato è nudo, dipinto o canterino, l'importante e che tutti sappiano scrivere il loro nome e se proprio non si ricordano come si fa non c'è problema, facciamo in modo che basti apporre una croce.
Sei libero, in questo tempo di pace di esprimere le tue idee, tutte, tranne quelle che tutti non vogliono sentire.
Basta che tu sia "politicamente corretto", che non tocchi i nuovi dogmi del ben pensare ed allora puoi dire e fare ciò che vuoi.
Puoi fare sesso di gruppo in una stanza adiacente al bancone del bar e questo non è male; ma non dire handicappato!
Puoi fumare un pezzetto di hascisc in libertà sommessa ma non dire mai che tuo nonno, quello che la mamma si vergogna quando parla, aveva ed ha ragione, no questo no. 
Invece va bene quello che dice l'altro nonno, quello che invece che essere onesto e serio, si gioca un quarto di pensione al bar e cristona contro coloro che gli permettono di farlo.
Le sigarette fanno male mentre la "droga bianca" è tutelata come un conto in banca.
Sei libero di acquistare una tv grande come un cinema ma non di possedere "Cannibali e re" o "Sterminate tutti i bruti".
Hai l'infinita scelta di mille canali tutti uguali ma non quella di rigirarti per le mani uno Zarathustra commentato.
Puoi andare dove vuoi in quei quindici giorni di libertà ma non quanto vuoi, perché  il tempo e le distanze sono una miscela troppo esplosiva.





19

CONGO DUE
di Luca Oddera

Il coniglio gigante è ora fermo, accovacciato a pallina e freme facendo vibrare il pelo. 
Il coniglio Gigante fremendo produce un rumore spezzettato come di foglie secche ancora sull'albero che vibrano colpite da leggere raffiche di vento.
Il coniglio gigante non parla ma produce rumori più comprensibili delle parole.
Il rumore che sento ora non mi piace per niente. 
Sono attratto da queste frontiere come un orso dal miele e pare che nulla possa interporsi tra me e lei.
Anche quando, per finta, tenti di non oltrepassarla lei ti attira come una calamita ed in un secondo sei dall'altra parte, di nuovo in quel mondo parallelo al nostro, in quel mondo tenuto nascosto a tutti, in quel mondo che non conosce ne capelli colorati ne sesso di gruppo libero.
Salti dall'altro lato in men che non si dica e scopri che la vista del tuo bianco torace è sconveniente se non vietata, che la nudità al bagno pubblico non è un problema perché il corpo nudo è creatura di dio, ma che la donna che ostenta un seno abbondante nell'ombra della notte è una prostituta del demonio.
Qui Gesù è redentore e le armi sparano verso gli uomini, i carri armati cingolato cigolano verso le città e non verso i musei, i fori nella pelle non sono ornati da orecchini, ma contornati da pelle nera bruciacchiata.
I capelli lunghi non sono veri, quelli corti sono solo neri.
In questo mondo il costo giornaliero per mantenere un capello lungo pulito è pari a quello di un giorno di cibo per il tuo bambino.
In questo mondo essere ignoranti non è una libertà come nel mondo da cui arrivo, qui un libro è un oggetto di valore, anche se non è nella lingua desiderata.
Qui, andare a piedi scalzi, non è una forma di ribellione molliccia e perdente, ma un modo per morire prima.
Qui il riciclo dei beni di consumo non è un detergente per le coscienze di coloro che sprecando mille e riciclano uno. 
Qui si usa dieci, si ricicla dieci e si lascia zero a morire sulla terra calda.
I signori degli attentati vivono lontano da questa miseria, i signori delle guerre anche ed i signori della pace stanno più alla larga possibile da questo posto dove vivere e morire sono la stessa cosa.
"Il Congo è la nostra Africa interiore". 
Quel posto che c'è ma non si vede, quel posto che è l'essenza di tutti i viaggi, quel posto che il viaggiatore evita come la peste ma che ricerca in ogni ostello, in ogni albergo, in ogni città, in ogni savana che visita.
Gli spari echeggiano nella notte e gli occhi gialli dei soldati dimenticati si chiudono solo al mattino, stanchi e spaventati come quelli di un bimbo insonne.
I fiumi marroni scorrono lenti attraverso vallate preistoriche ed abbozzi di strade tentano di percorrere maestosi scenari perduti.
Attraversare questo territorio è un privilegio unico, da la sensazione rara di essere in pochi sulla terra. 
La paura viene sconfitta naturalmente dalla meraviglia e dal dolore, dalla stanchezza e dalla gioia.
Il volante vibra, i militari attaccano, l'esercito minaccia ed i ladroni ammiccano, mentre un bimbo si avvicina e chiede una caramella, di qualunque gusto, colore e marca, basta che contenga un poco di zucchero dolce.
Il tragico permea la vita di queste vallate come un liquido denso e vischioso annullando quel senso di infinita attesa che impregna la nostra ricca ma povera società. 
Qui il sorriso è aperto e la brutalità non repressa non si trasforma in piccola cattiveria quotidiana.
La cattiveria gratuita del nulla.

Tududum, tududum, tududum. 
Scrolloni, colpi frenate sterzate e tonfi. 
La strada sembra non finire mai.



20

CAMMINA NELLE FIAMME
di Joseph Banda
tradotto dall'inglese da Pierre-Yves Raoult

Cammina nelle fiamme,il bambino con riccioli bruciati.
Lascia la corda la madre, il secchio scivola nel pozzo.
Nessuno conosce con esattezza quanto sia bruciato il bimbo,
quanto sia profondo quel pozzo.
Alcuni sostengono che vada sino al centro della terra. 
Altri lo negano dicendo che se così fosse l'acqua sarebbe calda.
Ma l'acqua è abbastanza calda.
Pianti ed urla echeggiano per il villaggio. 
Disperazione e grida. 
Un vecchio corre lento verso la sua capanna. 
Due uomini trasportano il bimbo in fiamme verso un'altra capanna. 
La madre urla, si dispera, insegue i portatori.
Il bimbo viene disteso su di un giaciglio all'ombra. 
Geme il bambino, ansima la madre, arriva il vecchio.
Un unguento che forse darà un sollievo che forse guarirà le ferite, che probabilmente non farà niente.
Sale la febbre scendono le tenebre. Torna il sole tra dolori d'anima della madre che sta' per perdere il cuore un'altra volta ed i dolori silenziosi e mortali del bimbo con la pelle che si stacca.
Un giorno d'inferno scorre assieme al sudore, un giorno di infezione, dolore e paura.
Il villaggio si ritira in silenzio al crepuscolo. 
Le donne si chiudono nelle capanne immaginando il dolore, il coraggio, la rassegnazione di quel gesto che compiendosi ogni volta che i mali sono troppo grandi, firma la loro perpetua condizione di miseria.
Uno straccio umido si posa deciso sulla bocca del bambino tremante. 
Decisione e fermezza della mano, delirio e tristezza degli occhi.
Pochi sussulti resi incoerenti dalla febbre. 
Un ultimo sguardo attraverso occhi più grandi della luna.
Tutto è finito. 
Anche il dolore più grande finisce.
Dopo trentasei ore di dolori e convulsioni il bimbo riposa sul giaciglio. 
La mamma, accasciata sulla stuoia ai piedi del lettino fatto di ferro vecchio e paglia nella stoffa, piange senza sapere perché.
La notte è lunga nella solitudine di chi si accompagna ad un cadavere.
Il sole è presagio di verità nelle mattine che seguono le tenebre dell'incubo.
Poco discosto dal villaggio, un uomo, sorpreso dai primi raggi del sole, sta' scavando una piccola buca nel terreno rosso.



21

CONGO 3 : A PASSEGGIO CON LA BANDIERA
di Luca Oddera

Quando l'uomo, qualunque uomo, entra qui torna ad essere una bestia.
Uno sparo non serve a far sorgere un breve interrogativo. Uno sparo fa scattare i muscoli della schiena e del collo. Ti acquatti? Ti volti? Ma non fai domande.
Viaggi secolari di sterminio, conquiste e marce forzate attraverso villaggi di morti. Scie di sangue lunghe secoli. Tutto questo non ha smesso di esistere.
Viviamo in mondi sospesi, trascorriamo anni di storia in cui il nostro giudizio rimane sospeso a causa della sicurezza imposta da fragili leggi territoriali e morali confinate entro ridottissimi spazi mentre  il resto del mondo vive di carne e sangue come mille anni fa.
Nessuna paura è più grande di quella che assale gli uomini bianchi immersi nelle tenebre della storia, il loro cuore si calcifica in un tumore nero che ricorda miti passati e lascia tracce negli occhi e nei pensieri.
Si rivoluzionano tutte le conclusioni alle quali si era giunti con fatica, si rivoltano tutti i dogmi imposti con bastone e carezza, lasciando trasparire interiora ben diverse da quelle che ci saremmo aspettati.
Nessuna nefandezza rientra nel nostro impianto morale, nessun comandamento dirige il nostro spirito religioso, nessuna certezza sorregge più le nostre decisioni.
Le mani, i piedi, la fame, la sopravvivenza. 
Io uccido!
Ecco ciò che resta di migliaia di anni di storia. L'arma meccanica può sopperire al bastone, il veleno al sasso. 
Le risate sono lunghe e frequenti come gli atti di morte e non stupisca questa esagerata ilarità, perché è il trucco che usa la mente per non vacillare, è la pigmentazione multicolore del camaleonte, la pezzatura della giraffa, lo scatto del soldato nell'udire lo schiocco del fucile.
Non lasciamoci sorprendere dalle tenebre, non lasciamo che la truffa si insinui tra noi ed il nostro interlocutore, non lasciamo che capiscano che abbiamo paura, puntiamo invece sulla forza, l'inganno, l'essere spietati più di una belva.
Io attraverso queste regioni con cautela e mi nomino arbitrariamente "uomo moderno" per eccellenza, distinto dagli altri da caratteristiche ben definite: paura del buio, del diverso, della morte, della malattia; insicurezza nelle strategie nel rapportarsi agli altri, a me stesso, all'ambiente; moralità assorbita nei comportamenti casalinghi dei nostri piccoli "stati-villaggio" dove le ombre non si allungano che di pochi centimetri più di noi.
Ecco che allora il corpo appare molliccio e la mente debole e solo l'ignoranza nei nostri confronti ci salva dall'essere divorati.
Passeggio a piedi e con la macchina per queste strade di fango, ora ben cosciente di essere un mito. Nascondo armi sconosciute, una forza sovrumana, capacità intellettuali degne di un superuomo. Sono una specie di divinità scesa dalle stelle e questa credenza mi salva dalla rapida sottomissione a popoli forti ma ingenui.
Questa volta solo quattrocento chilometri mi separano dalle suore che sono mamme, sorelle, amiche e, di volta in volta, salvezza e misericordia.
Quattrocento chilometri che condensano esperienze molto più lunghe, profonde e definitive. Quattrocento chilometri che sono il riassunto di viaggi interminabili attraverso continenti di alberi e morte.
Questi quattrocento chilometri deflagrano in una nuvola scintillante di immagini, momenti e sogni che sono la riscoperta dell'essere umano.
Quattrocento chilometri che sciolgono il nodo del bavaglio che ci hanno costretto ad indossare negli ultimi cento anni di vita.
I paraocchi cadono, non senza difficoltà, poiché il sistema agisce in modo che certi luoghi, certe credenze, certi uomini e certi comportamenti ci siano preclusi. Solo la tenacia, l'incredibile voglia di farlo, l'incoscienza ed un vago senso di mancanza permettono di attraversare certe frontiere, di oltrepassare quei muri eretti con sapienza, di superare le barricate e gli ostacoli che si frappongono tra noi e questo mondo.
Il viaggio per arrivare qui comincia venti anni prima. Scali un'alta collina, con fatica e quando getti lo sguardo sul panorama dalla sua cima non sei soddisfatto. La pochezza dei panorami ti impedisce di scorgere ciò che cerchi.
Poco più in là. al massimo oltre a quel promontorio, ecco una casa, una strada, un ponte, che frenano la tua immaginazione come uno schiaffo mentre sei assorto.
Gli spazi che separano quello che cerchi da quello che potresti trovare sono così spesso interrotti da altre idee, progetti di altri e brandelli di storia, che proprio non puoi fare a meno di volgere lo sguardo prima ed i piedi poi verso terre senza sbocchi sul passato.
Dopo la lunga strada fangosa che discende la montagna arrivi ad un bivio dove l'asfalto è così devastato da parere antico.
Alla mia destra posso andare verso nord. Alla mia sinistra verso sud. Nei prossimi mille chilometri, in una o nell'altra direzione, le cose non sono poi così diverse.
Solo il desiderio di arrivare, più o meno, dove mi ero prefissato di arrivare, impone la scelta.
Mezzo giro di sterzo e la macchina comincia a sussultare tra le buche dell'asfalto.
Uomini neri come la notte dell'uomo, camminano in fila indiana con le vecchie uniformi esageratamente pulite. Occhi gialli e neri, baschi viola e fucili mitragliatori. Armi semi automatiche, pistole e lanciarazzi, coltelli dalle lame consumate, anfibi screpolati ma lucidi e ingrassati. Fischietti e fazzoletti da spalla viola. Spille porpora e cinturoni di cuoio verde.
Le persone si scostano, trasportano banane e non portano scarpe. Le dita dei piedi sono fessurate e quelle delle mani indurite da calli neri e spessi. Le case sono baracche, catapecchie, rimesse sistemate a mò di abitazione. I cortili sono spiazzi di terra troppo angusti se paragonati alla vastità che li circonda. le siepi sono poveri arbusti della foresta trapiantati in giovinezza ed i cancelli rami nodosi legati da stracci consumati.
Iniziano così questi quattrocento chilometri che non mi fanno più paura perché ormai li conosco, non saranno peggio dei sentieri già percorsi. Resta solo l'incidente, la sparatoria, l'arresto, in una parola il fato. Ma il fato tende trappole anche lungo le comode vie illuminate delle nostre città-vetrina, quindi è un dubbio con il quale sono abituato a convivere. la paura dell'ignoto è stata sconfitta già non una ma più volte, eppure oggi, qui su questa strada, non avrei ne la forza ne il coraggio di affrontarla nuovamente.
I prossimi quattrocento chilometri sono un viaggio di giorni e giorni che sovverte la nostra idea di distanze. I prossimi quattrocento chilometri sono un parossismo inverso della razza umana. I prossimi quattrocento chilometri racchiudono i ventimila già percorsi con la mente immobilizzata in un solo pensiero: arrivare.
Meno trecentonovanta.

Discorso dell'albero (che fa da intermezzo)

Sono fermo e faccio ombra mi disse una volta l'albero. Sono fermo si, ma se ti metti sulla mia strada allora mi muovo e tu perderai tutti i tuoi aggettivi, perderai i contorni, piano piano anche i colori. 
Potresti perdere i denti, e magari anche le unghie.
Se ti metti sulla mia strada, disse l'albero prima o poi, perderai la vita. Perderai le meglio opportunità, smarrirai la strada e tornerai nel limbo di BuBu. 
Diverrai vulnerabile e quasi trasparente, debole e senza sostanza.
Guarda questa corteccia, senti queste radici, godi di queste fronde. 
Io sono il tramite tra la terra ed il cielo, trasformo l'aria in acqua e l'acqua in aria, sono nido e burrone per gli uccelli, fuoco e riparo per gli uomini, sogno e realtà per le vostre donne.
Ma non metterti sulla mia strada!
Ecco perché gli uomini della foresta parlano con gli alberi e se non li conoscono bene non vanno a vivere sotto alla loro ombra.

L'uomo con la bandiera è un poveraccio che ha messo l'onore di un regno inventato davanti alla cura per i suoi simili.
L'uomo con la bandiera stracciata cammina al lato della strada con passo da mendicante e non vede le buche che lo indurranno ad inciampare.
La strada sale tortuosa come una biscia allontanandosi dal lago. 
Si aprono scenari meravigliosi che sono finestre sulla preistoria, sono scorci di un passato non tanto dimenticato quanto sconosciuto e tenebroso. 
Niente, anima l'incomprensibile conoscenza del remoto, come questa piccola valletta alluvionale dove un immenso serpente marrone scorre come se fosse un fiume, dove le grandi foglie umide luccicano del sudore della terra.
La strada, le case ed i villaggi sono un miraggio temporaneo, talmente esili ed inconsistenti da non essere di impiccio alla mente ed al cuore.
Ecco ciò che cercavo, ecco che una volta trovato non si lascia afferrare perché ormai non sono più un essere in grado di sopravvivere con me stesso e l'ambiente.
L'uomo qui ha lasciato solo rovine, si muove su relitti macilenti e non riesce a condurre l'acqua alla sua dimora. 
Un ponte ormai vecchio e malandato, cadente e pericoloso è tutto ciò che resta degli umani progetti. 
La terra arriva al fiume e l'uomo non è in grado di condurre il proprio cavallo di ferro arrugginito sull'altra sponda.
Le foglie di banano, a migliaia, sono sistemate a formare un selciato morbido e cedevole che nasconde l'abisso alla vista, ma non protegge dal precipitare. 
L'occhio cieco non ha paura del baratro sino a quando non si sente cadere.
L'uomo con la bandiera attraversa i pochi ponti camminando sul margine esterno del traliccio, i vecchi sputano nella sua direzione, le donne si ritirano ed i bimbi gli lanciano sassi di scherno ben attenti a non colpirlo per davvero. 
Se colpito, porterebbe malasorte a tutto il villaggio.
L'uomo con la bandiera si è perso in un sogno che nessuno ha mai realizzato e si crogiola in quei pensieri senza sapere che lo chiamano pazzo.
La sua bandiera è diventata uno straccio gri-gri lavorato non dall'incantesimo ma dal lungo tempo passato lungo la strada accompagnato dalla follia.
Tutti sanno quanto possa essere deleterio un incontro ravvicinato con costui ed è per questo che chi sa del suo arrivo lascia ciotole di brodo lungo la via, mucchietti di banane bene in vista sui sassi ombreggiati, sigarette deposte su pilette di bastoncini.
Qui il dio della possibilità è molto più potente del dio della certezza e quindi resta sconveniente non abusare di qualche piccolo trucco o sacrificio. 
Qui la notte è lunga; dodici ore separano la luce dalla luce. 
Metà del giorno immersi nel buio è un tempo troppo lungo per far fina che non esista ed anche se la terra su cui cammini è sempre la stessa, hai bisogno di un tramite tra questo mondo e l'altro.
Spari lontani riportano la mia mente alla realtà ed i miei occhi sulla strada. 
Curve su precipizi vertiginosi aprono vedute infinite su valli dove la vita spurga da ogni poro di ogni essere.
La strada diventa il letto di un ruscello fangoso dove anche l'uomo a piedi inciampa e scivola come un bimbo su gambe incerte.
Una curva via l'altra il villaggio ci vede arrancare verso di esso e come da copione, si affolla per attenderci. 
Monuc biscuit, Monuc bon bon. 
La tiritera è sempre la stessa ed i visi, per quanto uguali, sempre differenti.
Non siamo Peace Keeper, non siamo guerrieri distruttori, non siamo nemmeno medici e nemmeno siamo qualcosa mandato da qualcun altro. 
Siamo solo qui di passaggio per arrivare là e questa spiegazione non accontenta mai nessuno.
Il non far parte di un assetto più grande, il non avere caramelle da distribuire, il non avere una meta poi così precisa, destabilizza l'interlocutore che nemmeno può credere che la nostra conoscenza della sua lingua sia così esigua.
Alla fine, spesso, quello che portiamo è delusione.
Niente doni ne promesse, nessuno spiraglio di salvezza o cambiamento, solo la certezza, per i più piccini, che l'uomo chiaro non è una leggenda ma un carovaniere che esiste e che ogni tanto, come un antico zingaro, passa suonando la sua fisarmonica fatta di tubi e cilindri.
Scorre l'auto tanto attesa di fronte agli occhi enormi del bambino; scorre via. 
I rossi lumini posteriori ondeggiano tra le buche e le crepe della strada. 
La curva inghiotte la visione; pochi minuti e la polvere scende nuovamente sulla strada.
Il bimbo resta lì, confuso, contrariato, insoddisfatto e deluso.
Uno spintone da dietro lo riporta alle sue strade di fango e di polvere, ai suoi giochi, al seno di sua madre.   





22

QUATTRO CHIACCHIERE CON IL MORTO
di Manuel Stein
traduzione dal tedesco di Roberto Giacchello

"Paura del buio" ha visto la luce per la prima volta sulla Cordillera che separa un oceano dall'altro. 
Paura del Buio sa che su quelle montagne non è mai salito ma ci è andato vicinissimo. 
Paura del buio sa che da un lato ha visto l'oceano e dall'altro solo un grande lago: ma l'immaginazione è l'arma che aiuta a spiegare un'invenzione. 
La luce, poi, si è riversata nei suoi occhi mille e mille volte; la luce di questo mondo, così difficile da vedere se non attraverso un sottile velo commosso di lacrime.
Così la luce venne ricercata nel più fitto della tenebra e li, Paura del buio, si accorse che la luce non può raggiungere gli occhi.
"E' buio il cuore di questo mondo" disse un giorno Paura del buio al cadavere di un soldato di nove anni. 
"La luce è un invenzione della nostra anima e non serve a schiarire le tenebre quando esse sono fitte come in questo strano posto" continuò.
Il cadavere del soldato bambino disse che nemmeno dove era appena andato lui c'era luce.
Paura del buio capì che quella terra nera era un segnale di monito e quindi fece girare gli ingranaggi della ragione per mettere le cose a posto. 
Pochi minuti ci vollero per capire che "la ragione" è un piccolo impianto di dissalazione della realtà, un piccolo insieme di filtri ed ingranaggi che funziona solo laddove ce ne sia bisogno, un delicato sistema che tiene a galla la barchetta dell'umanità. 
Il cadavere del soldato bambino fece uno sforzo immenso per aprire gli occhi e mostrare le orbite vuote a Paura del Buio. 
La luce che filtrava attraverso quei grandi buchi neri gettò un'ombra sulla mente spenta del cadavere che riuscì comunque a parlare senza che i grassi vermi gli si riversassero fuori dalla bocca: "Qui le bestie usano un altro sistema, oscuro ed incomprensibile, più umano e più vero, ma poco congeniale all'uomo che teme le tenebre".
La ricerca della luce è uno stato di angoscia profonda, è la ricerca di una verità soggettiva che dia pace allo spirito indomito dei nostri antenati, il quale si condensa in piccole gocce di sudore sulla nostra fronte. 
Il movimento continuo sulle lunghe distanze, è un buon sistema di comprensione generale delle cose che ci stanno attorno, sicuramente non il solo, non il più profondo e nemmeno il più affidabile, ma certamente il più attendibile per quanto riguarda i principi basilari che regolano l'esistenza."
"Sono dispiaciuto" disse allora Paura del Buio al cadavere del soldatino guardando però oltre il fiume, anch'esso nero come la notte.
"Non essere dispiaciuto per me" rispose il cadavere cercando di guardare anche lui oltre il fiume, "Sii dispiaciuto per te che cammini sulla terra di altri per portarti via qualche risposta che a casa non riesci a trovare."
Un tonfo al cuore percosse Paura del Buio.
"Non dispiacerti per questo corpo morto" continuò il giovane cadavere " disperati piuttosto per ciò che non sei mai stato, disperati per tutto quello che non vedrai, ma non dispiacerti di questo momento perché sarà una delle poche cose che andranno a far parte del tuo magro bottino quando lascerai queste terre."
Paura del buio raccolse tutto il coraggio sprecato nella vita e si accovacciò accanto al cadavere, abbassò lo sguardo e fissò quelle profonde orbite vuote."
"Come ti chiami soldato?"
"Non devi sforzarti di guardare questo buio" disse il soldato bambino "non ne hai bisogno, guarda pure lontano, osserva l'albero, la pianta o il fiume, siamo la stessa cosa, ora."
Paura del buio restò immobile e ripetè la domanda: "Come ti chiami soldato?"
"Mi chiamo Pay Pay e mio padre si chiamò Nlaza, suo padre Nimi ed il padre di suo padre Mpanzu. Se non fossi morto sarei vissuto fino a cento anni e, in un caldo pomeriggio di sole, avrei forse incornato tuo figlio in un piazzale di terra, gli avrei raccontato una lunga storia inventata che parla di un piccolo coniglio e gli avrei regalato una grossa e matura papaya. Ma le cose non vanno sempre come dovrebbero."
Paura del Buio era dispiaciuto comunque e sopratutto di lasciare lì da solo il cadavere del bambino. 
Gli disse che non voleva andarsene, che avrebbe voluto restare li, accanto al fiume a tenergli compagnia. 
Il cadavere del soldatino sussurrò: "Non stare in pena Paura del Buio, vai dove devi andare, è tardi e tra poco arriveranno le tenebre. Non puoi restare qui. Vai a cercare la luce anche questa notte, vedrai che la troverai, la luce di una candela, forse quella di una lampadina. 
Queste sono le luci che potrai trovare, ma nulla più, almeno fino a domani"

Paura del Buio si allontanò seguendo un sentiero rosso, sottile come una stringa, scostando piante sudate e tergendo la propria fronte bagnata. 
Lontano i rumori del villaggio lo fecero sentire un poco più tranquillo, voci umane arrivavano fino a li. 
In meno di un'ora sarebbe arrivato all'accampamento e se non avesse trovato le candele, quella notte, avrebbe acceso i fari della macchina.


24

MORTE
di Un Uomo
traduzione dal silenzio di Un Uomo

La ancor piccola creatura dal cuore nero, ammalato del male supremo, si lascia sconfiggere da un dolore troppo grande cui i cuori umani non possono far fronte.
Troppo facile non credere nel padre supremo che donò un figlio ad un dolore. 
Troppo facile fuggire nell'una o nell'altra direzione quando il tuo benamato cucciolo soffre di morte più del figlio divino.
Tutte le lacrime si asciugano prima di toccare terra tranne quelle dell'uomo prostrato e distrutto che ha annientato la sua distanza dal suolo.
Le lacrime che cadono da uomini quasi interrati toccano il suolo e favoriscono il germogliare di pene e dolori, amori e gioie; non si asciugano in invisibili nubi prima di toccare la terra!
Immense distanze, diventano pochi metri invalicabili, ma nulla al confronto dell'abisso generato dal cessare di ogni sua parola, gesto o pensiero.
L'immenso baratro cessa di esistere nel mondo e si rintana nel cuore già malato creando una nicchia di vuoto più grande del suo contenitore.
Da qui in poi la strada è in discesa, senza buche ne imprevisti; dritta fino all'inferno.
Questa volta non basteranno antichi e moderni riti e miti, poesie e romanzi che succhino la vita degli altri per farsi riconoscere dal tuo cuore perduto.
Questa volta non basteranno lacrime di grano incastonate nel perfetto ovale del moderno alambicco in cui fermentano sogni e disordini.
Questa volta ne l'ultima ne la prima voluta di fumo denso riusciranno a saturare polmoni che, ormai inerti, non accettano conforto alcuno.
Questa volta nemmeno quel sole di un altro mondo, che ogni tanto guizza dietro la bassa collina del paese dei sogni, basterà a scaldare il freddo dell'incomprensibile visione del feretro panciuto e oblungo.
Lascia le ossa alla terra che di sassi non ne ha mai abbastanza.
Lascia i tuoi liquidi ad un avido terreno asciutto di umori.
Dimentica nell'aria il tuo ultimo pensiero.
Sospira un'ultima volta rivolto al cielo di cemento che sempre sovrasta ogni schema.
Sdraiati ed aspetta che il prossimo respiro si compia da solo, senza che la tua volontà lo richieda.
Dormi un sonno tranquillo perché, uscito dall'incubo, nessun mare sarà più in grado di cullare il tuo riposo; nessun suono raggiungerà più la tua anima profonda che la morte ha reso assente ed inebetita.
Non saranno più il sole e la pioggia ad asciugare o bagnare le membra stanche di una vita di ritiro.
Gli affetti umilieranno tutte le direzioni prese in passato e renderanno inutili e sbagliati tutti gli atti che avranno da venire.
Non avrai più nulla da vedere, pensare, sentire, dire. 
Sarai un sasso assiso sul sofà di legno che aspetta il suo ultimo cambiamento: quello che lo trasformerà in polvere. 
Senza dolore.
Di tutto questo nessuno sa niente e le parole che giungono da lontano non sono dirette al tuo orecchio ma alle stesse autonomie che le pronunciano.
Scivoleranno da lontano suoni dolci come il miele che anche per un solo secondo, pur cercando di darti un rimedio, non ci riusciranno.
La cura che resta è un sonno eterno che purtroppo non esiste.
Quindi dormi un sonno tranquillo perché, uscito dall'incubo, più nessun mare sarà in grado di cullare il tuo riposo.



UN PO DI FRESCO IN QUESTO CALDO
di Luca Oddera

 E mentre la strada corre e scorre come un fiume al contrario, mentre le comparsette non pagate perché di colore troppo scuro per ravvivare la scena, mentre un'altra sigaretta scivola in brace e poi in cenere, mentre l'auto continua a scendere verso un sud immaginario di sabbie mobili e spiagge tempestose, lassù nel mondo abbandonato per pochi secondi, scende il freddo gelo di fine autunno.
Lassù le foglie cadute cominciano un lento ciclo di decomposizione e le bianche bacche, tradite da un momentaneo abbaglio di calura estiva, si riattivano ed i cespugli grigi si macchiano di tondi pallini che sono il ricordo di imminenti nevicate. 
Il gelo entra nelle ossa dei senza casa ed il cancro procede lungo le vie dei malati. 
Il grigio si impossessa delle menti di tutti e tutti si adagiano in un sonno mesto in attesa del prossimo colore, sia esso bianco o nero. Sia esso caldo o freddo.
Le miserie dell'uomo si trasformano in piccole cattiverie e tradimenti di stagione; tristi e freddi come le mani che accarezzano la pelle sul sedile posteriore di un'utilitaria parcheggiata nell'inedito talamo di una piazzola di periferia.
L'uomo annuncia la sua venuta con fari nel buio e rombi di motori nella nebbia, mentre le creature infreddolite si scostano quel tanto che basta per non essere viste, per non essere udite, per non essere toccate.
Le malelingue aguzzano quella punta d'ingeno che i loro cuori, piccoli cuori, gli permettono e sfornano giochetti da attoruccolo di avanspettacolo e godono di semi che danno loro frutti tanto vecchi, stantii ed ammuffiti che vengono scartati persino dal maiale.
Facce sempre più pallide si confrontano in battibecchi e discussioni che portano lontano quanto l'arco di uno sputo.
Così, tristi ed irritati, insoddisfatti ed incoerenti, gli omuncoli e le donnette del freddo, recitano la parte che meglio gli si adatta; quella di coloro che giudicano a vuoto. 
Copiano il compito del compagno di banco ed adorano con invidia l'alloro del piccolo imperatore, rotolano nei letti freddi di persone sconosciute che frequentano tutti i giorni della loro corta vita.
Ecco però che l'immagine immaginata è la stessa proiettata dallo specchietto retrovisore della macchina, lo sguardo è lo stesso che osserva le curve snodarsi, lo stesso che questa sera poserà gli occhi su un nuovo tramonto di origine aliena, fatto di una materia estranea a questi agglomerati, fatti a loro volta, di sbuffi di fredda condensa che odora di saliva.

Non tentare di fermare l'onda prima che arrivi sulla costa, sarà lei stessa ad infrangersi, a perdersi ed a farsi dimenticare come un qualunque flusso passeggero.




26

LA STORIA DI PAY PAY
di Luca Oddera

Dopo tanti, tantissimi chilometri, così tanti che fermarsi sembrava, all'uomo bianco, un lusso troppo grosso, ecco che il destino ti rallenta e poi ti impone un insolito ritmo immobile.

Venti giorni bloccato in un villaggio senza pane ne acqua, senza una birra che ti rinfreschi, senza un vino che ti dia sollievo, ogni incontro è fonte di distrazione.

Un antico vecchio, unica testa dai capelli bianchi che vedo da mesi mi si avvicina, mi regala una papaia acerba, mi sussurra il suo nome incomprensibile e poi, seduti di fronte ad una bottiglia di acqua torbida ci scambiamo qualche parola.

"Ho una storia da raccontarti" mi dice.
"Che storia?"  chiedo.
"Una storia di conigli" mi risponde tirando fuori dalla sporca camicia un consunto ciondolo a forma di coniglio che corre e facendomelo dondolare davanti agli occhi, come se volesse ipnotizzarmi……..come se volesse fare in modo che cada sotto qualche influsso…… come se volesse ipnotizzarmi….come se volesse…………..
raccontare una storia…………….

"Un tempo, tanti tanti anni fa qui, proprio in questa città sul fiume vivevano tante persone allegre, spensierate e sane.
Qui tutto era un dono che arrivava da chissà dove: la terra era fertile, il bestiame florido l'acqua dolce come il miele, limpida ed abbondante.

Un giorno però accadde qualcosa, nessuno capì mai dove tutto ebbe inizio ma le cose cominciarono ad andare storte.
Per due anni non scese dal cielo nemmeno una goccia d'acqua, le bestie morirono o furono mangiate. La peste porcellina uccise tutti i maiali, la sete e l'inedia si portarono via tori e mucche, la fame degli uomini fece il resto, così scomparvero a poco a poco anche pecore, capre, galline e conigli.

Dopo due anni le piogge tornarono, anche troppo abbondanti ed il terreno secco non fu in grado di accoglierle. Nuovi fiumi invasero le strade, nuove falde si aprirono da e verso il grande fiume, ruscelli entrarono nelle case e la malattia si diffuse.
Migliaia di persone morirono, le altre si ammalarono e per cinque anni tutti vissero di stenti. Papaia e manioca furono gli unici cibi disponibili ed acqua torbida ed infetta l'unica salvezza dall'arsura.

Proprio qui vicino viveva un bambino il cui nome ora mi sfugge ma non è importante. Questo bambino aveva un amico carissimo che dormiva con lui, si cibava con lui e con lui passava le ore più calde della giornata nascosto nella foresta.
Questo amico era un coniglio.
Il bambino, pur essendo un bambino, sapeva benissimo che chiunque avesse visto il suo amico coniglio se lo sarebbe pappato in un sol boccone.
Così quasi tutta l'esistenza del bimbo era dedicata a mantenere segreta l'esistenza del coniglio.

Un giorno accadde ciò che per anni il piccolo aveva temuto: il coniglio si infilò nella lama di luce che filtrava tra la porta e lo stipite ed uscì dall'oscurità della capanna.
Con un tuffo al cuore il bimbo scattò su ed uscì per riprendere la bestiolina.
Uno, due, tre, quattro secondi ed il pandemonio era già scoppiato.
La povera bestiola si ritrovò in mezzo alla via di terra ed in un secondo era braccato da cento mani affamate.
Ma un coniglio magro è agile come un coniglio magro e un uomo affamato da anni è debole come un uomo affamato da anni.

Cominciò così la più grande caccia che mai fu attuata in tutta l'Africa.

Le urla, lo scompiglio, il passaparola fecero si che in men che non si dica il coniglio fosse braccato non da un uomo, non da due e nemmeno da tre ma da tutta la città.
Ventimila persone erano in subbuglio ed in affanno per catturare quei due miseri chili di carne e pelo.
Il bimbo che si era fatto scappare la bestiola lo inseguiva in preda al pianto, chiamandolo per nome e cercando di raggiungerlo.
Per ore il coniglio zigzagò, scartò, saltò, fece finte, scatti e sterzate, fino a quando riuscì ad ad infilare un sentiero che lo condusse alla foresta.
In pochi minuti la città era deserta come non lo era mai stata. Tutta la popolazione si immerse nella foresta all'inseguimento della bestiola.
Per più di un'ora l'incredibile massa di persone camminò attraverso la foresta ed infine, inaspettatamente, in un'ampia radura trovarono il coniglio immobile, non stanco ne provato, semplicemente accoccolato sulle zampe posteriori.
Tutti rimasero di stucco e l'immensa folla si assiepò tutt'attorno indecisa ed esitante.
Tutti si guardavano di sottecchi, qualcuno aveva persino già l'acquolina in bocca e si asciugava la bava con il dorso della mano.
Un attimo prima dell'assalto il coniglietto si alzò in piedi, fece due passi lenti e cominciò a bere acqua cristallina da una fonte.

Nessuno credeva ai propri occhi: una fonte di notevole portata di acqua così fresca e cristallina che mai si era vista in queste zone.

Ci volle poco per far si che tutti si dimenticassero del coniglio e si cacciassero a capofitto nella dissetante fonte.
Il bimbo, invece corse ansimante dal suo amichetto, lo prese in braccio e lo strinse a se senza smettere di piangere e ridere allo stesso tempo.

In pochi giorni la sorgente fu convogliata in città e distribuita attraverso canali, scoli, vecchi tubi e secchi.
In pochi giorni la città si riempì di gemme, in poche settimane di fiori ed in pochi mesi di frutti e animali.

Il coniglio aveva compiuto il miracolo.
La casa del bimbo divenne una specie di santuario al quale ogni giorno decine di persone portavano doni.
Il bimbo e la sua povera madre vissero tutta la vita senza dover più lavorare ed il coniglio, per il tempo che gli rimase da vivere, visse come vive una divinità.
Poi un giorno il coniglio morì, fu sepolto al centro della casa con una cerimonia che durò una settimana e sul cuscino sul quale era solito riposare fu posata una statuetta di legno che lo raffigurava.

Da quel giorno ovunque sorsero botteghe e negozi che fabbricavano conigli in legno di ogni dimensione ed in breve ognuno ne ebbe uno in casa al quale chiedere aiuto nei momenti più bui.

E fu così che ogni volta che qualcuno si lamentava della vita, che cercava la soluzione ad un problema, che voleva uscire da un guaio, la risposta che riceveva era sempre la stessa: SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO! SEGUI IL CONIGLIO!


CONTINUA...


  UN UOVO.
di Luca Oddera


"L'onestà costa molto più di una Ferrari!", mi diceva sempre il mio vecchio nonno.
Ed io non capivo e vivevo in un mondo che pareva reale ma che in realtà  era fatto di nuvole.
Poi, piano piano, con il passare del tempo, il cielo si aprì, lentamente, negli anni ed io credetti di comprendere e provai a seguire quella significativa e concreta retta via.
Le nuvole, però, ci misero ancora decenni per levarsi di mezzo, per aprire un buco tanto vasto e sgombro da far entrare il primo raggio di sole.
Ed il sole arrivò.
"Onestà morale!" mi dissi un giorno e tutto divenne chiaro.
"Adesso facciamo i conti! Quante Ferrari dovrò acquistare da qui in avanti?"
Tutto intorno i contorsionisti della morale hanno fatto in modo che la moralità si trasformasse in un mucchio di spiccioli, monete, banconote, conti bancari; di modo che tutto il genere umano si dividesse in due categorie soltanto: i ladri presi e messi in prigione ed i ladri mai scoperti ed in parte moralmente autorizzati.

Se escludiamo una terra con una storia di lacrime e sangue quasi infinita, un genocidio ancora sussultante che ha eliminato dal pianeta milioni di persone.
Se escludiamo montagne tanto alte quanto meravigliose, gorilla e vulcani, dolci colline e veneri nere.
Se escludiamo immense praterie, eserciti e leoni, elefanti e gazzelle, migliaia di chilometri di coste e savane.
Se escludiamo meteoriti e scarpate di viva roccia, foreste interminabili e laghi grandi come nazioni.
Se escludiamo deserti di sale e di sabbia, miraggi di altri mondi, delta allagati ed uccelli multicolore.
Se escludiamo vallate lunari e ferrovie antiche come la terra, mari tempestosi e torri d'avorio.
Se escludiamo tutto questo, da qui, da questo confine fino alla fine del mondo, lungo un sentiero di seimila chilometri, non resta altro che il Malawi.
Lago e montagna e nel mezzo tutta la vita del genere umano, dall'uomo delle stelle al rettile, dall'australopiteco all'"uomo con il computer".

La strada che percorre le vette si snoda lungo percorsi sinuosi, affacciandosi su laghi immensi e strette vallette. I pini lasciano spazio all'eucalipto e quest'ultimo alla mangrovia che scivola nel profondo mutandosi in alga.
Questa strada già percorsa scorre via ed un sussulto raggiunge il cuore: "che sia questo il posto adatto?"


Safari lungo sentieri piste e strade. 
Si snoda così la volontà di viaggiare, disintrecciando vecchi percorsi per vedere il filo tutto in un pezzo, senza pieghe e nodi. 
All'improvviso la voglia di fermarsi diventa più forte di quella di muoversi. la voglia di restare invece cede in fretta il passo alla febbre da movimento. basta raccogliere le idee e vedere cosa si può fare.
D'improvviso, quello che succede ti coglie alla sprovvista. 
Quel filo che sempre percorri diventa troppo stretto e la tua lunga vista troppo debole. 
Conoscere, condividere, esplorare l'interno di quella fantasmagorica e memorabile superficie.
Il tempo che sempre ci resta è troppo poco o breve per non cercare di entrare ed interagire.
Un filo lungo cento chilometri si srotola come un foglio e crea un mondo immenso, un milione di volte più grande, sul quale le persone si muovono, si sdraiano e vivono.
Gli equilibristi del filo, che devono scartarsi al tuo passaggio perché sul sottile c'è posto per una persona sola, possono ora conoscerti ed eventualmente restare o scartarti.
Ecco una scelta.
Fermarsi. 
Non Restare. 
Fermarsi è una scelta piena come un uovo e come esso ricca di senso, significati, analogie e vita.
L'uovo è li, deposto dalla creatura volante più grande del mondo, il pensiero.
L'uovo è li, a metà strada tra il lago e la montagna, salvo ed al sicuro in un paniere fatto di persone, terre e milioni di alberi.
Da qui lo sguardo spazia fino alle vette intermedie e bastano quattro passi per raggiungere la terrazza da cui scorgi l'infinito. Da qui, seduto, scopri che l'infinito è più vuoto che pieno ed è calmo, stranamente calmo.
Troppe immagini, volti, colori, suoni, denti, foglie, incidenti, fumi, nebbie e vetri. fango sudore e fatica; cieli, grigi, blu, rossi, d'oro e d'argento. Stelle cadenti fissate nella corsa, soli accecanti e lune passanti.
Tutto, ad un tratto, si apre e riserva soli cento chilometri di avventura su una strada rossa che porta a mete tanto vicine quanto irraggiungibili.
La terra dei giganti si trova proprio li, tra il lago e la montagna, coperta di un verde senza ombra e da un cielo blu senza nubi all'orizzonte.
Costruzioni che diventano case. Macchie che diventano fiori di tappezzeria. Approssimazioni che dopo un certo periodo paiono lavori ben fatti e macchie d'erba che si trasformano in prati.
Le  facce nere come il carbone si schiariscono ed assumono lineamenti riconoscibili per quello che sono.
"Ecco" ti dice l'Uomo che Passa, "vedi, ora la strada è dissestata e scavata dall'acqua delle ultime notti, ora puoi si percorrerla ma puoi anche appianare le buche, scalzare i sassi e renderla una strada buona. Ora, se te la senti puoi andare avanti all'infinito, puoi portare sassi e consolidare il fondo, puoi portare terra asciutta e creare un manto uniforme, puoi impastare il cemento o comprare e stendere l'asfalto, puoi piantare pali e costruire muretti e poi passare più e più volte per questa stessa strada e puoi farla usare ad altre persone, automobili, animali e carri. Puoi creare la magia del tuo passaggio, una magia non eterna ma molto duratura che, come un vecchio re, un giorno cederà il suo sapere ad un qualche figlio di passaggio."
L'Uomo che Passa dice queste cose senza sapere che parla per tuo conto, senza sapere che non esiste, senza sapere che è una tua invenzione, tale quale quel muretto che forse un giorno sorgerà lì, accanto al selciato.
Sono persone, quelle che abitano questa antica terra di giganti, sono persone che hanno perso qualcosa e trovato qualcosa d'altro; sono persone che sono qui per qualche motivo, non a caso abitano questo posto disabitato. 
Non tutti siamo uguali a questo mondo e che pianga pure l'inventore di questa sbagliata idea. 
Non tutti valiamo per quello che siamo, ma per quello che possiamo fare, dare, avere.

Ecco, uno dei modi è quello di imboccare quel sentiero sulla sinistra, accedere a quella piccola proprietà e provare a stare seduto qualche ora…almeno fino al tramonto.
Poi verrà il buio!




28


AFTER è una cosa buona


"Del resto, per restare li a contare gli spiccioli da dare al Grande Mostro Contabile (G.M.C.) pare sia meglio legarsi qualche piuma al braccio e buttarsi giù dalla collina"
Così andava dicendo quel tipo che vidi camminare dalla città alla collina……però l'ho anche sentito cristonare, nemmeno troppo sommessamente, perché, diceva, era rimasto a piedi.
Ecco che cosa ho capito, ho capito che era felice, pareva felice di essersi scrollato di dosso quell'opprimente peso con il quale ti tengono schiacciato a terra tutti coloro che quel peso lo chiamano responsabilità.

Così decisi di tirargli un urlo per dargli un consiglio:
"Hei tu", dissi a voce alta alzando il mento  nella sua direzione, "Hey tu, stai all'occhio, scegli bene la tua collina; scoscesa e pietrosa non te la consiglio…..cerca qualcosa di più…come dire, collinare, un dolce declivio erboso per esempio…"
Mi guardò in modo strambo, quasi non capisse. Del resto parlava un'altra lingua e la mia la conosceva ben poco.
Ma com'e, come non è, io comunque parlo in musica ed allora qualcosa giunse comunque al suo orecchio, ne son certo, poiché sfilandomi accanto lo sentii smettere di bestemmiare e lo vidi camminare  un poco più diritto, un poco più sciolto e vidi persino che il sole gli infastidiva meno gli occhi.
Pareva una buona azione, la mia, sul momento, se nonché tutt'attorno mi s' affollavano una miriade di sordi, scure caricature che pareva di me avessero nessun bisogno.
Quello era il posto! Mi dissi allora, si si, quello era il posto giusto…..
Pochi macchinari all'orizzonte, pochissimi ingranaggi disposti a girare con sempre meno olio, nessun mostro dai tentacoli bipedi che chiedeva, chiedeva, chiedeva…….e tante colline dolci ed erbose nei dintorni.
E poi, arrivare lì richiedeva una lunga, lunghissima via, irta di insidie e trabocchetti e quindi chi ci arrivava aveva tante cose poco noiose da raccontare e questo è davvero importante se vuoi passare una bella serata ed alzarti al mattino pieno di energia.
E poi, a me pareva, a me che li ero arrivato da poco, che il mondo fosse più nuovo, si insomma, più giovane, per così dire, così giovane che ovunque potevi vedere i segni della sua infinita vecchiaia, e se questa vi pare una contraddizione allora vuol dire che non siete stati attenti.
Laggiù le strade sembravano appena scavate nella terra e comunque ti davano l'idea di essere lì per lo meno da millenni, sentieri prima, strade poi, ovviamente, ma qualcuno c'era già passato.  Non molti per dire la verità e molti di coloro che passarono prima di me, comunque, non se ne resero conto…..così le strade erano sia vecchie che giovani. E questa è una cosa buona.
"Scegli tu il posto dove camminare!" gli urlai ancora dietro…….spero mi abbia sentito ma penso non avesse bisogno di quest'ultimo mio consiglio…ma mi piace parlare quando penso.
E' ben giusto decidere dove posare i piedi, senza dover per forza calpestare tutto ciò che ci dicono e, solo nella lunga domenica senza coda nera, calpestare pezzetti d'erba sintetica se ci piace l'erba o roccette di plastica dagli infimi panorami se ci piacciono le roccette; ma che ciò venga fatto sempre e comunque forniti e vestiti di costose attrezzature. La scarpa per la roccetta, la scarpetta per l'erbetta, il ramponcino per il paretino, il cappellino per la salita e quello, uguale ma diverso, per la discesa.  Si, SI, è più giusto posare i piedi dove meglio ci si trova…..e comunque questa sarebbe già una bella responsabilità……se non lo fosse!

Così considerando mi fermai sotto un tetto di lamiera ed ordinai una zuppa di carne e patate calda e unta e buona.

Le sedie erano di plastica, un pò consunte e, a dir la verità, nessuno sentiva il benché minimo bisogno che fossero di acciaio, alluminio o chissà chè. Si stava bene così e, a dispetto della latitudine, c'era una certa fresca brezza che ti consolava.
Ecco perché alla fine decisi di rimanere per vedere se quel tizio cui avevo urlato consigli poco prima sarebbe tornato.
Tornerà, tornerà, mi dicevo sorbendo il brodo della zuppa.
Tornerà perché in questa zuppa c'è un bel pezzo di carne gustosa ed una grossa patata bollente.
Solo la Coca Cola era un poco calda o meglio, non troppo fredda.
Mangiai la carne, la patata, bevvi tutto il brodo e la coca, pagai, poco, e mi misi in cammino.
Verso sud mi dicevo, ma stavo andando verso est, solo che la strada era quasi tutta in discesa e quindi, a me, sembrava di andare a sud…..
Il paesaggio era rassicurante. Perché? Non lo so, ditemelo voi.
La gente camminava, guidava (poco) e pedalava. Tutto questo per muoversi. Ma mi pareva che la maggior parte di essi stesse ferma, sulle sue posizioni, si, ma sopratutto nel posto in cui si trovava. Piccoli scambi di piccole merci strappavano sorrisi qua e la e anche piccole o grandi languide occhiate nei miei confronti non facevano altro che strappare tutt'intorno dolci sorrisi.
Gruppetti di persone stavano all'ombra a scambiarsi frasi e parole prendendo quello che veniva come veniva senza decidersi ad interrompere quel flusso benefico.
E questo è bene.
Si è bene perché quando vuoi interromper quel flusso benefico per dire la tua pare tu faccia solo ridere i polli. 
Ed i polli, lo sappiamo tutti, non sono famosi per produrre gradevoli risate…e nemmeno dolci sorrisi.
La strada saliva, poi scendeva, poi saliva tanto, poi scendeva di nuovo e poi risaliva un poco. Poi cominciava a scendere senza smettere, fino alla meta.
La meta era, o almeno avrebbe dovuto essere, un immenso specchio di acqua dolce e quando dico immenso intendo proprio immenso e quando dico dolce vuol dire che è proprio dolce.
Così, un pò per fortuna, un pò perché avevo voluto cercare di interrompere il flusso malefico, il viaggio divenne una passeggiata, le avventure la mia vita, lo straniero un amico e la terra riarsa si trasformò in terra fertile e verde…..ed apparvero i ruscelli, i torrenti, gli alberi giganti e i misteriosi uccelli microscopici, i serpenti si allontanarono, le persone salutarono ed i cani abbaiarono. Su e giù, su e giù. Era cominciata la discesa, così passeggiando in una sola direzione senza troppa fatica avevo il tempo di guardarmi attorno.
Che bel posto mi dissi una volta di più, mi piace pensare  che oltre quell'orizzonte ce n'è un altro e poi un'altro ancora, all'infinito, beh, non proprio all'infinito, ma così tante volte che per noi così piccoli è quasi infinito.
E questa è una cosa buona. E' buona perché quando l'orizzonte è troppo piccolo tu non puoi fare altro che comprimerti mentre quando è così grande….beh, dovreste saperlo…c'è più spazio, è semplice.
E collina dopo collina, a scendere, l'immane specchi d'acqua si avvicinava, si avvicinava perché lo so, ma ancora non lo vedevo.
Passai per strade quasi deserte, ricche di grande vegetazione alta e lussureggiante e per nulla opprimente. Passai attraverso gruppi di case e di uomini che sorrisero e salutarono, presi curve in discesa e rettilinei in pianura….ma scendevo sempre.
In tasca non avevo molto ma mi consolava parecchio il fatto che non c'era nulla da comprare e questa è una cosa molto buona quando in tasca hai poco.
Mi chiesero tante volte se volevo un passaggio ma declinai l'invito, il sole era ancora alto nel cielo e sapevo esattamente a che ora avrei voluto arrivare dove stavo andando.
Arrivarci troppo presto avrebbe voluto quasi dire andare in un'altro posto e quindi affrettarmi o prendere un passaggio sarebbe stato esattamente come dire:"toh, ora decido di sbagliar strada"
L'acqua apparve dietro una collina, come in una canzone, il lago sterminato come un mare scintillava di luce dorata, come in una canzone, le prime forme cominciavano ad annebbiarsi per diventar sagome di un rosso tramonto, come in una canzone, ma mi accorsi che una canzone c'era davvero, arrivava da un cortile dove brevi preghiere si alternavano a lunghi canti che mi rapivano.
E scendevo, scendevo, scendevo.
Arrivai sulle sponde delle acque, così come niente fosse, trovai un luogo abbandonato, deserto solitario. una spiaggia lunga ed arcuata si interrompeva di qua e di la facendo emergere dal lago una enorme foresta. una sola pietra, grande e tonda era lì, vicina all'acqua, mi sedetti e rimasi stupefatto, stordito, affascinato a contemplare tutto quello che vedevo.
Ero solo, li dove volevo essere e fu così che mi accorsi che quell'uomo cui avevo gridato i miei consigli era già tornato ed era li con me ed era un uomo nuovo, più alto, più tranquillo, più rilassato e molto molto più buono di prima……..ed aveva anche una macchina!
"Bello qui vero?" mi disse
"Molto bello" risposi.
"quando viene buio, se vuoi ti do un passaggio per tornare su" continuò.
"certo grazie" dissi
"però prima ci fermiamo al bar qui dietro a bere due birre…"
"Una Io ed una Tu"



29

Estratto da "Acque e tamburi"



Quel diavoletto bavoso ed invasato che mi saltellava attorno cominciava a darmi sui nervi.
Avevo compiti ben più importanti ed interessanti da svolgere per stare a perdere tempo cercando di tenerlo alla larga dalla mia persona.
"Tutta l'importanza che ha" mi dissero un giorno, "è quella che gli dai tu!"
Ci pensai su qualche secondo, mi voltai verso di lui e lo vidi dapprima ritirarsi a statura ancor più ridotta e subito dopo…Puff!……svanire in una nuvoletta di polvere e mediocre anonimato…..


Tratto da "Acque e tamburi"  di Mike "Big Man" Butterfield.1996



30

INTERMEZZO

Seduti, dietro al davanzale, 
guardavamo gli uccellini posati sulle poltrone 
e ci chiedevamo, 
senza dircelo, 
perché mai fossimo lì.

Lì in quel posto, 
così lontano. 

L'unica risposta che trovammo, 
senza dircela, 
era che non volevamo stare in quell'altro posto. 

E comunque adesso eravamo lì, 
a guardare gli uccellini adagiati sulle poltrone di paglia.

Ma due piccoli fantasmini, 
che mi seguivano, 
sempre e ovunque nell'ultimo periodo, 
invece di saltellarmi attorno, 
si erano accoccolati l'uno sulla spalla destra, 
l'altra su quella sinistra e
invece di sputar consigli, 
mi leccavano le orecchie.

Fastidio e solletico,
in egual misura, 
erano senz'altro più ben venuti, 
di qualsiasi inopportuno consiglio.
Loro due, sapevano perché eravamo li
 e mi leccavano le orecchie, 
come per dire: 
"guarda cosa stiamo facendo, dai guarda, ti stiamo leccando le orecchie…eh eh, dai, guarda qui, ti stiamo leccando le orecchie…"

Meno male che loro erano li...

...altrimenti mi sarei perso lo spettacolo di quegli uccellini multicolore che saltellavano e cinguettavano sulle poltrone che avevamo li davanti… 

e
senza di loro,
mai, 
avrei capito perché eravamo lì, così lontano … 






DELTI O KAHAANIYON? 

di Chandraki Malini "Nadee" Narayan 
traduzione dall' hindi di Bupesh "Samudr" Subram

I viaggi in questo strano continente dalla forma di pera ritorta pare, spesso, finiscano come due dei sui grandi fiumi.
Ci sono questi due grandi fiumi, ma proprio grandi, grandi che in Europa sono troppo grandi, che finiscono lì, a mille chilometri dal mare, dispersi in fiumiciattoli, torrentelli, rii e rigagnoli.
Ecco quello che succede; al mare non ci torni più, cerchi una strada, da principio, poi provi a scavarti una galleria, poi torni sui tuoi passi, fai una serie di curve e slalom tra gli alberi secolari e gli arbusti, poi incontri te stesso di qualche chilometro prima, ti incroci, ti schivi ti mischi ed ecco qui la magia: ti fai casa!

Certo ci sono i Giganti veri e propri, quei fiumi che sono i più grandi e più lunghi di tutta questa sfera che tanto sferica non è. Questi vanno fino al mare, loro non possono certo esimersi da questo compito eterno ed immutabile. 
Hanno delle responsabilità.
La responsabilità di arrivare al mare.
Ma l'acqua al mare ci arriva sempre e comunque, poco importa che a portarcela sia il fiume, il temporale o l'uccello. Lei ci arriva, sempre.
Quindi qui puoi perderti, puoi perdere parte dell'immutabile senso delle cose che la storia cerca di inculcarti non conscia di essere lei stessa un fiume che porta l'acqua esattamente dove l'acqua va, dove l'acqua comunque andrebbe. 
Al mare, sempre e comunque.   (A parte quella infinitesimale parte che da sessanta anni andiamo a pisciare nello spazio)
Ed allora le cose si confondono un poco. una leggera nebbiolina affiora, poi sale, poi diviene bruma, poi nebbia e poi sta' li, pesante, rarefatta in filamenti e linee di diverse densità, sospesa a colorare i raggi di soli giganteschi all'alba ed infuocati al tramonto, incapace di decidere se sono colori mai visti, riflessi d'altri tempi od un gioco di specchi deformanti dovuti alla sua presenza in sospensione. 
Il solo guardarci attraverso in direzione del sole ne cambia il colore! Lo sapevate? Io l'ho studiato, si l'ho studiato in un passato remoto, ma così remoto che l'altro ieri sembra domani.
Da questi luoghi dove i fiumi sfociano senza arrivare al mare, si può anche decidere di ritornare indietro, di risalire la corrente per vedere cosa successe in passato. Se arrivi nel mare, eh no, li non puoi più far niente, lo scopo è raggiunto, le acque si mischiano, ti perdi, ti mischi. hai dato il tuo contributo. Ecco fatto!
Invece da qui puoi scalare a ritroso il sentiero che qui ti ha condotto, puoi riscoprire cose che non hai mai avuto, puoi riscoprire  racconti di parenti lontani nel tempo tanto quanto nonni e bisnonni. Da qui riesci a risalire al nocciolo delle cose senza perdere tutto il gusto della cosa. 
Chissà che non si riesca a raggiungere le sorgenti e capire da dove si arriva. Qualcuno dice sia possibile, io penso sia difficile altri sanno che non sono raggiungibili. Questi ultimi solitamente si lasciano scivolare in mare come chiazza d'olio!
E' comunque lassù, tra quelle montagne tanto lontane quanto immense che puoi trovare ciò che di più antico esiste. Se segui il filo a ritroso più in dietro di così non puoi andare….ed è già un successo arrivarci…chissà se qualcuno mai ci è arrivato. Eppure le sorgenti, lassù, tra nebbie e foreste sono proprio il punto più lontano raggiungibile su questa terra. Bisogna poi stabilire, caso per caso, se davvero ci si vuole arrivare o se basta poi risalire a ritroso la storia e trovare un'ansa nella quale comodamente osservare la corrente al rovescio.
Di sicuro è un bel vedere, con immensi spazi aperti, animali che si abbeverano, il tempo che si ferma e poi fa un salto furioso in avanti ma poi torna un po più indietro di prima. Farfalle giganti e colorate come arcobaleni ti ricordano musiche e disegni dell'infanzia di tua madre ed immensi animali preistorici ti ricordano l'infanzia di tuo padre.
Spazi infiniti, tramonti inverosimili ed albe primordiali ti lasciano senza fiato giorno dopo giorno. Senza mai, almeno apparentemente, essere contaminate da storie già scritte ed abbruttite da fili spinati.
E così, mamma, mi perdo in un sogno di stoffe colorate che non avranno mai l'intensità vera e propria dei colori di casa, ma sicuramente un odore più forte, una fragranza più persistente, una trama più semplice e lontana nel tempo e nello spazio, un tocco che sempre richiama altri mondi altrimenti invisibili, altrimenti solo raccontati, altrimenti facenti parte di favole che son, si belle, ma senza sapori. Storie mai vissute han bisogno di piedi scalzi che vadano ad indurirsi altrove o scarpe che si consumino diversamente per far si che la storia resti viva….altrimenti diviene una mummia da museo della quale si traviseranno poi le origini, i significati….
Hei! Mamma, però, mi raccomando, "acqua in bocca"…tutto questo deve rimanere un segreto tra te e me.
Sempre tua C.M.N.N.

"Il coniglio gisante può cambiare colore" è un romanzetto frazionato in tanti capitoli che aspettano una trama che li metta tutti sulla stessa barca. E' un libro di viaggio, forse e se proprio voleste saperlo il viaggio parte dal basso Egitto e precisamente da Alessandria (si, quella della biblioteca, è un caso?) e da li si va verso sud attraverso città, deserti, piramidi e fiumi; poi compie una decisa svolta verso nord-ovest e si inoltra in immense foreste, maestose montagne, vulcani e guerre; da qui la direzione diventa di nuovo il sud tra laghi, savane e sterminate praterie. Egitto, Sudan, Ethiopia, Kenia, Uganda, Congo D.R.C., Ruanda, Tanzania e Malawi.
Qui, in Malawi, proprio come uno dei grandi fiumi africani, il racconto si interrompe e si scinde in tanti rivoli e canali, impantanato in laghetti e torrenti, senza arrivare ad una conclusione, senza arrivare al mare…..o forse si….



34

Il pullmino.
(Una storia vera successa da un'altra parte)
Raccontata da un signore vestito di nero con le scarpe a punta lucide ma piuttosto malandate, il cravattino e la camicia bianca, seduto vicino ad una baracchetta che vendeva bibite calde in un giorno di pioggia in un posto dove le strade avevano smesso di alzare polvere in ogni dove.

Tutti quei turisti cominciavano a snervarmi, non ne potevo più. Era come se mi rovesciassero addosso della vernice appiccicosa che non riuscivo a levare completamente. 
Arrivavano trafelati ed indaffarati…si, già all'aeroporto erano incasinati, chiedevano di connettersi, di avere una schedina, di telefonare, di scrivere commenti su commenti dei commenti e di verificare che i bagagli ci fossero tutti….proprio tutti. Cose inutili dalla prima all'ultima, senza paura di sbagliare.
Eccoli discesi dall'aereo ma rimasti a casa, al cento per cento…rimasti a casa. Avevano pagato per spedire i loro corpi in vacanza, un'avventura simulata per poter raccontare cose che non sono capaci ne di fare ne di immaginare. Ma le teste ….quelle…le avevano lasciate a casa…giuro..erano senza testa..al cento per cento.
E così mi sono caricato questi zombie senza testa sul piccolo pulmino che guido da sei anni e sono partito. 
Tutti, ma proprio tutti, avevano i visi chini su diversi aggeggi tecnologici……."ciao Mamma, sono arrivata"…..beh, certo che sei arrivata, e dove cazzo volevi essere?…avevi paura di essere smarrita come un bagaglio? Forse si, forse si perché la testa è rimasta a casa…..addosso avevano pure i cartellini come se fossero delle valigie.
Guardavano ognuno il suo schermo, ogni tanto alzavano lo sguardo vuoto ed assente e mi facevano domande inutili che richiedono risposte nozionistiche da incamerare, comprimere, stoccare e poi più avanti vedere se c'è qualcosa di impressionante da raccontare.
Le nozioni, pensavo, perché non le arrotolate e ve le mettete su da un foro di quelli che vi fanno comunicare con l'esterno? Uno qualsiasi…. 
Quando guardi qui attorno l'ultima cosa che dovresti fare sono delle domande…perché se sei li dovrebbe essere proprio perché hai bisogno di farne……..e le risposte sono tutte li…altrimenti bastava farmi una telefonata…e che cazzo, almeno non vi avrei visti…….
Così decisi di andare dove sapevo, un po lontano, dove davvero ci sono i leoni, aprii le porte del furgone, tolsi le chiavi, presi un po di carne cruda nel bagagliaio e la buttai sotto al furgone e sul tetto e me ne andai dove sapevo io, dove i leoni non sarebbero venuti……

Buon appetito ragazzi


VIAGGI INVENTATI
di un inventore
Beh, potrei raccontarvi un viaggio di sei mesi, totalmente inventato, facendo un puzzle di trenta paesi, dandogli un minimo di coerenza spaziotemporale e lasciandomi poi andare ad ogni tipo di invenzione, lasciando correre l'immaginazione, scrivendo aneddoti utili a raccontare, insegnare, denigrare, spiegare, disincantare, rattristare…… e nessuno, dico nessuno, potrebbe smentirmi. Quel periodo appartiene solo a me. Nessuno tranne Cecilia, perché era là, ovunque sia questo o quel "là". Solo una grande schiera di amici, conoscenti e parenti potrebbero, tutti assieme, dopo lunghe consultazioni e studi, solo un team di questo genere, dicevo, potrebbe smentirmi. Ma non succederà mai che un gruppo di questo genere si riunisca per venire a capo di cosa così poco interessante. Quindi posso sentirmi libero di utilizzare lettere, parole, periodi, viaggi, avventure, invenzioni, storie fantastiche, per ridare lustro al libro che sto scrivendo.

Econe un esempio:

quell'anno stavo risalendo il corso del Nilo (il Nilo è un grande fiume -più lungo che grande- ed è inoltre ramificato, e, come molte cose della natura, indescrivibile se non in poesia. 
Mi spiego: cercano d dirci quanto è lungo, ma la foce si sposta, e poi non sanno bene da dove parte, o meglio, "il mistero è stato svelato all'epoca delle grandi esplorazioni (e che esplorazioni!) ma sarà poi vero? Visto che poi di Nilo ad un certo momento se ne trovano più d'uno gli hanno dato dei nomi di colori (bianco ed azzurro)….quindi è piuttosto complesso capire dove effettivamente comincia….
Tutti e due cominciano da un lago, ma quel lago è solo grassa parte rigonfia di un fiume precedente, o di fiumi precedenti…..
Quindi l'origine si perde in un dedalo di ramificazioni poco comprensibile ad una mente che cerca spiegazioni nette e precise. 
Di sicuro nasce sopra all'equatore……ah ah… ne siete così sicuri? Nooooo….
Ebbene se non ho voglia di spiegare esattamente, tramite coordinate, numeriche, temporali, sociali, geografiche, ecc, ecc…..nemmeno per sogno che possiate capire quando dove e se ero……

Quindi riprendiamo:
quell'anno stavo risalendo il corso del nilo, sgommavo verso sud alla velocità della luce, quella velocità cui speri il tempo non passi…ma passa, passa come è vero iddio. Ma passa più lentamente…questo pare sia accertato e certificto…basterebbe essere tanto intelligenti da capirlo…io non lo sono, quindi non capisco, ma lo sento e ne ho fatto appositamente esperienza……

Il sole sorgeva dietro una duna di sabbia e terra, la luce si irradiava dapprima soffusa e poi netta. I contorni delle cose mutavano come muta il baco in farfalla e dalle nebbie del buio mattutino affioravano chiari e netti i profili di ogni cosa, dal sasso a un centimetro dalla mia scarpa al minareto lontano un chilometro. 
La pace eterna arrivava così come niente fosse a regalaci una nuova giornata.
Il caldo, quello vero aveva ancora da arrivare e mi godevo ogni momento della temporanea frescura.
Di fronte a me, ad ovest vedevo il sinuoso corso del fiume scendere  lento e placido, in direzione dell'ancora sonnolenta cittadina, che correva tra rive di rada vegetazione e sporadiche anse deserte. 
Fluiva sotto un ponte men che eterno e poi, poco prima dell'arrivo delle prime lavandaie, strisciava a nascondersi dietro l'innalzarsi del mio primo orizzonte.
da li il l'occhio correva veloce seguendo i tratti di una collina che lentamente si alzava verso est e qui un nuovo orizzonte più scuro copriva il primo.
Una costruzione piramidale molto ripida spezzava l'incanto della natura , lei sì, un pò più eterna del ponte.
Da lì l'infinito riappariva tra il discendere della prima collina e l'innalzarsi della seconda, più maestosa ed imponente, tanto da poter coprire con la sua ombra le costruzioni degli uomini di qualsiasi epoca. 
pare che quella imponente collina abbia conosciuto in passato razze e civiltà che mai potremo conoscere.
ma il mio sguardo correva rapito, sempre verso est, carezzando la sommità del monte, ridiscendendo lungo il suo crinale, distratto solo dal volo sicuro di alcuni uccelli multicolore che planavano lungo i pendii. Uccelli di cui non conosco i nomi perché dare nomi agli uccelli e poi ricordarli è mestiere più da nordici e britannici che mio.
Ed ecco il fiume riapparire, sulla sinistra, come per incanto inondato della nuova luce obliqua del giorno, scintillante di mille piccole stelle.
La prima ansa lo riportava verso di me, ma la successiva lo rimetteva in riga e lo allontanava verso nord est a dissipare nuove nebbie ed a scomparire dalla mia vista.
mi sentivo circondato dalle acque ed in pace, pronto ad un altro giorno di scoperte.

Quindi, di malavoglia, mi allontanai da quell'incanto mattutino; che alle volte è meglio andarsene prima che la natura completi il suo dipinto inserendo comparse non gradite che possono rovinare l'idillio. 
mi allontanai portando con me quell'immagine che è quella che voglio, di quel poso, d quel momento, mia. 

E poi….


………………….

LA PIZZA

Siamo andati là, fin dove il mondo finiva ed abbiamo trovato il buio.
Non che il luogo in se fosse così importante, doveva essere davvero lontano da tutto e da tutti.
Lo era.
Non sarebbe stato corretto ritirarsi in un piccolo cubo in un alveare affollato,
Non sarebbe stato corretto ritirarsi in uno stagno del parco di una città sovraffollata.
Non sarebbe stato sopportabile provare a stringersi negli interstizi verdi che restano come imprigionati tra tentacolari vie di passaggio che uniscono gangli che connettono intere città-stato.
Abbiamo provato a raggiungere i recessi più reconditi, più inaccessibili al tempo che passa ed alla moda che arriva.
Ci siamo allontanati da tutto quel che corre sulla stessa affollata strada.
Ed abbiamo trovato il buio.
Ma il grigio resta lontano.
Sospesi tra una leggera e frustrante ipocrisia ed un coraggio, impensabile negli anni della cecità e della prigionia, che ci ha spinti oltre al nodo scorsoio della rassegnazione.
Annoiati come pere cotte lasciate all'aperto ad ammuffire ci chiedevamo saltuariamente cosa facevamo lì, sotto ad una veranda esposta alle piogge tropicali. 
Osservavamo la vegetazione che cresceva al ritmo di un centimetro all'ora. Quasi potevamo scorgere in lontananza le montagne crescere e consumarsi alla brezza calda dei venti dell'est.
Sentivamo che la terra tremava sotto di noi senza scomporci più di tanto.
Ci abbiamo provato per anni ed anni. abbiamo tentato di resistere aspettando che una goccia di verità stillasse dal tetto malandato di quella veranda sul mondo. 
Nel mentre passavano accanto a noi specie di umanità talmente differenti da sbalordire il più ardito dei viaggiatori. Uomini, donne e bambini che a seconda della stagione si riparavano dalla pioggia sotto alla nostra veranda oppure scappavano dal caldo sedendosi di fronte ai nostri impolverati ventilatori. E noi guardavamo ed ascoltavmo giapponesi, statunitensi e messicani, cinesi e thailandesi, australiani e bretoni, olandesi e scozzesi, indiani, iracheni, pachistani iraniani, russi, ukraini e polacchi, svizzeri, coreani, nigeriani, congolesi e uruguaiani, argentini, spagnoli, portoghesi, kenioti, ugandesi, sudanesi, apolidi e malawiani, tanzaniani e mongoli, slovacchi e cechi, tedeschi e israeliani, svedesi, norvegesi, neozelandesi e finlandesi, islandesi e colombiani, uruguaiani e cileni, saponai e canadesi, indonesiani e brasiliani, uomini delle regnino, donne dell'Arabia saudita e bambini di taiwan, buthanesi e filippini, zimbabwiani bianche e neri e color cioccolato, mozambicani , ruandesi, camerunesi e gabbiani, ivoriani e scozzesi, belgi e irlandesi, baschi e austriaci, inglesi e lituani, estoni e graci, vietnamiti e cambogiani, egiziani e marocchini, maltesi e libanesi, burundesi e tagiky, siriani e turchi, capoverdiani e camerunesi……..
E tra loro tanti depressi, allegri, solipsisti, razzisti, stalinisti, ecologici, modernisti, tracotanti, alcolizzati, salutisti, amanti del surf, naturalisti, naturisti, dogmatici, sandinisti, musulmani, taoisti ebrei, ebrei ortodossi, ebrei ultraortodossi, ebrei ultra ultra ortodossi, protestanti, battisti, cristiani, atei, taoisti, sik, induisti, avventisti, buddisti, confuciani, praticanti di culti tribali, giainisti, scintoisti, sciamannasti, adoratori dei Rolling Stones, copulatori dei Led Zeppelin, mangiatori di ashish, di tabacco, di pelote e di acidi assortiti. sedentari e viaggiatori apocalittici, ricchi, poveri, benestanti e martiri del viaggio, preppers e insegnanti apostolici, convertiti e rinati, persone che poi sono morte, persone che erano nelle pance delle donne e poi sono uscite, costruttori di strade, demolitori di ponti, commercianti di polli e costruttori di imperi economici, politici e criticoni, inventori e falegnami, ciclisti, autisti, guidatori e motociclisti, bianchi, chiari, colored, neri, neri come il carbone, neri quasi blu, gialli dagli occhi all'insù, gialli dagli occhi all'ingiù, rossi, color oro, color caffè latte, verdi per l'effetto della sbronza del giorno prima, mormoni e insegnanti della bibbia a tutti i costi, traduttori, persone che seguono le mode del vestire e persone che non hanno vestiti, insegnanti, spazzini, ingenieri, fornai, fattori, ricconi sdentati, dottori, infermieri, stregoni, navigatori e barcaioli, baristi, ristoratori, industriali, autotrasportatori, frequentatori di uffici, banchieri, saldatori e gommisti, meccanici burundesi e meccanici generici, alcolisti anonimi, preti e vescovi, muratori veri e falsi, stampatori, praticanti di lavori perduti, vasai e cesellatori, copisti e stilatori di elenchi, elettricisti ed idraulici senza attrezzi, disinfestatori e spianatoi di buche, diplomatici, presidenti, vicepresidenti, consoli e ambasciatori, piloti di aerei e di alianti, cacciatori, ranger e bracconieri, cuochi veri e falsi, macellai e sarti, ……ecco, poi la lista va ripetuta tutta al femminile…..

Ed a tutti, ma proprio a tutti,  piaceva la pizza.




CONTINUA…………..

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