mercoledì 13 marzo 2019

A PASSEGGIO CON LA BANDIERA (Congo 3)



Quando l'uomo, qualunque uomo, entra qui torna ad essere una bestia.
Uno sparo non serve a far sorgere un breve interrogativo. Uno sparo fa scattare i muscoli della schiena e del collo. Ti acquatti? Ti volti? Ma non fai domande.
Viaggi secolari di sterminio, conquiste e marce forzate attraverso villaggi di morti. Scie di sangue lunghe secoli. Tutto questo non ha smesso di esistere.
Viviamo in mondi sospesi, trascorriamo anni di storia in cui il nostro giudizio rimane sospeso a causa della sicurezza imposta da fragili leggi territoriali e morali confinate entro ridottissimi spazi mentre  il resto del mondo vive di carne e sangue come mille anni fa.
Nessuna paura è più grande di quella che assale gli uomini bianchi immersi nelle tenebre della storia, il loro cuore si calcifica in un tumore nero che ricorda miti passati e lascia tracce negli occhi e nei pensieri.
Si rivoluzionano tutte le conclusioni alle quali si era giunti con fatica, si rivoltano tutti i dogmi imposti con bastone e carezza, lasciando trasparire interiora ben diverse da quelle che ci saremmo aspettati.
Nessuna nefandezza rientra nel nostro impianto morale, nessun comandamento dirige il nostro spirito religioso, nessuna certezza sorregge più le nostre decisioni.
Le mani, i piedi, la fame, la sopravvivenza. 
Io uccido!
Ecco ciò che resta di migliaia di anni di storia. L'arma meccanica può sopperire al bastone, il veleno al sasso. 
Le risate sono lunghe e frequenti come gli atti di morte e non stupisca questa esagerata ilarità, perché è il trucco che usa la mente per non vacillare, è la pigmentazione multicolore del camaleonte, la pezzatura della giraffa, lo scatto del soldato nell'udire lo schiocco del fucile.
Non lasciamoci sorprendere dalle tenebre, non lasciamo che la truffa si insinui tra noi ed il nostro interlocutore, non lasciamo che capiscano che abbiamo paura, puntiamo invece sulla forza, l'inganno, l'essere spietati più di una belva.
Io attraverso queste regioni con cautela e mi nomino arbitrariamente "uomo moderno" per eccellenza, distinto dagli altri da caratteristiche ben definite: paura del buio, del diverso, della morte, della malattia; insicurezza nelle strategie nel rapportarsi agli altri, a me stesso, all'ambiente; moralità assorbita nei comportamenti casalinghi dei nostri piccoli "stati-villaggio" dove le ombre non si allungano che di pochi centimetri più di noi.
Ecco che allora il corpo appare molliccio e la mente debole e solo l'ignoranza nei nostri confronti ci salva dall'essere divorati.
Passeggio a piedi e con la macchina per queste strade di fango, ora ben cosciente di essere un mito. Nascondo armi sconosciute, una forza sovrumana, capacità intellettuali degne di un superuomo. Sono una specie di divinità scesa dalle stelle e questa credenza mi salva dalla rapida sottomissione a popoli forti ma ingenui.
Questa volta solo quattrocento chilometri mi separano dalle suore che sono mamme, sorelle, amiche e, di volta in volta, salvezza e misericordia.
Quattrocento chilometri che condensano esperienze molto più lunghe, profonde e definitive. Quattrocento chilometri che sono il riassunto di viaggi interminabili attraverso continenti di alberi e morte.
Questi quattrocento chilometri deflagrano in una nuvola scintillante di immagini, momenti e sogni che sono la riscoperta dell'essere umano.
Quattrocento chilometri che sciolgono il nodo del bavaglio che ci hanno costretto ad indossare negli ultimi cento anni di vita.
I paraocchi cadono, non senza difficoltà, poiché il sistema agisce in modo che certi luoghi, certe credenze, certi uomini e certi comportamenti ci siano preclusi. Solo la tenacia, l'incredibile voglia di farlo, l'incoscienza ed un vago senso di mancanza permettono di attraversare certe frontiere, di oltrepassare quei muri eretti con sapienza, di superare le barricate e gli ostacoli che si frappongono tra noi e questo mondo.
Il viaggio per arrivare qui comincia venti anni prima. Scali un'alta collina, con fatica e quando getti lo sguardo sul panorama dalla sua cima non sei soddisfatto. La pochezza dei panorami ti impedisce di scorgere ciò che cerchi.
Poco più in là. al massimo oltre a quel promontorio, ecco una casa, una strada, un ponte, che frenano la tua immaginazione come uno schiaffo mentre sei assorto.
Gli spazi che separano quello che cerchi da quello che potresti trovare sono così spesso interrotti da altre idee, progetti di altri e brandelli di storia, che proprio non puoi fare a meno di volgere lo sguardo prima ed i piedi poi verso terre senza sbocchi sul passato.
Dopo la lunga strada fangosa che discende la montagna arrivi ad un bivio dove l'asfalto è così devastato da parere antico.
Alla mia destra posso andare verso nord. Alla mia sinistra verso sud. Nei prossimi mille chilometri, in una o nell'altra direzione, le cose non sono poi così diverse.
Solo il desiderio di arrivare, più o meno, dove mi ero prefissato di arrivare, impone la scelta.
Mezzo giro di sterzo e la macchina comincia a sussultare tra le buche dell'asfalto.
Uomini neri come la notte dell'uomo, camminano in fila indiana con le vecchie uniformi esageratamente pulite. Occhi gialli e neri, baschi viola e fucili mitragliatori. Armi semi automatiche, pistole e lanciarazzi, coltelli dalle lame consumate, anfibi screpolati ma lucidi e ingrassati. Fischietti e fazzoletti da spalla viola. Spille porpora e cinturoni di cuoio verde.
Le persone si scostano, trasportano banane e non portano scarpe. Le dita dei piedi sono fessurate e quelle delle mani indurite da calli neri e spessi. Le case sono baracche, catapecchie, rimesse sistemate a mò di abitazione. I cortili sono spiazzi di terra troppo angusti se paragonati alla vastità che li circonda. le siepi sono poveri arbusti della foresta trapiantati in giovinezza ed i cancelli rami nodosi legati da stracci consumati.
Iniziano così questi quattrocento chilometri che non mi fanno più paura perché ormai li conosco, non saranno peggio dei sentieri già percorsi. Resta solo l'incidente, la sparatoria, l'arresto, in una parola il fato. Ma il fato tende trappole anche lungo le comode vie illuminate delle nostre città-vetrina, quindi è un dubbio con il quale sono abituato a convivere. la paura dell'ignoto è stata sconfitta già non una ma più volte, eppure oggi, qui su questa strada, non avrei ne la forza ne il coraggio di affrontarla nuovamente.
I prossimi quattrocento chilometri sono un viaggio di giorni e giorni che sovverte la nostra idea di distanze. I prossimi quattrocento chilometri sono un parossismo inverso della razza umana. I prossimi quattrocento chilometri racchiudono i ventimila già percorsi con la mente immobilizzata in un solo pensiero: arrivare.
Meno trecentonovanta.

Discorso dell'albero (che fa da intermezzo)

Sono fermo e faccio ombra mi disse una volta l'albero. Sono fermo si, ma se ti metti sulla mia strada allora mi muovo e tu perderai tutti i tuoi aggettivi, perderai i contorni, piano piano anche i colori. 
Potresti perdere i denti, e magari anche le unghie.
Se ti metti sulla mia strada, disse l'albero prima o poi, perderai la vita. Perderai le meglio opportunità, smarrirai la strada e tornerai nel limbo di BuBu. 
Diverrai vulnerabile e quasi trasparente, debole e senza sostanza.
Guarda questa corteccia, senti queste radici, godi di queste fronde. 
Io sono il tramite tra la terra ed il cielo, trasformo l'aria in acqua e l'acqua in aria, sono nido e burrone per gli uccelli, fuoco e riparo per gli uomini, sogno e realtà per le vostre donne.
Ma non metterti sulla mia strada!
Ecco perché gli uomini della foresta parlano con gli alberi e se non li conoscono bene non vanno a vivere sotto alla loro ombra.

L'uomo con la bandiera è un poveraccio che ha messo l'onore di un regno inventato davanti alla cura per i suoi simili.
L'uomo con la bandiera stracciata cammina al lato della strada con passo da mendicante e non vede le buche che lo indurranno ad inciampare.
La strada sale tortuosa come una biscia allontanandosi dal lago. 
Si aprono scenari meravigliosi che sono finestre sulla preistoria, sono scorci di un passato non tanto dimenticato quanto sconosciuto e tenebroso. 
Niente, anima l'incomprensibile conoscenza del remoto, come questa piccola valletta alluvionale dove un immenso serpente marrone scorre come se fosse un fiume, dove le grandi foglie umide luccicano del sudore della terra.
La strada, le case ed i villaggi sono un miraggio temporaneo, talmente esili ed inconsistenti da non essere di impiccio alla mente ed al cuore.
Ecco ciò che cercavo, ecco che una volta trovato non si lascia afferrare perché ormai non sono più un essere in grado di sopravvivere con me stesso e l'ambiente.
L'uomo qui ha lasciato solo rovine, si muove su relitti macilenti e non riesce a condurre l'acqua alla sua dimora. 
Un ponte ormai vecchio e malandato, cadente e pericoloso è tutto ciò che resta degli umani progetti. 
La terra arriva al fiume e l'uomo non è in grado di condurre il proprio cavallo di ferro arrugginito sull'altra sponda.
Le foglie di banano, a migliaia, sono sistemate a formare un selciato morbido e cedevole che nasconde l'abisso alla vista, ma non protegge dal precipitare. 
L'occhio cieco non ha paura del baratro sino a quando non si sente cadere.
L'uomo con la bandiera attraversa i pochi ponti camminando sul margine esterno del traliccio, i vecchi sputano nella sua direzione, le donne si ritirano ed i bimbi gli lanciano sassi di scherno ben attenti a non colpirlo per davvero. 
Se colpito, porterebbe malasorte a tutto il villaggio.
L'uomo con la bandiera si è perso in un sogno che nessuno ha mai realizzato e si crogiola in quei pensieri senza sapere che lo chiamano pazzo.
La sua bandiera è diventata uno straccio gri-gri lavorato non dall'incantesimo ma dal lungo tempo passato lungo la strada accompagnato dalla follia.
Tutti sanno quanto possa essere deleterio un incontro ravvicinato con costui ed è per questo che chi sa del suo arrivo lascia ciotole di brodo lungo la via, mucchietti di banane bene in vista sui sassi ombreggiati, sigarette deposte su pilette di bastoncini.
Qui il dio della possibilità è molto più potente del dio della certezza e quindi resta sconveniente non abusare di qualche piccolo trucco o sacrificio. 
Qui la notte è lunga; dodici ore separano la luce dalla luce. 
Metà del giorno immersi nel buio è un tempo troppo lungo per far fina che non esista ed anche se la terra su cui cammini è sempre la stessa, hai bisogno di un tramite tra questo mondo e l'altro.
Spari lontani riportano la mia mente alla realtà ed i miei occhi sulla strada. 
Curve su precipizi vertiginosi aprono vedute infinite su valli dove la vita spurga da ogni poro di ogni essere.
La strada diventa il letto di un ruscello fangoso dove anche l'uomo a piedi inciampa e scivola come un bimbo su gambe incerte.
Una curva via l'altra il villaggio ci vede arrancare verso di esso e come da copione, si affolla per attenderci. 
Monuc biscuit, Monuc bon bon. 
La tiritera è sempre la stessa ed i visi, per quanto uguali, sempre differenti.
Non siamo Peace Keeper, non siamo guerrieri distruttori, non siamo nemmeno medici e nemmeno siamo qualcosa mandato da qualcun altro. 
Siamo solo qui di passaggio per arrivare là e questa spiegazione non accontenta mai nessuno.
Il non far parte di un assetto più grande, il non avere caramelle da distribuire, il non avere una meta poi così precisa, destabilizza l'interlocutore che nemmeno può credere che la nostra conoscenza della sua lingua sia così esigua.
Alla fine, spesso, quello che portiamo è delusione.
Niente doni ne promesse, nessuno spiraglio di salvezza o cambiamento, solo la certezza, per i più piccini, che l'uomo chiaro non è una leggenda ma un carovaniere che esiste e che ogni tanto, come un antico zingaro, passa suonando la sua fisarmonica fatta di tubi e cilindri.
Scorre l'auto tanto attesa di fronte agli occhi enormi del bambino; scorre via. 
I rossi lumini posteriori ondeggiano tra le buche e le crepe della strada. 
La curva inghiotte la visione; pochi minuti e la polvere scende nuovamente sulla strada.
Il bimbo resta lì, confuso, contrariato, insoddisfatto e deluso.

Uno spintone da dietro lo riporta alle sue strade di fango e di polvere, ai suoi giochi, al seno di sua madre.   

di Luca Oddera


                               

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