giovedì 21 marzo 2019

JAMBO






Nota 1: questa è la primissima stesura del libro quindi riporta ancora vari errori di battitura e non è completa.
Nota 2: in fondo al racconto trovi la Mappa del viaggio.



Sbarchi dopo due giorni e mezzo di traghetto. Hai dormito per terra due notti, sulla moquette dei corridoi, in fin dei conti niente male. Ti sei 
annoiato per tre giorni; annoiato di vedere mare piatto e coste ogni 
tanto, coste che in realtà sono tutte uguali e nemmeno sai se stai 
guardando la Francia, la Spagna o qualche Africa. La nave è noiosa. Che psicologia hanno gli uomini di mare che in mare stanno mesi? Per una vita? Io non ci riuscirei mai.
Poi riconosci Gibraltar, non perchè ha qualcosa di particolare, ma gli 
africani in nave si agitano, si muovono e sogghignano, sanno che ci siamo e dicano quel che vogliono, sono contenti di arrivare. Di tornare, di 
giungere a casa. Se poi abitano duemila chilometri più a sud non fa niente, la casa inizia dove si scende dalla nave ed anche a piedi puoi arrivare al tuo letto.Sotto di noi, nella stiva, che all’uscita delle auto dalla nave diventerà un inferno di gas, clacson ed urla tutte di gioia, ci sono le nostre macchine.Abbiamo due fuoristrada che sembrano carri armati in assetto da guerra. Bull bar contro gli attraversamenti di bestie e uomini, luci che illumineranno a giorno il continente nero, gomme nuove pronte a scavare la sabbia e vincere il fango, attrezzi e strumenti per affrontare ogni avversità.
E noi sopra: sul ponte, a guardare Tangeri che arriva. Noi sopra molto meno preparati delle nostre auto. Non abbiamo tutto quel coraggio che dovremmo avere e la presenza delle auto sotto coperta mi spaventa; è un peso, una responsabilità che non voglio, meglio uno zaino.

Le formalità doganali sulla nave e poi a terra sono un vero delirio, non puoi nemmeno immaginarlo se non lo vivi. I marocchini sono a loro agio in mezzo alle urla ed alle scomposte pile di passaporti che i doganieri giostrano come birilli da giocolieri. 
In fondo, poi, è solo questione di tempo. Cinque, sei ore e tutto è fatto. Certo lo sbarco poteva essere effettuato in mezz’ora, ma allora dove saremmo stati? In Norvegia o in Giappone? Non certo in Africa, nel continente dove tutto è possibile e dove si fa l’impossibile tutti i giorni.

Il porto di Tangeri e già un ricordo mentre ci sei dentro. Un ricordo di altri viaggi, un ricordo di doganieri che si fanno corrompere con una banana, di mendicanti che si accontentano poi solo di parole, sorrisi e di ladri che sono più spaventati delle loro stesse vittime. 
Poi le macchine escono dal porto ed a guidarle ci siamo noi, mica 
qualcun’altro. 
Frizione, cambio, freno ed acceleratore. Tutto quel che serve per coprire la strada più lunga mai percorsa da persone sprovvedute come noi.
La voce di Diego gracchia dal CB, strumento che usiamo oggi per la prima volta: “Ok, stammi appiccicato”, farlo è una parola, tra folli taxi e persone e bestie e carretti e urli e clacson. “ Tu guida come se la tua macchina fosse lunga il doppio” gli dico io, intanto gli stò attaccato. Sono momenti di panico, di paura, si suda freddo. Per cosa poi? E’ solo un porto e nemmeno tanto pericoloso, è solo una città e nemmeno tanto pericolosa, è solo uno stato, ed il meno pericoloso dell’Africa.
Ecco il punto, noi non siamo in Marocco, ma in Africa e non sappiamo ancora come vogliamo arrivare a Cape Town, venticinquemila chilometri più a sud. Saranno venticinquemila chilometri di strade, piste, deserti e fango, foreste e disperati, madri e morti, uomini e schiavi, guerre e fiumi. Ecco cosa ci fa paura, un anno di preparazione, soldi spesi ed i nostri pensieri puntati per un intero anno su questo enorme ignoto che stiamo vivendo. 
Ora ci siamo: paura del fallimento, paura della delusione, paura di farsi male, magari anche paura di morire. Ma forse, più di tutto, paura che la paura abbia il sopravvento.
Intanto la città, con le sue indicazioni, ci fa uscire dalla sua pancia 
ribollente ed in un secondo e mezzo stiamo filando verso sud su di un’autostrada che di diverso dalle nostre ha solo l’assenza di lavori in corso in ogni dove e qualche auto capottata a bordo strada. 
Il sudore si asciuga, la manualità nell’usare il CB migliora, un sentiero di terra rossa mi fa capire che ci siamo. Non siamo più dove eravamo prima, non siamo più dove non volevamo stare, siamo finalmente dove volevamo essere. 
Stiamo facendo quello che vogliamo fare, nel modo più assoluto. E’ un momento in cui non vuoi essere in nessun’altro posto, non vorresti fare nient’altro. 
Stiamo andando a sud. 
Centoventi all’ora, tutta la paura che avrei potuto trascinarmi dietro l’ho lasciata nel porto di Tangeri, spero che lì resti e non mi segua di soppiatto. Vado troppo forte, non mi raggiungerà più. L’Africa spaventa tanto che ti fa diventare coraggioso. E’ un patto che devi fare al più presto, lei ti fa paura e tu lo accetti. La cosa finisce lì. Ad ognuno il suo ruolo, altrimenti te ne torni a casa. Lei di gente da spaventare a morte ne ha a bizzeffe, non ha certo bisogno di te.
Così scende la notte, fatta questa volta di camper, pioggia, freddo africano, hamburger e Coca Cola.
Poi torna il sole. La paura che mi accompagnava non è riuscita a passare le formalità doganali. 
La strada si srotola di nuovo come una lunga corda ed il francese si fa sempre più sciolto e sgrammaticato, ovvero sempre più efficace.
Il Marocco è molto lungo, mi pare lungo cinque giorni, Marrakech è meno confusionaria e precaria di dieci anni fa, i suk sono più europei di un tempo e le strade migliori. I muli di Marrakech sono meno numerosi e meno striminziti. 
Essere italiani qui è come esserlo a casa propria.
Ospiti di Rabizi a Marrakech, alla ricerca di un visto a Casablanca e poi a sud. 
L’Africa sembra iniziare dopo Tan Tan. Ma dove comincia l’Africa è un concetto che varia da persona a persona. Per qualcuno non comincia mai.

Dopo Tan Tan, a dire il vero anche un pò prima, inizia il grande deserto. L’asfalto per fortuna continua ad accompagnarci silenzioso e veloce. A 
destra l’oceano piatto, a sinistra il deserto di pietre, piatto anche lui. Non per un’ora o due, ma per qualche giorno, e cosi sarà fino in Nigeria. Settemila chilometri di predeserto piatto ed infame, più povero della gente che ci vive, più inospitale di un mare di sabbia. 
Qui il Sahara e l’oceano si incontrano, una linea blu a destra ed una 
grigia marrone a sinistra. 
Qui i panorami non sono immensi, sono infiniti, come gli spazi, l’Africa sembra interminabile. Maciniamo migliaia di chilometri e guardando una mappa del continente ci spostiamo solo di pochi centimetri.
In mezzo a questo enorme infinito, dopo decine e decine di ore di guida, non sai più dove guardare e cosa pensare, tutto uguale, tutto sempre piatto. Le minuscole colline che ogni tanto si incontrano sono alte solo qualche metro e riescono solo ad aumentare il senso di desolazione. 
Guidiamo per giorni nell’Hammada, una distesa desolata di pietre e polvere lunga mille e più chilometri, ogni tanto un ciuffo d’erba rachitico fa capolino. Il panorama è quasi deprimente. A tratti travolgente.
Cominciamo a sviluppare una particolare sensibilità verso i piccoli cambiamenti del paesaggio: una piccola duna alta qualche metro, un ciuffo di erba più grande o la strada che sale impercettibilmente. Una o due dune in lontananza, nascoste nella foschia. Piccoli indizi che ora dopo ora ci aiutano a capire che ci stiamo muovendo.
Non un cartello stradale ti indica la direzione ma un mucchio di pietre, non lo scorrere delle lancette dell’orologio ti conferma che il tempo passa ma il cambio di tonalità della luce. 
Credo che se qui non ci nasci non potrai mai abituarti a viverci, troppi spazi, troppe distanze; non stiamo parlando delle “immense” pianure nord americane, quelle in qualche ora di macchina si attraversano, questo grande deserto si attraversa in giorni, giorni e giorni; ti consuma il cervello. Un albero è un evento, una casa una rarità, un fiume uno scherzo.
Tan Tan, Laayune, Dakhla, sono accampamenti un pò troppo cresciuti, con qualche bel viale alberato regalato dal re del Marocco per accontentare la gente e fare in modo che non cada nella tentazione delle false promesse di benessere di Spagna e Portogallo.

Le città sono circondate da mura e paratie contro le quali si ammassa la sabbia trasportata dal vento. La gente è fasciata e sicuramente molto forte. Se non sei forte, qui non vivi, questo è sicuro.
I nostri Land Rover ingurgitano e digeriscono gasolio e polvere in pari quantità, che sia la polvere, il sole, il vento, qualcosa infierisce sempre su di noi. Le temperature superano i quaranta gradi e sul braccio sinistro la mia scottatura comincia a formare bolle e piaghe.
Visto che l’orizzonte è piatto come niente altro che io conosca, Diego mi insegna a guardare vicino. Ogni tanto raccoglie pietre, conchiglie ed anche una specie di pianta grassa. Ne prendo una anch’io, verranno con noi fino in Sud Africa, ci impiegheranno un mese a seccare, dopo essere state nel posacenere della macchina sotto al sole per trenta giorni consecutivi. Forse queste piante sono le sole cose più resistenti delle persone che abitano questi posti.
Le giornate sono bollenti, le notti tiepide e la birra, la sera, non riesce mai ad essere fresca come in una birreria europea. Più andiamo a sud e più è difficile procurarsi birra, bisogna comprarla al mercato nero, come da noi si compra l’hascish. Comunque noi abbiamo in macchina i nostri dieci litri di rum, scorta preziosa. 
Dormiamo nel deserto, dormiamo a Dakhla, mi sa che a volte dormiamo ad occhi aperti abbagliati dal sole, ancora un giorno ed entreremo in Mauritania.

Siamo alla frontiera con la Mauritania. Gli europei che erano con noi sul traghetto ci hanno lasciati in Marocco.
La strada asfaltata finisce dieci metri dopo il posto di  blocco marocchino, costituito da una costruzione lunga e bassa. Passiamo quattro o cinque uffici, in ognuno ci consegnano un pò di documenti, in realtà foglietti scarabocchiati a mano, foglietti che poi consegniamo nell’ufficio successivo. Alla fine ripartiamo con un timbro sul passaporto e niente più.
Qui termina l’asfalto. Di fronte a noi c’è veramente l’ignoto. Ci aspettano ancora migliaia e migliaia di chilometri di strada da fare e già qui proviamo un profondo senso di smarrimento. L’asfalto finisce e con esso sembra che finisca anche quel che di Europa ci eravamo portati dietro. 
Siamo in Africa. 
L’Africa non scherza davvero. Spazi infiniti e piatti, desolazioni deprimenti, di fronte ed in tutte le direzioni, sabbia bollente e quarantacinque gradi che ci ricordano di bere. Fino a che non ti sei acclimatato al caldo-secco del deserto devi bere tanto, soprattutto di sera, anche se non ne senti la necessità. Si rischia la disidratazione.

Cento metri dopo il posto di controllo quello che rimaneva della pista scompare e davanti abbiamo solo il deserto. Sembra incredibile. Dopo qualche chilometro ci accorgiamo di aver perso la direzione perchè scorgiamo lontano sulla nostra sinistra una figura che si sbraccia per chiamarci. La raggiungiamo, vicino c’è il posto di controllo mauritano. Una baracca scassata con dentro dei figuri scalcinati. 
Entra prima Diego. 
Passano dieci minuti in cui penso che il nostro viaggio possa già essere finito. Del resto siamo partiti dall’Italia sprovvisti di Carnet de Passage, un documento che si dice sia assolutamente indispensabile per portare le auto fuori dall’ UE. Dalla baracca sento uscire un urlo “Diego...Diego Maradona! “ ed uno scroscio di risa.  
Ecco cosa succede in una frontiera africana:
-primo tentativo di corruzione: i funzionari domandano una notevole somma di denaro dicendo che gli ultimi italiani che sono passati di lì e non hanno voluto pagare, sono rimasti tre giorni in frontiera;
-secondo tentativo di corruzione: la somma di denaro richiesta si abbassa al prezzo di tre quattro pacchetti di sigarette;
-terzo tentativo di corruzione: pare che ai doganieri non interessi più il denaro ma che per loro siano assolutamente necessari una t-shirt o un paio di occhiali da sole, oggetti sempre presenti nell’abbigliamento di un viaggiatore;
-epilogo: i doganieri si accontentano di una fragorosa risata scoprendo che Diego porta lo stesso nome di Maradona ma non è ricco e capelluto come lui.
In Africa c’è qualcuno che è talmente povero che come compenso si fa bastare una risata.
Comunque uno o due pacchetti di sigarette rimangono in dogana e si riparte.
Un paio di chilometri dopo, un nuovo posto di controllo. Il primo era della Police, adesso abbiamo a che fare con la Gendarmerie e poi con la dogana vera e propria. 
Il rito della corruzione riprende, sempre recitato nello stesso modo. Scopriremo più avanti che lasciato il mondo arabo ed entrati nell’Africa dei neri cattolico-animisti, gli attori che recitano la parte dei funzionari corrotti diventeranno sempre più bravi e smaliziati nell’interpretare la loro parte.
Alla Gendarmerie, di fianco alle scrivanie, seduta su di una branda sfatta e sporca sta una ragazza piuttosto grassa che non ci guarda nemmeno. Invece io la guardo. Sul naso ha una mosca che passeggia indisturbata e che lì resta per almeno i quindici minuti necessari per le formalità. Ha lo sguardo basso, rassegnato, perso nel vuoto. Attorno a lei migliaia di chilometri di sabbia e silenzio.

Un ragazzo si offre di farci da guida per Noadibou, la strada è difficile dice. Scopriremo che pochi chilometri dopo la pista si trasforma in uno splendido asfalto nuovo, liscio e nero che ci accompagnerà fino alla città.
La Mauritania è desolata, piatta, desertica e stordente. Per noi è il primo incontro con il deserto. Nemmeno un’ora e siamo a Nouadibou, sistemati in un campeggio che al suo interno non può tenere che tre macchine.
Si aprono le tende, si beve il the, si vola per le strade polverose a fare la “assolutamente necessaria” assicurazione per le auto. L’ufficio è una scrivania e quattro persone gentili. Niente più. La sera si cena contrattando il prezzo richiesto da una guida per condurci attraverso il Banque d’Arguin, immensa e desolata zona di deserto che si affaccia sull’Atlantico, priva di piste e  di ogni possibilità di orientarsi.
Noadibou è una specie di enorme accampamento cresciuto dalla sabbia e dalla sabbia lentamente fagocitato. Tutt’attorno deserto, per centinaia di chilometri. Acqua e gasolio cominciano a diventare un tormentone. 
“Ci vuole il gasolio di scorta.” “Siete sicuri di avere abbastanza acqua?”
No, non siamo sicuri, come facciamo a saperlo? E poi “abbastanza” cosa vorrà mai dire? Dieci litri? Cento? Mille?
Noadibou è comunque una città.
Un ragazzo del posto ci accompagna al consolato del Mali. Qui aspettiamo il funzionario per una mezz’ora buona. L’ufficio è deprimente, cadente e sembra più uno scantinato che un consolato. Una bandiera sporca e sgualcita pende dalla balaustra. Sotto il sole cocente Diego osserva il panorama: qualcuno che passa, un cane che annusa un mucchio di spazzatura. Davanti a noi un’auto attira la nostra attenzione: una Tipo targata Genova. Pazzesco. Diego, il grande ed attrezzato fotografo, estrae il cellulare e con quello scatta una foto.
All’arrivo del funzionario sbrighiamo le pratiche che ci permettono di avere un suo documento che, pare, serva a richiedere poi, nella capitale, il visto anche di domenica. 
Forse il sole ha cominciato a cuocere anche i nostri cervelli. A pensarci bene che documento è mai uno stampato che ti permette di ottenere un visto di domenica? Una follia, come la città che ci circonda.

Apro le tende. Diego cucina la pasta o forse un pasticcio di uova. Apro il tavolo e gli sgabelli. Diego stappa le birre. Appendo il telo militare per proteggere i fuochi della cucina dal vento. Diego mette a bollire l’acqua per il caffè. Tutto ciò accade questa sera a Nouadibou, ma è un rito che compiremo decine e decine di volte attraverso tutta l’Africa. 
A casa tua sollevi il lenzuolo e ti sdrai per dormire, qui prepari il campo. 
Il campo in un lampo diventa casa tua: i due Land Rover fanno da muri, le tende da tetto e la sabbia da pavimento. Solo il bagno cambia di volta in volta. Oggi il bagno è l’ombra di un muro, domani un buco in una spianata di cemento e dopodomani un water incrostato. Qualche volta troviamo persino dei bagni veri, dove ci possiamo accomodare come in un salotto.
Scende la sera, la luce da campo riesce ad illuminare solo i Land Rover ed il tavolino con le sedie. L’oscurità inizia un metro più in là. Il buio trasmette un senso di protezione.
Dopo una giornata che i tuoi occhi guardano così lontano da sentirne male, un po’ di raccoglimento forse fa bene. Non vedi oltre la luce. Vedo la faccia di Diego, stanca, rilassata, pensierosa. Nell’insieme assolutamente felice. 
Onnipresenti la cuccuma dell’acqua calda, i portelloni dei Land Rover e le scale delle nostre tende da tetto.
Ogni sera si aprono le carte geografiche, si studia il percorso, come se fossimo poi noi a decidere. A decidere la nostra strada saranno poi in realtà le persone che incontreremo, i capricci del tempo, la manutenzione delle strade ed il volere di Allah, di Dio e di qualche Tron Woodoo.
Un’unica meta, sconosciuta, pericolosa, certa: penetrare più a fondo possibile nel cuore nero del continente nero, lasciare che la sua cupa anima graffi le nostre, giovani e leggere,inesperte e disperate; attraversare questo strano centro di tutto ed arrivare al fondo della grande Africa, dove la terra finisce ed il mare fragoroso annebbia di spruzzi le coste. Poi si vedrà.
L’Africa è strana, debole come un cucciolo ma antica più del mondo. Se ti guarda di soppiatto lo fa attraverso lo sguardo basso di un cane affamato, se vuole guardarti dritto negli occhi lo fa dal cielo terso e blu o dalle marroni acque dei suoi possenti fiumi. Se ti vuole dire qualcosa te lo fa capire con le membra scomposte di un cadavere abbandonato per la strada.

La notte passa molto tranquilla. Possono succederti così tante cose che alla fine te ne fai una ragione e ti rilassi, chiudi gli occhi e dormi dolcemente... tanto sai che domani si riparte e ad ogni metro il mondo sarà nuovo e diverso. Possono succederti così tante brutte cose che, alla fine, non ti accade nulla.

Date le strane pose che assume manipolando sapientemente la sua tunica azzurra lo abbiamo chiamato aquilotto. Zinedin, un tempo cammelliere nel deserto, oggi ci guida attraverso il Banque d’Arguin, centinaia e centinaia di chilometri di puro deserto, sabbia, polvere e sassi.

Ore ed ore di guida attenta e frenetica, alternando “toule ondoulè” a sabbia molla. La toule ondoulè è terra battuta molto dura sulla quale si formano piccole ondulazioni che sono la morte per le vetture. Non certo per i nostri Land Rover. Sulla toule ondoulè l’unica soluzione è viaggiare a cento chilometri all’ora, così da non sentire le vibrazioni. Ma poi d’improvviso si incontra la sabbia che ti fa rallentare d’un colpo a sessanta all’ora e ti fa sbandare come se fossi su una barca. Quando ci si ferma per trasferire il gasolio dalle taniche ai serbatoi bisogna farlo stando sottovento, bisogna fare molta attenzione. Il vento solleva ininterrottamente polvere e sabbia.

Poi finalmente il mare. 
Dopo ore di deserto il mare è gratificante, ti fa capire dove sei, capisci più o meno qual’è il sud e quale il nord.
Facciamo una breve sosta a base di scatolette di tonno e poi ripartiamo subito.
Il deserto continua senza soluzione di continuità fino alle porte di Nouakchott.
Nouakchott, capitale della Mauritania, uno stato che conta qualcosa come due milioni di abitanti su una superficie tre volte più grande di quella 
dell’Italia.
La Mauritania è povera, così povera che se non ci vai non puoi capire. In Mauritania non hanno nemmeno la legna per cucinare e poi mancano l’acqua, le strade, i ponti, le scuole, le foreste ed i fiumi. Mancano i laghi e le montagne. La Mauritania è un’enorme nulla in mezzo al deserto, un nulla popolato da pochi ma forti individui, persone gentili che ci aiutano a superare il deserto.
Zinedin ci accompagna a Nouakchott, la degna capitale di uno stato poverissimo. Strade polverose, edifici mai più alti di due piani, abitazioni precarie e negozi vuoti di qualsiasi cosa.
La mattinata di domenica passata all’Ambasciata del Mali ci fa capire che il documento fatto e pagato a Nouadibou è carta straccia; il visto ce lo avrebbero fatto comunque.   
Una notte in tenda in una specie di campeggio, una cena, una spesa e trecento litri di gasolio e Nouakchott resta alle spalle. Già lontana pochi chilometri dopo essere partiti.
Riso, sale, gasolio ed acqua, non serve altro.

Nouakchott segna per noi il momento in cui smettiamo di puntare a sud. Da qui si procederà verso est per molti giorni.
Puntiamo dritti al cuore del grande Sahara.
Il deserto è per davvero pieno di sabbia. C’è sabbia ovunque, anche per la strada. Abbiamo di nuovo un buon asfalto su cui correre, ma a renderlo insidioso ci pensano il vento e le dune mobili, che ogni tanto ingurgitano completamente la strada, tanto da farci temere di non ritrovarla più.
Centinaia di bestie morte ai bordi della strada ci ricordano di stare sempre allerta. E’ molto facile in Africa investire una bestia, piccola o grande che sia.
Cadaveri, cadaveri di animali ogni tre quattro minuti. Credo che vivendo in “occidente” sia praticamente impossibile vedere così tanti animali morti. Carcasse di cani, asini, cavalli e dromedari, pecore e capre. Cadaveri gonfi, flosci e cadaveri completamente seccati e mummificati dal vento bollente. 
Piccoli villaggi fatti di sabbia e deserto ci sfrecciano a fianco, persone mutilate ci salutano, spesso la Police ci ferma per farci compilare strani documenti. Documenti inventati alle volte lì per lì. La Gendarmerie fa la stessa cosa.
Intanto la strada scorre. Un giorno intero, poi due e poi, tra muezzin e donne fasciate fino agli occhi, tra paesini quasi inesistenti e letti di fiumi asciugatisi centinaia di anni fa, arriviamo a Nema.
Nema, in mezzo al deserto, lontana da tutto, anche da sè stessa. Nema, la città di frontiera definitiva. A Nema davvero non capisci dove finisca la città e dove cominci il deserto. La piazza principale è un’enorme spianata coperta da cumuli di sabbia. Aperta al deserto su di un lato lo lascia entrare come fosse un fiume di sabbia. Nema è povera, opprimente e forse pericolosa.
Una notte a Nema ed una mattinata al commissariato di polizia ci fanno venire voglia di partire il più presto possibile. La polizia non è molto amichevole, ma in realtà nemmeno scortese. Il capo della stazione domanda soldi come tutti per rilasciarci il visto di uscita, solo che lo fa lasciandoci chiusi da soli in una squallida e scalcinata stanza del commissariato dove veniamo lasciati a pensare quanto siamo disposti a pagare il visto di uscita; non si capisce se da quella specie di prigione o dalla Mauritania.
Alla fine, in realtà non paghiamo mai grandi cifre. Dopo piccoli ricatti e trattative sbrighiamo la formalità con venti dollari circa.
Partiamo alla volta di Nara, vera frontiera con il Mali, persa nel deserto, raggiunta solo da una pista carovaniera che per una giornata mette a dura prova i nostri Land Rover. Chiediamo indicazioni per Nara, ci dicono di svoltare a sinistra e poi... “Pas de probleme,  tutte le strade portano a Nara.” 

La strada non esiste più, una pista ci accompagnerà per centinaia di chilometri da Nema fino al confine con il Mali e da lì fino a Bamako.
La pista in molti tratti scompare e restano fievoli impronte di pneumatici da seguire.
Più la pista da seguire si fa incerta più Diego va veloce, credo sia una sorta di reazione. Già che ti devi buttare buttati con forza.
I Land Rover scricchiolano e sobbalzano come non hanno mai fatto e lo fanno per ore, lo hanno fatto per giorni, lo faranno per mesi.
A tratti la pista scompare totalmente, il terreno si fa piatto, duro ed uniforme per decine di chilometri tutt’attorno.
I nostri Land Rover, lanciati a centoventi all’ora giocano a rincorrersi come due cani in un prato. A volte lontani un chilometro a volte così vicini che quasi si toccano.
Mi torna alla mente l’Hammada marocchina, centinaia e centinaia di chilometri di deserto piatto, l’assenza totale di qualsiasi altra vettura ed io cosa riesco a fare? Tampono Diego. Un bel colpo e via. Si scende dalle macchine e si guarda il danno, irrilevante per la verità. Ma poi il silenzio ed il leggero soffiare del vento ci fanno alzare gli occhi; siamo in mezzo al nulla. Perché ci siamo tamponati? Perché stiamo così vicini da sbattere uno contro l’altro?
La risposta ce la porta il vento da lontano, un vento che incontra noi come primo ostacolo dopo centinaia di chilometri di vuoto polveroso.

Abbiamo un pò paura di perderci. Noi “occidentali” non siamo più abituati ad orientarci, non siamo più abituati a non seguire indicazioni stradali, strisce bianche e gialle e luci di segnalazione. E che dire dei cartelli che indicano le distanze in chilometri? Qui non esiste niente di tutto ciò. Solo qualche camion carico di gente a cui chiedere qualche informazione. Peccato, tutti parlano solo arabo, ma capiscono; sanno che due come noi in quel posto non possono fare altro che chiedere la direzione per Nara e con un gesto vago ci indicano di proseguire nella stessa direzione in cui stiamo andando.
Un piccolo villaggio, una capanna e qualche dromedario sono tutto ciò che incontriamo in circa quattrocento chilometri, oltre ad un minuscolo posto di frontiera dove, a colpi di sigarette, “acquistiamo” il timbro per 
l’entrata in Mali. 

Il Mali ci accoglie con una vegetazione che a noi sembra lussureggiante, ma in realtà sono pochi alberi sparsi qua e là. La pista, lentamente, si trasforma in una strada sterrata sconquassata dalle buche, ogni tanto incontriamo dei ponticelli che superano gli Ouade (guadi). A memoria mia in Mauritania non abbiamo visto un solo ponte.
Adesso si incontrano dei villaggi con cartelli che ne indicano i nomi e lo sterrato si trasforma come per magia, una magia fatta di ruspe ed operai, in una favola da centoventi chilometri all’ora. A volte sembra di fare un rally, le persone urlano al nostro passaggio e ci incitano. Qualcuno ci chiede se siamo della Paris-Dakar; che, tra parentesi non è mai arrivata fino a qui. Perché negare? Perché dire la verità?
Il Mali è, in questa discesa verso il Capo, il primo incontro, quasi un assaggio  dell’Africa vera, dell’Africa nera, fatta di terra rossa, di foreste, di fango e di uomini neri come il carbone e dalla pelle liscia come ebano lavorato. Un’Africa fatta di donne con sederi perfettamente tondi e labbra più grandi delle parole che pronunciano.
I villaggi che attraversiamo nella notte sono vivi, allegri, la gente non va a dormire con il buio, accende un fuoco e lì attorno si raduna. 
Una batteria da camion, un’antenna alta un palmo e mezzo ed una vecchia TV. Questo prodigioso kit apre una finestra nell’oscurità e decine di persone restano rapite-intontite a guardare dando le spalle al buio.
Il Mali, come tutta l’Africa, è popolato da centinaia di migliaia di bambini. Non ho mai visto tanti bimbi come in Africa. La gente non ha nulla ma ha tanti bambini; bambini ovunque. Quando ci fermiamo a fare gasolio in qualche sperduto villaggio sembra che i bimbi si materializzino all’improvviso, sembra che escano da sotto le nostre macchine ed in un minuto sono in centinaia che salutano e chiedono che gli venga fatta una foto.
Sono migliaia di sguardi, persi, rapiti dalle masse dei Land Rover, divertiti dalle nostre gambe bianche, tristi, arrabbiati e felici.
Diego, come un santone estrae la cinepresa, come fedeli in adorazione decine di bimbi si accalcano attorno a lui.
Due minuti di riprese, cinque secondi di visione di se stessi ed i bambini iniziano a gridare come matti.
Huston abbiamo un problema: qui i bambini non sono mai stati sulla luna. 
Dopo dodici ore di guida attraverso il deserto, arrivare a Bamako è un sollievo ma anche un incubo fatto di traffico e confusione. Troviamo una missione dove possiamo attrezzare le nostre tende nel cortile e dove sistemare i Land Rover.
La sera, in un minuscolo bar di fronte alla missione, smarriti nella delirante Bamako, mangiamo un pò di carne e patate e beviamo alcune birre. Poi a dormire presto, il giorno seguente lo dovremo dedicare tutto a pulire le macchine dal dito di polvere che ne ha ricoperto gli interni ed a risistemare tutte le attrezzature crollate per gli scossoni.
Negli ultimi giorni ci siamo resi conto di come la nostra missione, quella di coprire ancora dieci, forse dodicimila chilometri di strade distrutte e deserti, sia praticamente un’utopia. Così dedichiamo mezza giornata alla ricerca di una compagnia aerea che sia in grado di portare le nostre macchine sino a Kartoum in Sudan o addirittura fino a Nairobi in Kenia.
L’idea sembra buona ma saranno i prezzi a farci desistere. L’offerta migliore consiste in un Niamey- Kartoum a “soli” quindicimila Dollari ad auto più i nostri biglietti aerei.
Queste cifre ci aiutano a decidere rapidamente sul da farsi.

La mattina seguente facciamo i pieni e ripartiamo in direzione Djennè.
Il grande fiume Niger ci accompagnerà ora per giorni, regalandoci vegetazione e centri abitati molto più frequenti.
La strada è asfaltata e bella, la gente amichevole e la Police molto più rilassata che in Mauritania. Quando veniamo fermati dai posti di blocco ci stupisce la, a volte esagerata, cortesia dei poliziotti. Senza intoppi di sorta in tarda serata ed immersi nelle tenebre saliamo sul traghetto che ci porta a Djennè.
Djennè, la città di fango, superba e bellissima, la cui moschea è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, nasce dalle acque del fiume Niger ed è interamente costruita con il fango del fiume.
Noi ci muoviamo al suo interno attraverso stretti viottoli terrosi guidando i nostri Defender, attenti a non urtare muri, a non scontrare bancarelle ed a non investire i passanti. Un bimbo appollaiato sul cofano della macchina di Diego ci fa da guida attraverso il dedalo di viuzze. Questa sera la nostra meta è Chez Baba. Una specie di ristorante che, ci dicono, sicuramente ci farà mettere le tende in cortile.
Arrivati da Chez Baba, alcuni inservienti si danno subito da fare per spostare tavoli, sedie ed avventori per farci passare ed aprire le nostre tende. È un posto magnifico. Siamo nel cuore dell’antica città, a due metri da noi i tavolini con sedie e candela, poco più in là il pozzo e nella costruzione un enorme frigo pieno di birra ghiacciata.
Siamo in vacanza. Sembra di essere in un enorme Club Med a cielo aperto, solo che qui tutto è vero. Tutto è bello e ben tenuto ma vero, reale come il caffè che ti scotta la bocca la mattina.
Mezza giornata di vacanza ci aspetta.

La mattinata successiva la passiamo a visitare la città ed il mercato. Perdersi per i piccoli vicoli di fango di Djennè è un’esperienza affascinante, sembra di tornare indietro di secoli.
La città pullula di vita; bancarelle coloratissime e decine di bambini festanti che ci seguono ci fanno capire che il fiume Niger è davvero una ricchezza inestimabile; basta allontanarsi una cinquantina di chilometri dal suo corso per essere nuovamente catapultati nel deserto ed all’era della pietra.

Scattiamo qualche foto, compriamo un pò di splendide stoffe e nel primo pomeriggio riprendiamo il minuscolo traghetto, assediato dai venditori ambulanti, che ci condurrà a riprendere la nostra strada.

L’asfalto ci accompagna ancora, dolce e sinuoso al ricordo delle dissestate piste della Mauritania, fino a Moptì, il più grande centro abitato sul Niger.
Moptì è grande e caotica, povera ma importante, ha il più grande porto del Mali, un porto che ai nostri occhi, gonfi di ricchezze, sembra una discarica. Baracche fatte con pezzi di vecchie imbarcazioni; imbarcazioni costruite con pezzi di baracche crollate; e così via. Una casa prende il largo e qualcuno si scalda il pranzo in una barca tirata a secca. La gente va e viene, sposta sale e contratta soldi che sembrano carta straccia.
La vita pullula.
Qui arrivano le lastre di sale portate a dorso di cammello dal deserto e da qui ripartono per il Burkina Faso, il Togo, il Benin e la Nigeria.
La nostra guida nel caos di Moptì è Mamadou, un ragazzino di tredici anni che ci guida sicuro per le strade della città, ci trova una sistemazione per la notte e ci porta anche a mangiare un ottimo pesce.
Mamadou ci guida nell’ignoto del mercato di Moptì, tra mucchi di carne nera di mosche e statuette Voodoo che ti guardano dritto in faccia. Qualcuno ci insulta, qualcuno ci saluta, qualcuno ci maledice perchè scattiamo foto, qualcuno ci chiede di fargli una foto.
Diego acquista un coltello tipo sciabola, io un ippopotamo di legno. Perchè?
La domanda piuttosto deve essere: perchè no?
Qui l’ideale sarebbe fermarsi qualche giorno ed andare a fare escursioni in canoa lungo il fiume, ma noi non possiamo, il giorno seguente, di mattina presto siamo già per strada, diretti a Gao, città triste e polverosa che segna il confine con il Niger.
Arrivederci Mamadou, a tredici anni sei già un uomo, cosa sarai a venti e poi a trenta?

Per raggiungere Gao ci vuole tutto il giorno e la sera il traghetto che ci farà attraversare il fiume Niger per l’ultima volta sarà caro ed affollato. La strada è però bella, non priva di buche ma bella. Il panorama è costellato da enormi falesie e pinnacoli di roccia.

La notte a Gao è breve. Dormiamo poche ore e male; attorno alle tende si aggirano nelle tenebre dei curiosi che con i loro passi ci mettono continuamente in allarme. La mattina, stanchi riprendiamo il nostro viaggio. Adesso andremo fino a Niamey, capitale del Niger, costeggiando il grande fiume per centinaia di chilometri.

L’asfalto diventa in breve un caro ricordo e la pista si trasforma in una strada spacca ossa e spacca macchine. Sarà una giornata estremamente dura e faticosa ma ancora non lo sappiamo e ci lasciamo rapire dagli splendidi panorami che ogni tanto ci offrono le anse del fiume Niger.
Le acque del fiume Niger sono piatte, placide e maestose, formano lagune pullulanti di vita.
Ogni cinque minuti il soldato Diego estrae la sua artiglieria; composta da un teleobbiettivo che è un cannone lungo un metro. Da dietro lo vedo uscire dal finestrino del Defender, seguo la direzione e vedo magari un minuscolo e per me insignificante uccello. Clic. Catturato. Dove andrai a finire ora?
Estraggo la mia piccola Canon, punto l’uccello, scatto. Riguardo lo scatto in digitale, lo ingrandisco al massimo. Il caro volatile resta sempre comunque una piccola macchia indistinta sullo sfondo. Faccio finta di niente e premo il tasto “delete”.
La strada è un delirio, i villaggi che passiamo sempre uguali, le persone ci dicono sempre la stessa cosa “va bene così. Siete nella direzione giusta”.
La frontiera Con il Niger è talmente imponente, talmente maestosa e vistosa che nemmeno la vediamo.
Un giovanissimo poliziotto ci insegue in motorino per le strade sabbiose e ci redarguisce :”perché non vi siete fermati al posto di controllo?”
Non l’abbiamo visto. C’era solo una baracca appoggiata ad un gruppo di acacie e basta.
Torniamo in dietro.
Stringiamo le mani a tutti, poliziotti, gendarmi, doganieri, amici dei poliziotti e cugini dei gendarmi, gente di passaggio e persino ai bambini.
La farsa dei timbri ricomincia, dura circa un’ora e poi finisce come sempre. Ci si saluta, tutti come al solito ci augurano buona fortuna e ci dicono che la strada più avanti migliora.
Sempre, per tutta l’Africa, donne e bambini, bianchi e neri, vecchi e giovani, ci diranno che più avanti la strada migliora, più avanti la strada è una favola. Pas de probleme. In realtà per altri diecimila chilometri le strade peggioreranno sempre più, sino a scomparire in Congo ed in Angola. Comunque pas de probleme. Siamo dentro a due Defender.
Le buche, i dossi, i ponti crollati e le pozze di sabbia sembrano non finire mai.
La bagagliera di Diego si sfonda, il suo carico passa nella mia macchina, il mio ammortizzatore si spezza, la mia bagagliera cede, il mio carico passa sulla sua macchina; cinghie ovunque che non riescono a tenere assieme niente. Tutto quello che c’è in macchina cambia posizione, crolla, rotola, si rovescia e si apre. Il frigo mi finisce sulla spalla, la torcia ed il cappello scompaiono fagocitati dalla fessura dietro al sedile, le taniche sbattono e le cassette dei ferri vibrano come corde tese. La polvere si alza al nostro passaggio, chiudiamo i finestrini, ma ad ogni sussulto si alza anche quella che si è depositata in macchina.
Un velo di polvere copre le lenti degli occhiali da sole, ci copre le mani ed i piedi. La polvere dell’Africa stà facendo il suo lavoro, si sta insinuando ovunque. Tra vent’anni, smontando un pezzo di questi Land Rover, troveremo uno strato di polvere marrone coperto da uno strato di polvere rossa.
La polvere entra anche in bocca, la senti sotto i denti, entra nelle orecchie e negli occhi.

Di notte arriviamo a Niamey, capitale del Niger. 
Qui troviamo il Camping Touristique, grande come due campi da calcio e vuoto come una città abbandonata.
Qui ci sono le docce fornite di zanzare. Ti lavi i capelli e ti gratti le caviglie.
Diego in accappatoio appare e scompare tra le ombre, sembra un piccolo Tyson bianco o uno Sherlock Holmes senza pipa.
Dietro alle auto c’è una siepe, davanti un albero e sopra le stelle.
Ogni tanto dalla siepe spunta qualche scuro figuro di cui, nell’oscurità vediamo solo gli occhi ed i denti bianchi come la neve. Qualcuno si offre come guida, qualcuno come lavandaia.
Mangiamo in una specie di ristorante, carne e patate. In Africa non si mangia altro, poca carne un po’ di patate e quintali di manioca. Birra e Lariam. Domenica sera appuntamento settimanale con il signor Lariam, vincitore di tante e tante guerre contro le zanzare. Nemico del fegato ma amico dei viaggiatori, unico vero rimedio contro la malaria.
Il giorno dopo passiamo la giornata a riattrezzare e pulire le macchine.
Togliamo tutto da dentro ai Defender, come due pazzi parliamo di pesi e misure e ci scambiamo oggetti inutili che trasporteremo fino in fondo all’Africa. Oggetti come una saldatrice, un generatore, un compressore, trenta camere d’aria, cinque tubi di silicone, seghe e martelli in grande quantità, chiavi inglesi,  pinze ed attrezzi con i quali si potrebbe smontare e rimontare un intero grattacielo.
Abbiamo così tanta roba che tre o quattro passanti ci vengono a chiedere se siamo commercianti. “No” gli rispondo “siamo degli occidentali spaventati, e tutto questo ben di dio ci aiuta a far fronte alle nostre paure.”

Mi giro, mi accuccio per prendere qualcosa ed il mio sguardo si posa sulle mie paure più profonde. La paura oggi si materializza sottoforma di un ammortizzatore spezzato in due. Mi cade il mondo addosso. Ora ho la certezza che non arriveremo mai da nessuna parte, forse non riusciremo mai più nemmeno a tornare a casa. Dio ci ha puniti, la sorte ci è avversa, qualcuno ci ha lanciato una maledizione; perché ci siamo cacciati in questo casino? Chi ce lo ha fatto fare? Come faremo adesso? Maledetto Diego che mi ha chiesto di attraversare l’Africa, maledetto me che ho detto subito di si. Maledette auto scassate e maledetta la società che ci ha cresciuti. 
Chiamo Diego ed in trenta secondi di discussione il problema si ridimensiona: abbiamo un ammortizzatore rotto. Tutto qui.
Smontiamo l’ammortizzatore e con questo in mano affrontiamo la grande e pullulante di vita, Niamey.
Mi piace pensare a noi due, armati di un ammortizzatore spezzato che affrontiamo il caos di una ribollente capitale africana alla ricerca di un pezzo di ricambio. 
La ricerca dura poco. Non faccio in tempo ad andare in strada che gia un signore si avvicina e richiede che se per caso ho bisogno di qualcosa di simile a ciò che ho in mano, lui sa dove trovarlo. 
Una corsa in taxi, una mancia alla mia guida e mi ritrovo in una via di minuscoli rivenditori di pezzi di ricambio che sembra non facciano altro che vendere ammortizzatori.
Da ogni baracca, da ogni viuzza o anfratto, salta fuori qualcuno con in mano uno o due ammortizzatori gialli, non importa se da camion o da bicicletta, per tutti il fattore distintivo è il colore.
La ricerca è quindi breve, la scelta di quello giusto un po’ più lunga e la contrattazione per il prezzo interminabile.
Ritorno alla macchina con due ammortizzatori neri nuovi fiammanti. Uno solo non me lo volevano vendere. L’uomo non può dividere ciò che Dio ha unito.
Auto a posto, ordine ritornato e birra ghiacciata.

Quando eravamo ancora a casa un medico italiano ci disse che la strada Niamey Zinder è lunga circa mille chilometri, asfaltata in modo decente e si può fare in un giorno. Dopo cinquemila chilometri di Africa non credi più nemmeno alle cose che dici tu, figurati a quelle che ti raccontavano quando ancora dovevi partire.
Ma questa notizia si è dimostrata esatta. 
In un giorno, in realtà lunghissimo, siamo arrivati a Zinder. Dicono che da qui in poi non ci sia più nulla.
La strada è lunga, piatta, tutta sempre uguale.
I villaggi adesso sono ancora più arretrati, non ci sono più lamiere a coprire le abitazioni ma solo paglia e fango secco. Siamo nel Sahel. Nemmeno la gioia di una duna di sabbia.
L’Harmattan spazza incessantemente la terra brulla e desolata creando una perenne foschia fatta di polvere e sabbia. Si respira male, si tossisce in continuazione ed il sole è perennemente offuscato dalla polvere. Assieme alla Mauritania il Niger è la terra più inospitale che abbia mai visto. Più a nord dicono che sia anche peggio.
Ma la gente è straordinariamente gentile, disponibile ed ospitale.
La povertà e la disperazione incombono ovunque come la nube di pulviscolo sollevata dall’ Harmattan. 
Qui la gente non ti dice che è povera ma ti chiede se hai bisogno di qualcosa, la gente non ti dice che stà male ma ti chiede se tu stai bene. 
Gli uomini che incontriamo sono forti, hanno la pelle cotta dal sole e gli occhi dolci e buoni. Le persone in Niger ti lasciano un groppo alla gola. Il Niger non è niente, è un ritaglio di deserto, piatto, vuoto e senza punti di riferimento; i suoi abitanti lo trasformano in una nazione, in un paese vero ed ospitale.
Fare mille chilometri in un giorno osservando sempre lo stesso panorama serve a dare la misura di quello che stai facendo. Correre nel vuoto.
Non molto lontano da Zinder il panorama cambia. Il terreno piatto si copre gradualmente di acacie africane, sempre più fitte. La terra si copre di un sottile strato di erba secca. Così, il deserto si trasforma in savana ed i nostri pensieri cambiano assieme al panorama. Torno a pensare, per qualche ora, che ce la possiamo fare. Forse possiamo arrivare al fondo di questo sterminato continente.
Dal CB la voce di Diego mi spiega che gli alberi che vedo sono le acacie africane e quelli meno numerosi ma più grandi sono Baobab. Ogni uccello che ci passa accanto è immancabilmente seguito dal gracchiare del CB e dalla voce di Diego che me ne dice il nome, me ne racconta i comportamenti e me ne spiega le particolarità. Peccato che io sia di memoria breve, peccato che mi dimentichi in fretta i nomi.
Però i colori di quegli uccelli ed il loro modo di volare resteranno per sempre nella mia mente e se ne dimenticherò i nomi non sarà certo un problema. Terrò per me il loro ricordo senza raccontarlo a nessuno.

Il procedere è un continuo rallentare e fermarsi, alternando soste per fare foto e soste ai controlli di polizia. Quando ci fermiamo a fotografare vedo uscire dal finestrino della macchina di Diego il suo cannone al plasma che ruota su se stesso e scatta, scatta, scatta senza tregua.
Quando ci fermiamo ai posti di controllo vedo avvicinarsi visi cupi e poi la mano di Diego che esce dal finestrino e stringendo quelle dei poliziotti, trasforma i loro volti in un unico grande sorriso.
Prezioso insegnamento quello che mi ha fornito il nostro piccolo Maradona, il nostro “Diego da Gama” come verrà chiamato più a sud.
Ogni santa volta che abbiamo incontrato qualcuno Diego gli ha stretto la mano ed io l’ho imitato. Non so perché, ma l’atteggiamento nei nostri confronti cambiava in un lampo. I gendarmi, i poliziotti, i doganieri o i funzionari diventavano più gentili e disponibili.
Sarà mai che nel mondo esista una specie di razzismo nei confronti di uomini di razza diversa? Sarà mai che un nero africano non è abituato a ricevere strette di mano e pacche sulle spalle da uomini bianchi? Sarà mica che l’uomo bianco non abbia piacere di avere un contatto fisico, di toccare un uomo nero?
Ma no, è impossibile, come fanno a venirmi in mente cose di questo genere? Siamo nel ventunesimo secolo, mica nel quattrocento.
Fatto sta che ogni poliziotto o funzionario che abbiamo incontrato, in un modo o nell’altro alla fine si è reso disponibile e ci ha aiutato a proseguire il viaggio verso il centro della sua terra, ci ha permesso di giungere fino al cuore nero della sua grande madre. Queste persone ci hanno aiutato e sorriso. Ci hanno accettato. Eravamo nelle loro mani e mai ne hanno approfittato più di quello che noi gli abbiamo permesso.

Lasciamo Zinder, una delle tante “porte del deserto” che coronano il limitare del grande Sahara.
La strada per Diffa è allucinante. Spesso in Africa è meglio avere a che fare con le piste piuttosto che con l’asfalto. L’asfalto, quando non è sotto costante manutenzione si sgretola creando dei passaggi tremendi.
Si sobbalza, le giunture delle ossa e della macchina scricchiolano.
Siamo di nuovo in mezzo al deserto, dobbiamo coprire una distanza di circa ottocento chilometri entro sera.
Spesso l’asfalto è talmente malridotto che siamo costretti a procedere a bordo strada con la macchina pericolosamente inclinata.
Da dietro osservo il Land Rover di Diego che sbatacchia da una parte all’altra, vedo i pezzi della sua bagagliera che vibrano e poi ogni tanto si spezzano. Quando ci fermiamo i quaranta e più gradi ci opprimono. Ogni cinquanta chilometri ci fermiamo per riassestare la bagagliera di Diego. Metri e metri di cinghie sono costrette a fare il lavoro dei tubolari di ferro. Siamo quasi decisi ad abbandonare la tenda e tutto il resto per cercare di arrivare a Diffa.
Ma poi, l’Africa insegna: “tout c’est possibile an Afrique”.
Otto, nove , undici ore dopo arriviamo a Diffa. Siamo riusciti ad attraversare altri mille chilometri di terre infuocate, di asfalti bollenti e di totale solitudine. Non un paese, non una persona. Questi mille chilometri li abbiamo fatti “all’africana”, i pezzi delle auto sono stati tenuti assieme non dalle saldature ma dalla forza di volontà. Noi abbiamo continuato spinti non dalla voglia di arrivare ma costretti dal non poterci fermare.
Abbiamo fatto gli ultimi trecento chilometri conciati come un vecchio Conestoga del Far West. Cigolanti e traballanti carichi di cose in equilibrio precario, coperti di polvere all’inverosimile e stanchi, sporchi e sudati.
Il momento più tragico è stato senz’altro l’attacco da parte di un gruppo di pellerossa armati di Winchester. Sono scesi dalla collina come diavoli rossi, sparando all’impazzata ed urlando come demoni. Ci siamo salvati solo grazie.......
Ma cosa stò dicendo? Guardo il termometro, quarantacinque gradi. Ecco il problema, il caldo ci fa delirare.
Abbiamo quasi pensato di abbandonare parte del carico, abbiamo di nuovo pensato che alla fine del nostro viaggio non ci saremmo arrivati mai. Il Chad, il Sudan, le guerre, il deserto. La sete.
Stavamo andando incontro ad un fallimento. Eppure non ci siamo fermati.
E Diffa è arrivata, come un miraggio, come un sogno, come una città invisibile nata dalla sabbia ci ha accolti silenziosa e placida, calda e deserta.
A Diffa non c’è niente. A Diffa c’è tutto. Come posso spiegare quello che a Diffa c’è e quello che non c’è?
Diffa non ha uno stadio da centomila posti, non ha un casello autostradale ad elevata automazione e nemmeno una chiesa che ad una chiesa assomigli. Diffa non ha un centro e nemmeno una fine. Ora sei seduto sopra ad un muretto di fango ed un secondo dopo sei con il sedere sulla sabbia. Le ragazze che camminano per Diffa sono bellissime, nere come la veste di un prete, eleganti e sinuose come modelle. Hanno vestiti sottili e lunghi ed occhi grandi come mele. Hanno scarpe con i tacchi ma le tengono in mano per non farle affondare nella sabbia.
I ragazzi sono magri, puliti ed ordinati. Hanno una camicia, la religione ed un amico prete.
A Diffa c’è qualche albero e nemmeno un filo d’erba. A Diffa c’è un cortile dove mettere le tende e c’è un uomo che possiede sia un saldatore che una saldatrice. A Diffa puoi comprare l’acqua.
Tutt’attorno a Diffa ci sono chilometri di spazzatura, di sacchetti di plastica impigliati nei bassi arbusi secchi; a Diffa non hanno un museo delle cere e nemmeno la metropolitana. A diffa c’è un camion che trasporta persone come fossero sacchi di patate.

A Diffa c’è un bivio che divide in due tutta l’Africa.
Se giri a sinistra costeggi il lago Chad, attraversi una frontiera fatta di dune e poi c’è il Sudan con la sua sporca guerra, con i ribelli, i militari ed i morti e poi il Kenia e la Tanzania.
Se giri a destra ti bastano cento metri per entrare in Nigeria. Se giri a destra c’è il deserto infuocato che circonda Maidougouri. Ci sono le città più corrotte del mondo, le impenetrabili foreste del Camerun, il cuore nero dell’Africa che si chiama Congo e la interminabile guerra angolana.

Non so ancora se la nostra scelta sia stata dettata  dalla ragione o dal sentimento, dalla paura o dal coraggio, dalla voglia di arrivare o da quella di non arrivare mai.

Qualcuno salda le nostre bagagliere e noi scegliamo.

La frontiera tra Niger e Nigeria è uno scherzo. In realtà un posto del genere non può esistere. Un omino gentile ci ferma per rilasciarci i visti di uscita dal Niger. “ Prima però andate a piedi di là dal ponte a vedere se vi fanno entrare”. Attraversiamo la frontiera a piedi con le valigette piene di documenti. Sembriamo due impiegati che vanno al lavoro. 
Ma dove siamo?
Cento metri dopo nessuno parla più una sola parola di francese. Qui siamo in Nigeria, qui si parla inglese, si misura in piedi e pollici e si pesa in libbre e galloni. I militari hanno divise che somigliano troppo a quelle del Desert Storm, hanno cappellacci da cow boy e masticano chewingum anche quando non ne hanno. Dicono OK anche quando non sono d’accordo e ci guardano sprezzanti. Ad occhio e croce direi che gli americani non siano mai passati di qui.

Per noi la Nigeria è una specie di incubo fatto di velocità sulle strade e lentezza burocratica negli uffici. Ore ed ore di contrattazioni alla frontiera, decine se non centinaia di posti di blocco, il traffico infernale di Maidougouri; gli allucinanti uffici della città. Uffici che nemmeno Calvino e Buzzati sarebbero in grado di immaginare. Un labirinto di impiegati impegnati a fare niente e ligi solo al dovere di rispettare l’orario di chiusura. Dormiamo in una stazione di polizia. Giriamo per la città alla ricerca degli impiegati che ci facciano le pratiche. Tutto sotto scorta armata. Un militare ha i nostri passaporti e se li tiene ben stretti in tasca. Dopo trenta ore riusciamo ad ottenere un visto provvisorio di 6 (sei) ore per lasciare il paese. Il nuovo militare che ci scorta ci dice di sbrigarci. Inizia una corsa contro il tempo. In sei ore dobbiamo finire le pratiche, fare gasolio in una nazione dove non se ne trova, uscire dal traffico cittadino e fare trecento cinquanta chilometri fino alla frontiera con il Camerun.
Ci riusciamo. Siamo in frontiera pochi minuti prima che scada il visto. 
L’allucinante personaggio che ci accoglie ha le fattezze e la voce di B.B. King. Sa che entro pochi minuti il nostro visto scade. Sa che se un visto scade bisogna tornare in città per averne un altro e poi tornare lì per farsi fare il timbro di uscita. Ne approfitta e ci chiede una grossa cifra come compenso per il suo lavoro. Lo fa propinandoci un lungo pistolotto morale in cui spiega che se un nigeriano si presenta in Italia senza visto nemmeno lo facciamo entrare. Io gli rispondo che se un nigeriano si presenta in Italia senza visto poi in Italia ci si vuole fermare a vivere. Noi invece dobbiamo solo passare. 
Diego mi dice di farla finita, che è meglio contrattare la cifra. 
Allo scadere delle sei ore consegnamo l’enorme cifra di cento dollari e ci incamminiamo verso gli uffici camerunesi con un nuovo bel timbro stampato sui passaporti.

Ci sembra di entrare nell’Africa nera, quella che fa parte del nostro background, quella delle foreste, della madre di tutti i Fiumi, quella dei leoni e dei gorilla. Ci stiamo entrando veramente, ma per incontrare la foresta e la rossa terra d’Africa ci vorranno ancora centinaia e centinaia di chilometri. Nel nord del Camerun rimaniamo bloccati per tre giorni a Marua. Il funzionario che ha finito il turno il giorno prima è andato in ferie portando con se il timbro che ci serve. Scortati da un militare che rimarrà con noi e pagato da noi per tre giorni, cerchiamo il funzionario con timbro in ogni dove: a casa sua, nell’altra caserma, a casa di sua moglie, nei bar e presso gli amici. Niente non si trova. Aspetteremo il lunedì.
A Diego piace il calcio. A me non piace il calcio. In Africa, durante la coppa d’Africa  o guardi il calcio o guardi il calcio. Puoi scegliere.
Ma è bello guardare Costa d’Avorio-Camerun standosene seduti sotto ad un telo bevendo Guinness calda. È una cosa così bella che non si può immaginare.
Per tre giorni mangiamo carne, patate e manioca al Baobab, seduti a tavoli di legno e serviti da un cameriere in livrea. Il tutto al costo di un panino seduti in una puzzolente via di Milano. Qui la birra è sempre ghiacciata e le sedie comode.
Mi sento stanco, molto stanco. Forse qui ci siamo rilassati troppo. 
Facciamo aggiustare il tubo dei freni del mio Land Rover visto che guidare senza freni in Africa è un’esperienza che non vorrei dover ripetere.
Lunedì riusciamo ad avere il timbro sul passaporto.
Un momento prima di apporre il tanto atteso timbro, il funzionario di polizia si ferma e ci guarda negli occhi: ”Vi pare giusto che in Europa facciate vignette e magliette che sbeffeggiano apertamente il nostro Dio?” Noi strabuzziamo gli occhi, non abbiamo la più pallida idea di che cosa stia dicendo quest’uomo di fronte a noi.
Lo scopriremo qualche giorno dopo. Tre giorni dopo aver lasciato 
Maidougourì in questa stessa città si scatenerà l’inferno. Una violenta 
caccia al bianco ed in particolare all’italiano, causerà decine di vittime. 
Il tutto a causa dell’assurda ignoranza di un ministro italiano. Penso che hai nostri politici tutti, dovrebbe essere imposto un viaggio di almeno un mese in un paese del così detto “terzo mondo”. Un viaggio che gli apra gli occhi e che li sollevi, almeno in parte, da quel baratro di ignoranza in cui sono immersi, un’ignoranza che diventa ogni giorno più pericolosa per tutti noi.

Gli ultimi giorni li abbiamo passati a confrontarci con funzionari corrotti, con un sistema che si basa su di una corruzione non legalizzata, con un sistema che cerca di spillarti quattrini pochi per volta, ne dai un po’ ad uno ed un po’ all’altro ed alla fine tutti ne hanno avuto un po’. 
Ma noi ci siamo abituati, a noi in Italia ne chiedono, di soldi, tanti tutti assieme e poi li ridistribuiscono tramite stipendi e liquidazioni e di nuovo tutti ne hanno avuti un po’. 
Almeno qui la questione è diretta. Nessuno gioca a scarica barile, nessuno demanda qualcun’altro di prendere i soldi, dargli una bella mischiata e poi consegnarglieli direttamente sul conto. 
Qui sai che la persona che hai davanti ti stà chiedendo del denaro che in realtà non saresti tenuto a pagare, così dopo un’ora di contrattazioni ci si guarda negli occhi ed i soldi passano di mano. Tu sai che con quei soldi il funzionario che hai di fronte riuscirà a vivere un po’ meglio e lui, soprattutto, sa che vivrà un po’ meglio grazie hai tuoi soldi.
Alla fine quindi ci si sorride, ci si stringono le mani e noi si riparte. Verso sud. Giù, sempre più verso il cuore dell’Africa e del mondo.

La foresta arriva di soppiatto, manda prima qualche albero esploratore, poi qualche contingente di felci, poi arrivano i primi rampicanti e poi ti esplode addosso. Ti abbaglia e non è un trucco, non si nasconde, si fa vedere in tutta la sua forza selvaggia ed irraggiungibile. La strada è di fango rosso ed è un serpente infinito adagiato sulle asperità del terreno, gli alberi sono alti cinquanta metri, i tronchi larghi due metri e tra i loro fusti ospitano muri di verde che invadono tutto. La foresta è impenetrabile, disarmante, spaventosa ed opprimente. La foresta è un cuore verde immenso, più grande dell’Europa tutta, che respira e vive come un grande animale, che pulsa come un cuore. La foresta Centroafricana è lì per nascondere tutti i segreti che il nostro mondo vuole celare. La foresta è la casa degli spiriti, il posto dove si rifugiano i disperati per non farne mai ritorno. La foresta è il labirinto in cui si cela disperato e furente il Minotauro. Dietro al muro verde si cela l’uomo nero, custode involontario di tutte le nostre paure, amante sadico ed amico perverso. La foresta è lì per farsi depredare di legno e per nascondere il caos con cui non riusciamo a fare i conti.

La strarda  per Yaundè è lunga ed impossibile. 
Uno sterrato massacrante invaso dal fango e dalla vegetazione, frustato dalla pioggia ed oppresso dalla polvere. La strada in molti tratti è larga quanto basta per far passare le macchine, la vegetazione invade la carreggiata, gli specchietti sbattono continuamente contro alle piante e le teste degli  abitanti della foresta spuntano dalla vegetazione come noci di cocco spelacchiate.
Ti senti oppresso, smarrito, allucinato. Una curva ne scopre cento nuove, un raro cocuzzolo libero da alberi ti catapulta in un mare infinito di verde e leggera nebbia.
Diego davanti a me guida come se fosse posseduto da un demonio. Scompare alla mia vista, non risponde più al CB, torna indietro a cercarmi, riparte e scompare di nuovo.
Io rallento sempre più, sono drogato di ossigeno ed anidride carbonica, di pollini e di stanchezza. Sono terrorizzato dalla visione di questo immane labirinto verde che non finisce mai, rallento, voglio che tutto questo mi resti impresso non solo nella mente ma anche negli occhi, voglio fare in modo che tutto questo non finisca mai, voglio che la paura di questo posto mi assalga ma non trovi terreno fertile per far crescere i suoi disperati figli. 
Diego torna ancora, invasato, deciso, allucinato e determinato. Stiamo guidando da dieci ore e la strada continua a peggiorare. Ora siamo immersi in una nuvola di polvere che aumenta e diminuisce ma non scompare mai.
Dall’alto Dio con le sue manone sposta le cime degli alberi per scovarci e trarci in salvo ma non ci trova, siamo troppo giù, la foresta è troppo grande e profonda.
All’imbrunire cominciamo ad incontrare immensi camion, mostri che sembrano usciti da Mad Max, attrezzati con bull bar che pesano una tonnellata ed ingabbiano l’intera cabina nella quale diavoli neri guidano a cento chilometri all’ora.
Scende la notte, noi non scendiamo mai sotto ai settanta all’ora. Più di una volta le macchine si staccano dal suolo per atterrare metri più in là. Perché non rallentare? Non lo sappiamo. Abbiamo sicuramente paura. La polvere che i camion e la macchina di Diego alzano ci impedisce di stare abbastanza vicini da poter comunicare tramite CB. I tergicristalli sono sempre in funzione per spostare la polvere rossa ed appiccicosa che si accumula sui vetri. L’interno delle macchine è rosso, sento la polvere sul volante, sulla faccia e sui vestiti.
I villaggi che incontriamo durante la notte sono gli stessi che abbiamo passato durante la giornata. Sono decine e decine sempre tutti uguali. La gente che di giorno era amichevole e disponibile diventa sinistra e sospettosa. Il buio nella foresta fa paura anche a chi ci vive e sicuramente per loro l’uomo bianco diventa l’uomo “nero”, il nemico dal quale guardarsi e del quale diffidare.
I camion che incrociamo non si spostano, non rallentano, non abbassano i fari. Per loro questa, come le altre è una notte di gare, di scommesse.
Ogni volta che incontro un camion devo rallentare e cercare di uscire di strada il più possibile. Il camion passa. Mi fermo, aspetto che la nuvola di polvere si diradi quel tanto che basta per riuscire a ripartire.
Quando nello specchietto retrovisore vedo arrivare due fari aspetto un pò e poi faccio lo stesso: accosto, mi faccio piccolo ed accendo tutte le luci che posso per farmi vedere. Il mostro di acciaio carico di tre giganteschi tronchi mi supera ad un centimetro di distanza. L’auto sobbalza ed io aspetto ancora che la polvere si diradi. In questo modo guidiamo tutta la notte, in un incubo di polvere e velocità.
Dopo dodici ore di guida assurda incontriamo un immenso piazzale con una specie di baracca-bar dove si ritrovano i diavoli che guidano i mastodonti carichi di legna. Lì, sapremo poi, si organizzano le gare, si fanno le scommesse e si contano i morti.
Poco dopo incontriamo il santo e benedetto asfalto.
Diego mi precede, ben visibile attraverso le mezze lune disegnate dai tergicristalli nella polvere che ricopre il vetro.
Le comunicazioni via CB riprendono, ci sentiamo sollevati, sappiamo che tra poche ore saremo in una città. In una capitale.
Viaggiamo lisci e sicuri a centoventi all’ora. La velocità non riesce a staccare la polvere dalle macchine. Non saprei come descriverla, è una polvere appiccicosa, una polvere che dopo che si è depositata diventa umida, si appesantisce. Alla fine ti senti coperto come da un sottilissimo strato di fango. Alla fine la foresta ti ha cambiato il colore, sembriamo fatti di terra rossa. Il cambio ed il volante mi scivolano dalle mani ed i pedali dai piedi. Ma ormai siamo arrivati.

Yaundè ci sembra immensa, con le sue migliaia di luci e le sue strade. Una città capitale nata nella foresta. Tutto quello che c’è qui ci è arrivato tramite strade distrutte, fangose, dissestate e polverose. Non sembra possibile che qui ci siano dei palazzi. Ogni mattone, ogni tegola o chiodo per arrivare qui deve aver compiuto un viaggio allucinante come il nostro.
La nostra camera d’albergo è afosa, sporca ed abitata da gechi e scarafaggi. Il bagno sporco e puzzolente ed il parcheggio poco sicuro. Dormiamo solo qualche ora, cerchiamo di lavarci di dosso la rossa polvere ma in realtà per giorni ancora, sotto alle docce, il nostro corpo produrrà rigagnoli rossi.
La mattina dopo giriamo per la città alla ricerca di una sistemazione appena più accettabile, soprattutto di un posto con un cortile custodito dove svuotare e lavare le macchine, fare delle piccole riparazioni e riorganizzare le attrezzature e la mente.
Diego si rilassa, ride sempre, la tensione lo ha abbandonato. Io dopo cinque ore in città vorrei essere di nuovo in viaggio.
Yaundè ci ospita per tre giorni nei quali mangiamo al ristorante, beviamo birra la sera e giriamo per ambasciate durante il giorno.
L’ambasciata del Gabon ci concede il visto ma non il permesso di entrare dal loro cancello perché risultiamo troppo poco eleganti per presenziare in un ufficio consolare. Io ho jeans e maglietta e Diego pantaloni corti e camicia. Maledizione a noi, nella fretta della partenza abbiamo dimenticato i vestiti da cerimonia. 
I funzionari dell’ambasciata del Congo Brazzaville sono meno pretenziosi per quanto riguarda l’abbigliamento ma più esosi nella richiesta di “mance”.
L’ultima sera a Yaundè beviamo litri di birra ghiacciata e poi la tensione dei giorni passati si allontana lasciandomi vuoto e stremato.
Camminiamo nella notte del Camerun, stanchi ed ubriachi, arriviamo all’albergo. Diego è più lucido, più vigile. Più attivo.
Io crollo sul letto caldo, immobile mi addormento nell’aria spessa e bollente. Il ventilatore sposta masse di aria calda e la finestra è solo un buco tra due atmosfere identiche.
Caldo. Umido. Opprimente.

Improvvisamente un taxi ci scarica all’ingresso di un locale la cui insegna fatta di fuoco dice “Nel Cavo dell’Albero” e sotto: “bentornati”.
Qui tutti parlano un italiano forbito ed educato. La porta d’ingresso è piccola, il soffitto del locale basso ma la pista da ballo è immensa. Un barista nano ci serve cocktail giganti ed un enorme buttafuori in smoking ed 
auricolare ci porge i suoi omaggi: ”Bentornati!”
Questo locale è così bello che è impossibile che sia qui. Il gigante buttafuori  schiocca le dita e nel locale cominciano ad entrare veneri nere di tutte le forme e dimensioni che riempiono il locale e ballano come ossessi, come serpenti. Ci passano accanto, ci accarezzano e graffiano con le loro squame. Ci curano le ferite con strani unguenti. Diego viene avvolto dalla donna serpente che lentamente lo trascina sottoterra.
Io vengo risucchiato in alto, portato in un enorme letto e poi attaccato da una donna nera con le mani piene di terra. Cerco di difendermi ma la sua bocca è troppo grande e le sue braccia troppo lunghe.

Mi sveglio di soprassalto nel letto. Diego dorme come un sasso. Io sono sudato come un animale, mi alzo, mi accendo una sigaretta e vado a guardare fuori dalla finestra. La città pullula di gente che cammina, che dorme nelle aiuole e che passa in bicicletta.
Perché l’Africa fa così paura? Perché attrae così tanto? Respiro il suo odore umido, il suo odore che di notte si fa più intenso. Anche anni prima in Malawi avevo gli incubi. Mi dissero che erano un effetto secondario del Lariam. Non solo, mi dissero che il Lariam può anche agire sulla psiche facendo in modo che il sogno, l’inconscio si mischi con la realtà, disturbando la personalità di chi lo assume.
Ho scoperto che non è il Lariam. È l’Africa che fa questo effetto. È l’Africa ad essere talmente vera che a noi a volte sembra impossibile e non ci vogliamo credere.

Lasciamo Yaundè scortati da un tassista che guida la carovana facendosi spazio a gomitate tra le migliaia di taxi gialli che infestano la città come fossero cavallette.
Per tutta la giornata guidiamo su asfalti più che decenti, mangiamo uova sode e pane nei chioschi che troviamo per strada e utilizziamo i cellulari che hanno ripreso a funzionare.
Acquistiamo due machete e sgominiamo una banda di benzinai truffatori, affrontiamo la dogana con il Gabon in modo egregio, non certo grazie a noi ma all’accuratezza e precisione dei funzionari gabonesi secondo i quali ad ogni CFA che esce dalle nostre tasche deve corrispondere un documento che  ne dimostri l’entrata effettiva nelle casse dello stato. Così finisce che questa sfilza di documenti si dimostra una delle più simpatiche e parossistiche documentazioni che mai una mente possa immaginare. 
Timbri a non finire, firme con svolazzi apposte in ogni dove, stampati riempiti a penna, documenti scritti a mano e poi completati con la macchina da scrivere. E così via. Pezzi preziosi da aggiungere alla collezione che questi due disperati stanno facendo svolgendo egregiamente il difficile compito di dimostrare che l’Africa si può attraversare senza visti “acquistati” a carissimo prezzo in Italia e senza il Carnet de Passage (documento assolutamente inventato e carissimo che obbliga tra l’altro ad avere una fideiussione bancaria per decine di migliaia di Euro, il tutto per mettere al sicuro lo stato italiano dalla malaugurata ipotesi che a te venga voglia di venderti la macchina che so, in Congo, senza pagarne il giusto “pizzo” all’agenzia delle entrate).
Il Gabon è il più ordinato ed organizzato degli stati che fino ad ora abbiamo incontrato. Le strade sono asfaltate, i locali hanno le porte, i poliziotti divise complete ed esistono cartelli con le indicazioni delle località e qualche volta quelle delle distanze.
La strada scorre liscia.
Ma alla fine anche il Gabon cede alla confusione africana. Molto prima della frontiera con il Congo Brazzaville la strada si fa piena di buche e l’asfalto, poco alla volta scompare. La terra rossa ed il verde quasi acido della vegetazione prendono nuovamente il sopravvento.
Fossi e buche riempiono nuovamente la nostra giornata ed una missione ci accoglie per la notte. Una suora sudamericana ci accoglie con gentilezza e curiosità. “Ma davvero siete arrivati fino a qui in macchina? Incredibile.”
Si fanno due chiacchiere a proposito dello scopo umanitario della nostra missione: a quale missione stiamo portando aiuti, in quale forma, quali sorelle si occupano di questa missione e così via.
“Portiamo aiuti economici” dice Diego “direttamente alla missione, così che niente vada perso per strada come spesso succede. Li portiamo in contanti e sul posto faremo in modo che vengano spesi in strutture che non possano poi essere destinate ad altri scopi.” Tutto questo Diego lo spiega alla suora in un francese-africano che è talmente maccheronico da diventare comprensibile a tutti. A me, in Africa, succede la stessa cosa, il mio francese peggiora gradualmente sino ad arrivare alla fase in cui riesco a dire quasi tutto ciò che voglio facendomi capire da chiunque. Nasce una stupenda alchimia di parole, suoni e gorgheggi, espressioni e gesti che 
farebbe sorridere un professore della Sorbona ma che ci fa ottenere visti, documenti, ospitalità ed informazioni nelle situazioni più disperate ed 
improbabili.
Diego, parlando alla suora, si scusa più e più volte del suo “orribile française” e lei dopo un po’ esclama: “Stai tranquillo, il tuo francese va benissimo e poi sei arrivato fino a qui in macchina. Ora puoi dire quello che vuoi.” Diego si gonfia come un pavone ed io faccio fatica a non spiegare le mie piume più colorate.
Sembra poco, ma è un grande complimento, fatto da una persona che sa dove siamo e con quali fatiche ci siamo arrivati. Non è solo vanto, è qualcosa che ci da forza e coraggio per proseguire.
Scende la notte ed io ne passo mezza seduto su un water coperto da una lamiera sulla quale la pioggia scroscia violenta.
Intanto Diego dorme con i gechi e le zanzare.
L’indomani la strada riprende. Andiamo verso una nuova frontiera. A mattina inoltrata l’incubo verde della foresta ci assale nuovamente e ci accompagna per ore. Nel pomeriggio la pioggia trasforma la strada in un fiume nel quale i nostri Land Rover procedono a fatica, per metà immersi nel fango e nell’acqua e per metà sferzati dalla pioggia. I finestrini non si possono tenere aperti pena l’allagamento totale delle macchine. 
Il caldo in macchina è allucinante. Il sudore mi impregna la camicia. La levo. Le gocce di sudore scivolano sulle lenti degli occhiali da sole. Li levo. Ho le scarpe marce di pioggia e sudore, le levo. Arriverò anche nudo ma ci arriverò.
Nel pomeriggio il cielo si fa più cupo ma la vegetazione si dirada, appaiono radure e scorci di verdi colline in lontananza. Il Gabon ci prepara agli immensi e superbi panorami del Congo. La sera scende l’oscurità e tornano gli alberi a stringere la strada.
La frontiera di uscita dal Congo non esiste più. L’edificio che ospitava gli “uffici” è stato stritolato dal collo di un enorme albero e le erbacce ed i rampicanti hanno invaso tutto.
Qualche centinaio di metri più indietro scorgiamo una baracca con tre uomini seduti davanti. Li raggiungiamo e chiediamo informazioni. Sono ubriachi fradici, bevono un qualche fermentato strano, sono armati ed ognuno veste un pezzo di uniforme. Uno ha i pantaloni verdi, un altro la casacca ed il più grasso gli anfibi.
“Questa è la dogana”. Ci informano.  
Due o trecento chilometri di foresta e fango. Tre militari ubriachi ed armati che ci devono timbrare i passaporti. Più avanti un altro posto di controllo con più militari, meglio armati e forse più ubriachi e poi chissà quanti chilometri ancora di foresta e fango. C’è da stare tranquilli? Tutto sommato abbiamo raggiunto uno stato di incoscienza tale che ci permette di affrontare la situazione in modo piuttosto brillante. Due parole, due battute e tre o quattro pacchetti di sigarette  e la frittata è fatta. Siamo legalmente usciti dal Gabon. Siamo formalmente entrati in Congo Brazzaville. 
I gabonesi ci hanno descritto più volte il Congo come una terra di selvaggi, come un posto dove le buche per strada sono così grandi da inghiottire una intera macchina. “Fate attenzione, dopo Dolisie la strada è presidiata dai ribelli del P.U.L., se passate di la vi portano via le macchine e forse vi sparano. Fate attenzione.”
Scopriremo nei giorni seguenti che ciò che ci hanno detto è tutto vero tranne il fatto che i congolesi siano dei selvaggi.

Riprendiamo la strada. Siamo incoscienti sì ma la tensione sale. Incontriamo vari posti di blocco. Le divise dei militari cambiano continuamente, così come le loro armi. I fucili cambiano di forma, marca e modello, qualcuno ha delle pistole, qualcuno dei mitra ed i coltelli appesi in vita od infilati negli anfibi si sprecano. Intravedo addirittura un militare armato di sciabola che ci guarda da lontano. Non ci posso credere.
In fine arriviamo ad un posto di blocco più grande, dove vari tipi di militari ci fanno domande, ci chiedono documenti e perquisiscono le auto. Il funzionario della polizia locale è piccolo, magro, con i denti marci ed in bocca quello che sembra un cannone degno di Bob Marley. Questo ragazzo deve aver fumato tanto che gli occhi gli sono diventati gialli. Ci guarda con sospetto. Suda, è visibilmente nervoso, ci fa domande confuse delle quali non aspetta le risposte, fa gesti incomprensibili ai militari che si danno da fare a tenerci sott’occhio ed a verificare che noi non si abbia armi a bordo.
Nella mia auto trovano un telo militare e due sacche dell’esercito comprate ad un mercatino in Italia. 
Nelle loro teste scoppia il finimondo. 
Adesso per loro noi siamo due mercenari. Ci dicono di tirare fuori le armi e di consegnarle loro. Abbozzano qualche domanda per capire se siamo lì per combattere nelle file dell’esercito “regolare” oppure se vogliamo appoggiare i ribelli.
È un incubo. Come fai a spiegare che sei di passaggio in un posto dove non passa mai nessuno, in un posto dove se dichiari che il motivo del viaggio è turismo loro scrivono la parola “turista” sotto la voce “professione”?
È difficile ragionare con questi uomini, isolati dal mondo e in guerra da tutta la vita. Il mio modo di pensare e di agire è lontano dal loro mille anni luce. 
Alla fine dopo un’ora, chissà perché ci lasciano andare. Siamo liberi di proseguire nell’oscurità fino al prossimo posto di blocco. Forse hanno visto che davvero non abbiamo armi, forse si sono accorti che siamo spaventati e non abbiamo il piglio dei mercenari. 
Io credo che a farci uscire da quella situazione sia stato l’intervento di un uomo più vecchio degli altri, qualcuno che nella vita, forse, non è stato solo un militare in guerra. Un uomo che forse ha spiegato loro che esistono persone che non vivono per combattere o per difendersi dagli attacchi degli altri.
La strada continua nella notte, schiacciati dalla foresta e soffocati dal caldo.
Il CB gracchia, Diego parla serio come non l’ho mai sentito: “Portiere e finestrini chiusi, occhi aperti e coltello a portata di mano!” , “OK. Sono pronto!” rispondo.
Cose da non credere. L’Africa, la giungla, la paura ci ha fatti agire come animali. Siamo sporchi, stanchi e sudati, immersi nella notte con un coltello lungo trenta centimetri in mano, pronti ad usarlo. Siamo pronti a tutto. Che altro fare? Passano venti o trenta minuti in cui il caldo ci annienta, in cui gli insetti che entrano dai finestrini ci strisciano addosso leccando sicuramente il nostro sudore salato.
Passiamo in un villaggio immerso nelle tenebre. Un capretto si butta sotto le ruote del Defender di Diego. Due o tre uomini visibilmente ubriachi con in mano bottiglie di wiskey sbucano dall’oscurità e lo fermano.
Mi arresto qualche metro più indietro. Ho il coltello in mano e tutti i fari accesi. Sono pronto a partire di scatto ed investire il primo che cerchi di forzare le portiere del Defender di Diego.
“Cosa succede? Hai ammazzato una bestia? Cosa vogliono?” Nessuna risposta. Poco dopo uno degli uomini, chiaramente il più ubriaco, si fa aprire e sale in macchina.
“Tutto a posto” mi dice Diego.” Il capretto è scappato, questo qui è ubriaco fradicio ma vuole solo un passaggio”. 

Tre o quattro chilometri sono abbastanza per incontrare un nuovo posto di blocco. La tensione è ancora alta.
Ci bastano cinque parole per capire che non possiamo proseguire.
La “stazione di polizia” stà per chiudere ed il capo è già andato via.
Dobbiamo ripresentarci l’indomani mattina. Ma come facciamo a passare la notte in un posto del genere?
Il ragazzo che dice di essere un poliziotto ci spiega che possiamo mettere le tende nel cortile del commissariato. Il commissariato in questione è costituito da quattro muri, un tetto in lamiera ed una porta di legno molto mal ridotta. Il cortile è una spianata di terra e fango circondata da un vecchio steccato alto un metro. Il sedicente poliziotto ci dice che dormire lì è sicuro. Ci fidiamo ma passiamo la notte in bianco. Rumori di bottiglie rotte e liti tra ubriachi ci accompagnano fino al mattino.
Alle dieci il capo della polizia arriva, ci timbra i passaporti e ci saluta.

È una bella giornata, il sole è già alto nel cielo quando lasciamo la dogana. Diego è distrutto, non ha dormito per tutta la notte, lo sento dalla voce. Io sono leggermente più riposato. La notte precedente dopo qualche ora al buio in tenda sono crollato ed ho dormito almeno tre ore. 
La strada continua ad essere sconnessa e piena di buche riempite dall’acqua caduta nella notte.
La vegetazione dirada gradualmente. Nel primo pomeriggio stiamo 
attraversando immense praterie verde smeraldo. Colline piccole come dune, coperte da un soffice manto d’erba, ci accompagnano per centinaia di chilometri.
Sembra un paesaggio irreale talmente è bello e maestoso.
La strada migliora gradualmente fino a trasformarsi in uno sterrato battuto largo cinque o sei metri. Diego riprende animo e ricomincia a scattare foto e filmare ogni cosa che incontriamo.
Vedo il “telecannone” che esce dal finestrino e subito dopo la telecamera. Mi volto anch’io e rimango abbagliato dal verde delle montagne che ci circondano.
Per tutto il giorno le praterie si alternano a scoscesi pendii e piccoli fiumi di acqua cristallina. Sembra di attraversare un paradiso.
Fermi, immersi nell’irreale silenzio saliamo sui tetti delle macchine per scattare foto e filmare ma soprattutto per rilassarci un po’. Non sappiamo come sarà la strada ma sappiamo che Dolisie è ormai vicina.
All’imbrunire siamo già fermi al controllo della Police all’ingresso della città. Ci dicono di andare in centro a farci registrare al commissariato centrale. Un commissariato che in realtà non troveremo mai.
Dolisie, una città bassa, calda, dalle strade fatte di terra rossa. Una città molto vicina all’equatore. Una città che conta circa ventimila abitanti. Il numero di “residenti bianchi” è ventidue. Incredibile. Per caso troviamo una specie di ristorante gestito da un francese che, come spesso capita in centro Africa ci accoglie a braccia aperte e ci fa aprire le tende nel suo 
cortile.
La sera siamo invitati a cena e con noi ci sono praticamente tutti i “ventidue residenti bianchi”. Mi pare di capire che sono qui apposta per accoglierci visto che il passaggio di qualche europeo qui a Dolisie è una cosa estremamente rara.
La cena a base di gamberi di fiume è eccezionale e la conversazione molto interessante.
Veniamo a sapere che il francese, padrone del ristorante, ha fatto per anni il mercenario in qualche imprecisato paese del Sud America. Scopriamo che la strada che unisce Dolisie a Brazzaville non è percorribile.
Questa notizia ci giunge come un fulmine a ciel sereno.
Oramai ci sentivamo arrivati a Kinshasa. A Kinshasa avremmo incontrato Federica e Cecilia che stavano per giungervi in aereo. Lì avremmo riposato, riassestato le macchine e saremmo ripartiti freschi freschi per l’ultima parte del nostro viaggio. A Kinshasa ci aspetta Monsieurs Demchenko, pronto ad offrirci appoggio ed ospitalità. Kinshasa dista da Brazzaville solo venti minuti di traghetto. Brazzaville dista da Dolisie solo trecento chilometri di buon asfalto.
Queste le notizie ufficiali ed i dati estrapolati dalle carte stradali.
Parte della realtà la scopriremo invece a cena dal “mercenario francese”, l’altra parte di verità la conosceremo lungo la strada.
I fatti sono diversi anche se le opinioni discordanti. 
Tutti sono d’accordo sul fatto che la strada tra Brazzaville e Dolisie sia assolutamente inaffrontabile a causa dei ribelli del P.U.L. che presidiano la zona. Nemmeno il treno a vapore che settimanalmente copre questa linea è immune dagli attacchi armati volti a depredare i viaggiatori ed a destabilizzare il paese; un paese che a prima vista pare non abbia assolutamente nulla di stabile, nemmeno le abitazioni o i ponti.
Tra l’altro pare che la strada sia interrotta dal crollo di ponti in più punti.
L’unica strada possibile per raggiungere Brazzaville sembra essere quella che passa da Zanagà e da Jambalà ci dicono.
Andiamo a vedere le cartine: sono quasi mille chilometri di strada in più, tutta in foresta. Dobbiamo ritornare verso nord fin quasi al confine con il Gabon, poi voltare ad est verso Jambalà e poi a sud fino a Brazzaville.
Sembrerebbe solo una questione di un giorno in più. Il problema è che tra Zanagà e Jambalà non esiste strada. Ci sarebbero da affrontare centocinquanta chilometri di foresta. Qualcuno dice che si può fare, qualcuno dice che è impossibile. Qualcuno dice che lassù non c’è la foresta ma il deserto. 
Tutti continuano ad essere d’accordo che è comunque l’unica possibilità che abbiamo se vogliamo proseguire.
Sono seduto a qualche metro dal tavolo dove gli altri continuano a discutere a proposito del nostro viaggio.
Sono sconsolato. Faremo in tempo ad arrivare a Kinhasa per l’arrivo delle ragazze? Ci dobbiamo riuscire, a Kinshasa due ragazze non possono atterrare da sole, ci vuole una scorta. Chi ci vive lo sa. Abbiamo quasi cinque giorni per arrivare in una città che in linea d’aria dista circa trecento chilometri e qui si parla di farne più di mille di foresta. Mi sembra incredibile.
Diego chiacchiera con il francese ed alle mie orecchie arrivano le frasi ammirate del vecchio mercenario: “Credevo fosse impossibile arrivare qui in macchina dall’Europa.“ “Ma come avete fatto?” “Quanto ci avete messo?” 
“Ma è impossibile, non ci si può credere.” “Ma eravate veramente solo voi due?”
Vedo Diego che si gonfia nuovamente.
Io sono troppo abbattuto all’idea di quello che ci aspetta nei prossimi giorni. Ritornare a nord. Non è possibile, non ci credo. Non si fa!
D’un tratto sento che il francese in un delirio di complimenti ci paragona a due illustri compatrioti: Cristoforo Colombo e Magellano.
A questo punto mi inorgoglisco un po’ anch’io ma ci pensa un tremendo ed improvviso temporale a sgonfiarmi ed a mandarci tutti a nanna.
La notte passa sotto un rovescio d’acqua ininterrotto e la mattina ci accoglie bagnata e fangosa. 
Chiudiamo le tende fradice e, dopo un caffè partiamo quando ancora l’alba si deve fare completamente.
Quattro o cinque chilometri d’asfalto e poi lo sterrato. La strada è perfetta, larga, liscia e ben tenuta. Guidare è un piacere. Dopo venti chilometri scopriamo che questa superstrada della foresta è la via che collega Dolisie ad una cava. Cento metri dopo la cava la strada si sfonda e si stringe tanto da rendere difficile il passaggio.
Siamo nuovamente piombati in un istante nell’incubo della jungla. La strada è più dissestata e stretta che in Camerun. Le pozze più profonde e la foresta più fitta.
Qui non si incontrano altri mezzi. Auto e camion non possono percorrere una strada in queste condizioni, almeno per qualche mese fino all’arrivo della stagione asciutta. Le ruote dei Defender sono perennemente immerse in uno strato di fango di trenta o quaranta centimetri. Non siamo mai dritti. Ogni pochi metri l’auto cambia inclinazione, le portiere appoggiano nel fango e strisciano contro ai bordi strada. Non so come ma continuiamo ad avanzare. I Land Rover non si fermano. Ogni metro può essere l’ultimo. Ma intanto maciniamo chilometri su chilometri. Quando senti che il motore non ce la fa più i giri salgono come per incanto, quando senti che il fango ti solleva e le ruote stanno per rimanere sospese i pneumatici riprendono aderenza e la velocità aumenta. Dopo alcune ore così mi convinco che tornare indietro sia ormai impossibile. Guidiamo nella speranza che le cose migliorino, tanto che peggiorino è ormai impossibile.
Più avanti la situazione peggiora. Ogni pozza d’acqua è riempita di rami, tronchi e pietre creando un inferno per le macchine.
Carico un uomo che avanza a fatica camminando nel fango fino al ginocchio. Mi dice che le strade sono state distrutte da quelli che con camion e auto hanno cercato di passare all’inizio della stagione delle piogge. Mi dice che dovrebbero fare una legge che impedisca di guidare durante la stagione delle piogge.
Ogni tanto la strada sembra devastata dalla caduta di bombe. Fosse di fango profonde due metri, alberi distrutti ed abbattuti. “ Sono i tentativi di uscire che hanno fatto mesi fa i camion ribaltati.” Le nostre macchine scendono e poi risalgono. Davanti a me la macchina di Diego scompare quasi completamente e poi ricompare pericolosamente inclinata. Decine e decine di volte.
Quando si entra in queste tombe di fango il muso dei Defender sprofonda, il livello dell’acqua supera quello del cofano, poi copre le portiere e poi, come per magia riesci ad uscirne.
Un tanfo irrespirabile di cadavere ci avvolge. Il mio passeggero mi dice che in quel punto, tempo fa, si è rovesciato un camion di pesce. Mi domando cosa ci faceva qui un camion carico di pesce.
Intanto mi viene da pensare che la carta della Michelin segna questa strada che stiamo percorrendo come la via di comunicazione principale del Congo Brazzaville. Più avanti dovremo affrontare una zona dove la Michelin ha lasciato solo una grande chiazza marrone chiaro. Staremo a vedere. 

La foresta ci opprime. Ci schiaccia. La strada è talmente stretta che dobbiamo tenere i finestrini chiusi per evitare che la vegetazione ci sbatta sulla faccia e che ci piovano addosso i milioni di insetti che vivono sulle piante. Sembra di essere in una galleria lunga decine e decine di chilometri. Spesso le piante si chiudono sopra di noi impedendoci di vedere il cielo. È giorno ma ogni tanto dobbiamo accendere le luci per illuminare meglio i passaggi più difficili. La strada continua così per ore ed ore. Ogni tanto una radura artificiale, uno spiazzo di terra rossa ospita un villaggio fatto di capanne di paglia e fango nelle quali si intravedono, nell’oscurità, delle persone chine sui fuochi. Non una macchina, non un segno di pneumatico. Questi villaggi sono per mesi e mesi completamente isolati dal mondo. Ma questo è un concetto molto relativo visto che il mondo nel raggio di migliaia di chilometri offre davvero poco di più che qui.
Ad ogni villaggio i bambini corrono a salutarci, qualcuno ci tira una manciata di fango e tutte le persone a cui chiediamo informazioni si dimostrano molto gentili e disponibili anche se pare che non conoscano niente oltre al loro minuscolo villaggio.
Ormai stà per scendere l’oscurità. Giriamo una curva, affrontiamo una discesa di fango in cui la macchina scivola come una slitta, facciamo venti metri di piano e davanti a noi si presenta quello che temevo da quando siamo partiti. Un ponte.
In dodicimila chilometri di Africa di ponti ne abbiamo incontrati: sfondati e rattoppati, traballanti e storpi, di legno, di ferro, di cemento e perfino di terra. Nella giungla siamo passati sopra gorghi di acqua nera e ribollente su ponti costriuiti su due tronchi appoggiati e poi tamponati di frasche, assi, terra ed erba.
Ma qui, davanti a noi c’e il ponte definitvo, il ponte primordiale. Qui, a cinquecento chilometri dalla prima cittadina, a cinquecento chilometri dalla prima acqua disinfettata. A cinquecento chilometri da qualsiasi cosa non sia fango o alberi.
Due grossi tronchi a sezione circolare, bagnati fradici, con la corteccia mezza attaccata e mezza penzolante vanno da una sponda all’altra di un fiume che è un incubo. La campata non è gran chè, saranno si e no dodici metri. Ma, giuro, mi sembra una distanza infinita. 
Diego scende dalla macchina e mi viene incontro. Da principio ridiamo. Cosa puoi fare in una situazione del genere? Questa non è mica il divertente gioco di una manche del Camel Trophy, qui ci sono in gioco troppe cose: i soldi, le macchine, la nostra incolumità e, soprattutto, il fallimento della spedizione.
Guardiamo il ponte e ridiamo. Diego ci va sopra con i piedi. I tronchi sono solidi ma scivolosi. Salirci sarebbe già un impresa, sono semplicemente appoggiati lì, si rischia di spingerli nei gorghi con le ruote.
Qui ci siamo. Siamo ad un punto in cui ti giochi tutto o non giochi. 
Io sono secco e deciso: ”Lasciamo perdere. Stà per diventare buio. Se torniamo indietro di quaranta o cinquanta chilometri c’è un bivio nella foresta, di lì dopo altri trenta chilometri ci dovrebbe essere un villaggio. Andiamo là a passare la notte, domani mattina presto veniamo qui e decidiamo se tentare o no. E poi... dai, se tra cento metri ne troviamo un altro? Se ne troviamo uno crollato? Anche se riuscissimo a portare di la tutte e due le macchine non penso che poi riusciremo a tornare indietro nel caso che....” ”Io dico di provare!” Mi interrompe deciso Diego. “ Anche se viene buio in verità che differenza fa? E poi se torniamo al villaggio e domani di nuovo qui, poi non avremo abbastanza gasolio per arrivare a Zanagà.”  
La mia risposta è la solita: ” Va bene. Ma secondo me facciamo una grossa cazzata.”
Passa per primo Diego. Appena riesce a far salire le due ruote anteriori sui tronchi queste lentamente scivolano di lato scorticando il legno e si riappoggiano nel fango.
La missione è chiaramente impossibile.
Al secondo tentativo Diego riesce a far salire la macchina sui tronchi più agevolmente, avanza, ora il muso del Defender è nel vuoto, piano salgono anche le ruote posteriori. Io da davanti cerco di dargli una direzione, ora la macchina è al centro del fiume, tre metri sopra al pelo di un’acqua nera e ribollente che trascina con se legni e foglie marce e fango e chissà cos’altro. I pneumatici scivolano. Li vedo che scivolano, lentamente, verso destra, faccio segno di girare un po’ a sinistra. Molto lentamente Diego avanza, le ruote slittano, il Defender barcolla, i tasselli riprendono la presa.
Un attimo dopo Diego ed io ci stiamo guardando, siamo sudati marci, lui più di me. È dall’altra parte.
Ora siamo davvero nella merda.
Guardo i due Defender, non sono mai stati così lontani l’uno dall’altro.
Torno alla mia macchina. Il tronco è difficile da percorrere anche a piedi.
Ricordo poco del mio attraversamento. Ricordo i tronchi che si avvicinano, l’acqua che mi aspetta minacciosa e la sgasata spaventata che do quando ancora le ruote posteriori sono sul ponte.
Paura che quel nero baratro mi risucchi e mi trascini via.
Siamo dall’altra parte di un nulla che non ha senso.
Ci metto ore a scrollarmi di dosso la paura.
Mi domando mille e mille volte cosa sono venuto a fare qui. Me lo domando nelle interminabili ore di guida, solo da dodicimila chilometri. Mi domando dove mi condurrà questa lunga strada. Eppure stò bene, non mi sento così bene da tempo. Dall’ultimo viaggio in Sud America. È qualcosa che ha a che fare con il movimento. È qualcosa che ha a che vedere con il non rivedere tutti i giorni gli stessi posti. È senz’altro qualcosa che è strettamente legato con il concetto di libertà. Che tutto ciò sia relativo, momentaneo e anacronistico non ha importanza. Per dodicimila chilometri mi sono sentito completamente libero. Libero da ogni vincolo. Libero di decidere, di sbagliare, di guidare. Mi sono soprattutto sentito libero, sempre, in ogni momento, di proseguire o di tornare indietro. Io, solo in mezzo all’Africa, nella mia macchina libero da tutto. Beatamente prigioniero della mia libertà. In questi mesi, in ogni momento, in ogni singolo istante ero dove volevo essere. Forse no. Forse in ogni istante avrei voluto essere in quello successivo ma ecco che questo è già arrivato. È già presente. Ad ogni metro vuoi essere un metro più avanti e mentre lo pensi ci sei. È fantastico. Prigioniero del viaggio che istante dopo istante ti da libertà. Metro dopo metro ti incatena e ti libera senza soluzione di continuità.
La libertà è così strettamente legata alla solitudine ed al movimento che terrorizza tutti quanti. Nessuno escluso!
Viaggiare non è mai spostarsi per lavoro, muoversi per obbligo o per stile di vita. In un viaggio non possono esserci compromessi. Di nessun tipo.
Viaggiare è una cosa a sé. Viaggiare è mettersi completamente in gioco, è non avere appigli, non avere scuse. Non ci sono giustificazioni. Viaggiare è muoversi nel vuoto godendo della paura che ne nasce. Non vorrei fermarmi mai. Ma nessuno è libero. Tutti dobbiamo fermarci, aprire gli occhi e scendere a patti con la vita. Ecco che il viaggio non può essere eterno. Il viaggio è momenti, periodi.
Quando, a Kinshasa, se mai ci arriveremo, Cecilia siederà accanto a me sul sedile dove ora sussultano le carte geografiche ed il microfono del CB, quando in macchina non sarò più solo le cose cambieranno radicalmente. La liberta assoluta sarà solo un ricordo. Non possiamo essere liberi al fianco di persone che ci conoscono troppo bene. Ogni gesto, movimento, scelta o comportamento diventa comunicazione e non più atto catarchico.
Dopo la solitudine il viaggio sarà diverso, sarà qualcos’altro. La libertà diventerà parola ed il silenzio musica. Le cose perderanno l’intensità che sprigionano, cambieranno forma e comunicheranno sensazioni differenti. Il viaggio in fondo cambierà forma e diventerà paesaggio ed avventura.
La discesa dentro me stesso andrà in stallo e piano piano ricomincerà la risalita verso la luce ed il buon senso comune. Buon vecchio e fedele senso comune capace di tenerci i culi al caldo e la mente al fresco.
Le tenebre ci hanno ormai avvolto. Incontriamo un ultimo sparuto villaggio immerso nell’oscurità. Qui finisce quella che poteva sembrare una strada. Diego rallenta, si ferma. È indeciso. Lo accosto. In effetti  da qui si possono prendere varie direzioni, tutte che seguono non strade ma slarghi in cui la vegetazione è meno fitta ed in cui le auto, anche se a fatica possono procedere. Il caso, credo ci fa scegliere e nello stesso istante in cui la macchina di Diego scompare nella boscaglia sento degli urli da dietro. 
“Fermati e torna, qualcuno dal villaggio ci chiama e fa gesti.”
Diego ricompare dalle alte erbe a marcia indietro.
Il francese di chi vive qui è veramente difficile da capire ma ormai ci siamo abituati. I gesti e le espressioni ci aiutano più della grammatica.
Ci chiedono dove stiamo andando. Ci guardano come se fossimo pazzi. ”Non proseguite. Restate qui almeno per la notte.” 
“Non possiamo, tra due giorni dobbiamo essere a Kinshasa. Assolutamente. Questa notte dobbiamo proseguire. Non possiamo fermarci.”
La risposta è in fin dei conti molto chiara: ”Se proseguite vi perderete e perderete anche la vita. Piu avanti non c’è strada, non c’e essere umano e soprattutto non  c’è acqua.”
Tutto il villaggio si è riunito attorno alle macchine, due ragazzi ci dicono che ci possono accompagnare per un pezzo ma non di più. Noi, ormai spaventati li preghiamo di condurci almeno fino a Jambalà. Per loro è una decisione sofferta. Si consultano con le famiglie, con il capo villaggio e poi ci danno il loro benestare. Sono spaventati, loro e le famiglie. Noi distribuiamo medicinali, quei pochi che abbiamo con noi. Sentiamo che dovremmo fare qualcosa per loro. Stanno per darci il loro difficile ed incondizionato aiuto.
Partiamo. Ognuno di noi ha a bordo uno dei ragazzi che non da solo la direzione da seguire ma segnala i tratti di terreno molle in cui la macchina sprofonderebbe.
La partenza dal villaggio non mi ha lasciato per niente tranquillo. La moglie di uno dei due ragazzi piangeva e salutava come se partissimo per un viaggio di mesi. Il capo villaggio come ultima cosa si è raccomandato a me di far tornare i ragazzi sani e salvi alle loro capanne. Lui avrebbe pregato per loro, non so quale dio così caparbio da ascoltare i lamenti di questo posto inaccessibile, ma avrebbe pregato.
Quelli di questa notte nera sono i centocinquanta chilometri più duri allucinanti e difficili che abbiamo mai percorso.
La strada non esiste, la foresta è ovunque, avanziamo a zig-zag tra le basse fronde evitando i grandi alberi. Insetti ovunque, un caldo ed un’umidità insopportabili e l’attesa di quello che i nostri accompagnatori chiamano deserto.
La foresta finisce e ci ritroviamo in aperta savana. Qui, ci dicono, ci sono mille specie di animali, anche feroci. Chiedo se avremo la fortuna di incontrare magari qualche elefante. Il mio accompagnatore sgrana gli occhi e mi fa capire che forse incontrare un elefante al buio in mezzo alla savana non è proprio quello che si chiama “colpo di fortuna”.
Anche la savana finisce e inizia quello che a me non sembra un deserto ma una immensa prateria.
Credo di capire. Un tempo qui probabilmente c’era veramente un deserto. Tutto è un susseguirsi di immense colline coperte da un metro di fitta erba,un continuo salire e scendere da creste con pendenze formidabili. Le auto sono spesso al limite del capottamento.
Il terreno è sabbia. Pura come quella del deserto, solo che è cresciuta l’erba a coprirla. Non posso concepire un terreno più insidioso di questo. In pratica con i land Rover, immersi nell’oscurità scavalchiamo una serie infinita di dune coperte d’erba. Quando la fanaleria sul tetto lancia sprazzi di luce lontano si intravedono orizzonti interminabili, vallate di sabbia ed erba. Diego ed io non facciamo altro che ripeterci via CB :”Ma dove siamo? Ma ti rendi conto dove siamo?”
È un incubo magnifico. Le nostre auto avanzano su e giù come due insetti nella notte. I nostri amici sono più spaventati di noi. Sono terrorizzati. Hanno paura che le auto si rovescino e rotolino poi per centinaia di metri. A volte si sale, a volte si scende. Le pendenze sono allucinanti. Le più volte procediamo di traverso, sul fianco di queste colline di sabbia, per aggirarle. Le macchine sono così inclinate che tutto dentro si rovescia. Procediamo con il posteriore dei Defender verso il baratro ed il muso più su. Procediamo perfettamente dritti ma con le ruote completamente sterzate. Ogni tanto, quelli che ormai sono diventate le nostre guide, scendono, avanzano di qualche metro a piedi e saggiano il terreno. Ci dicono di avanzare o di girare o di tornare un po’ indietro.
Spaventati dal nostro arrivo ma attratti dai nostri potenti fari, centinaia di piccoli rapaci schizzano fuori dall’erba alta e sbattono rumorosamente contro i nostri tetti. Ogni tanto qualcuno si impiglia nelle bagagliere o nella fanaleria. I nostri amici saltano giù, li catturano e gli spezzano le ali. Tac! Un rumore secco che fa venire i brividi. Poi l’uccello finisce nel tascapane.
I nostri amici dai nomi impronunciabili sono dei cacciatori. Ci spiegano che loro per ritornare impiegheranno tre o quattro giorni di cammino e gli uccelli con le ali spezzate ma ancora vivi si conservano meglio. Li mangeranno nei prossimi giorno. Questi uomini girano con fucile, arco e frecce.
Sono cacciatori veri questi, cacciatori d’altri tempi, cacciano per procurarsi il cibo.
La notte incombe. Diego finisce in una pozza di sabbia e spezza un ammortizzatore. Continuiamo senza quello. Ci dicono che siamo quasi arrivati. Tornano gli alberi a fare capolino e dopo un po’ incontriamo una piantagione di manioca. Ci siamo, anche se gli ultimi chilometri sono i peggiori. Ora c’è di nuovo una parvenza di strada, fatta di dossi e voragini profonde un metro. I Land Rover fanno quello per cui sono stati creati. Passano dove non si può passare ed alla fine, dopo una curva appaiono alcune capanne ed una strada sterrata. Guidiamo ancora per qualche ora e poi appare l’asfalto. Malconcio e scassato ma segno di civiltà. La tensione ci abbandona gradualmente. Diego crolla, continua a dirmi che è meglio fermarsi a dormire. Passo io davanti e lo sprono, mi faccio seguire-inseguire. Faccio quello che ha fatto lui per migliaia di chilometri. Ancora due ore e siamo a Jambalà. Una città che in Europa farebbe sorridere, una città con le strade di terra, un solo benzinaio e qualche lampione sparso qua e là. Ci fermiamo davanti al benzinaio. Un fantasma che passa di lì ci dice che aprirà dopo due ore.
Noi riempiamo di regali i nostri amici; cose come tubi di grasso e silicone, una maglietta e dei guanti di gomma. Faccio scivolare fuori dalla macchina un marazzo (ascia tipica dei miei posti) e la consegno ad uno di loro. Lui la guarda ammirato, sembra sia appena stato nominato cavaliere della Tavola Rotonda. Mi piace pensare che quel marazzo verrà usato per innumerevoli anni nella foresta congolese.
Ci separiamo, ormai esiste una strada da seguire.
Non posso spiegarlo in altro modo: senza questi due gentili, umili ed onesti ragazzi noi non saremmo mai riusciti ad arrivare fino a qui. Senza di loro, non so come, saremmo dovuti ritornare indietro.
In due ore beviamo, mangiamo due banane, riassestiamo le macchine, cambiamo l’ammortizzatore e dormiamo un po’.
Non manca molto all’ora di pranzo quando arriva il benzinaio, nero come il carbone e coperto da una luga tunica. 
Non c’è benzina. L’autocisterna si è rovesciata una settimana fa e da allora non è più arrivato un solo litro di gasolio.
Ora sono io a crollare. Passo un’ora immerso in uno strano limbo. Sono 
distrutto, mi muovo come uno spastico, ho la mente annebbiata, sudo freddo e seguo Diego come un automa.
Diego domanda, contratta, scambia e commercia. Dopo un’ora abbiamo del gasolio che qualcuno teneva in casa. Sono ormai giorni che abbiamo finito i soldi ed il gasolio si acquista tramite baratto. Taniche vuote ed altri oggetti in cambio del prezioso liquido. 
Ripartiamo. Per centocinquanta chilometri l’asfalto è un inferno, forse il peggiore mai incontrato, ma poi migliora fino a diventare vero asfalto e per altre tre ore guidiamo in trance. Diego si addormenta alla guida, sbanda. Si ferma. Riparte. Si ferma di nuovo. Alla fine come in un sogno arriviamo a Brazzaville all’imbrunire. Dobbiamo ancora andare a richiedere all’ambasciata il visto per il Congo Repubblica Democratica.
Abbiamo guidato ininterrottamente per trentasei ore attraverso savana e foresta. È stata una follia ma siamo arrivati. Siamo come drogati. In due giorni abbiamo mangiato solo due banane.
All’ufficio visti ci dicono che con un piccolo extra possiamo avere i passaporti timbrati entro la tarda mattinata dell’indomani.
Scoviamo una specie di motel con camere senza corrente ma i letti puliti. Crolliamo come svenuti e senza cena.
L’indomani, con i passaporti vistati, ci presentiamo al porto di 
Brazzaville.

Siamo di fronte al fiume Congo, quest’acqua che vedo passare arriva dal centro della terra. Arriva dal cuore dell’Africa. Questo fiume è stato l’incubo amico dei più grandi esploratori del passato. Questo fiume che pullula di vita e di morte è l’unica arteria che collega le parti di questo immenso stato.
Qui c’è Brazzaville, piccola e tranquilla al confronto di Kinshasa, città adagiata di là dal fiume, immensa metropoli che governa la vita e la morte in Congo.
Non esiste un ponte, ma solo uno scalcinato traghetto che, quando e carico, cioè sempre, naviga a pelo delle acque scure del fiume.
Passiamo ore ed ore in porto. In un delirio di frustate, polizia e poveracci.
Una delegazione presidenziale è attesa per questo pomeriggio. Il traghetto oggi farà una sola corsa. Ci dicono che non c’è posto. Tentiamo di corrompere chiunque, forse anche chi con il traghetto non centra niente. Tentiamo di acquistare un posto auto da quelli che ne hanno già uno. Alla fine, non saprei dire come ma qualcuno ci procura un biglietto e senza maggiorazioni di prezzo.
L’Africa è assurda.
L’imbarco è un girone dell’inferno dantesco. È il girone dove vanno a finire le persone con la pelle nera ed oggi per caso anche noi due.
Decine e decine di poliziotti armati di fruste picchiano e sferzano straccioni che cercano di imbarcarsi per andare a fare chissà cosa a Kinshasa. Centinaia di poveracci vestiti di stracci si fanno frustare e guidare come una mandria. Tengono gli occhi bassi, sembrano animali umiliati e spaventati.
Noi siamo in coda per salire sul traghetto. Attorno a noi è un inferno di urla e pianti. Di ringhi e frustate. Davanti alla mia macchina una vecchia viene presa a cinghiate e bastonate, mi si accascia sul cofano e poi per terra. Una mano caritatevole la solleva e la allontana prendendo frustate al suo posto. Di fianco alla macchina vedo una giovane donna con un minuscolo bimbo legato sulla schiena che viene colpita da una cinghia in pieno viso. Sulla guancia gli si apre un taglio, esce sangue. Cede, cade, si alza e scappa. Il bambino non piange.
I poliziotti sono mandriani e questi poveracci sono semplicemente stati ridotti ad una mandria di bovini maltrattati.
Diego cerca di filmare e scattare foto. Viene aggredito da un poliziotto che cerca di strappargli la macchina fotografica, si difende, non molla la presa, urla qualcosa e poi ingrana la marcia. Prima scende e poi sale dalla traballante rampa ed entra nelle fauci del mostro acquatico.
Alla fine, tutti, ma proprio tutti quelli che erano in porto riescono a salire sul traghetto. Non so, ci saranno quattro o cinquecento persone e una ventina di macchine. La barca parte. Qualcuno parte da riva a nuoto, per lo più bambini piccolissimi che tentano di raggiungere il traghetto nuotando disperatamente. Decine di bambini con in bocca sacchetti di nylon nei quali tengono le loro povere cose nuotano all’inseguimento del traghetto. Nuotano in un’acqua marrone e veloce. Qualcuno si aggrappa alle 
sponde della barca, qualcuno riesce a issarsi su, qualcun’altro viene 
portato via dalla corrente.
Il traghetto è stracolmo di persone. La gente è schiacciata. Noi siamo sui cofani delle auto, unico posto fresco e disponibile. Presto, però anche le nostre macchine sono piene di gente, sui tetti e sul cofano. Di fianco a me un ragazzo storpio, portato a spalle e depositato lì da un amico mi chiede se può fare una foto con noi. “Certo rispondo” Due strilli e dal marasma esce un tipo con un apparecchio fotografico che noi terremmo in un museo. Scatta la foto. Io per il ritratto lo abbraccio. Lo storpio, che è seduto con me sulla ruota di scorta sul cofano, paga il “fotografo” con una manciata di franchi congolesi che assomigliano a piccoli stracci intrisi di unto.
Ho gli occhiali da sole ed è per questo che nessuno su quel battello vedrà mai le mie lacrime. Mi fumo una sigaretta e ne offro una al mio nuovo amico; lui è sveglio ed anche colto, mi chiede del mio viaggio e scopro che conosce la geografia del suo continente meglio di quanto la maggior parte degli europei conosca quella della propria nazione. Il suo cervello funziona. Il suo corpo un po’ meno. Le gambe sono contorte e più piccole e corte delle mie braccia. Un braccio non gli funziona, la spina dorsale nemmeno. Con la mano buona fuma e mi guarda ammirato. È felice di avermi incontrato. Perche? Pochi minuti dopo ci saluteremo e non ci rivedremo mai più.
Diego, sfidando la divina autorità del capitano della nave fa filmati con il cellulare e scatta qualche foto.
Sbarchiamo e le pratiche di ingresso in Congo sono le più lunghe, incerte, confuse ed arbitrarie pratiche che mai siano state fatte. Documenti e corpi di polizia inventati ci stressano fino al limite. Piove. Non si capisce più niente, chi sono i doganieri, chi la polizia e chi l’esercito. Da qualche parte spunta anche la Gendarmerie. Intanto piove. Siamo bagnati quando appare un nuovo corpo di ordine pubblico, l’O.C.C. Ci chiedono anche loro i documenti. I poliziotti ci dicono che quelli non hanno autorità, i doganieri ci dicono che nemmeno la polizia lì ha autorità. Tutti litigano tra l’oro, in questo porto stà per scoppiare la guerra civile.
Un doganiere, l’unico al quale ci siamo fidati di consegnare i passaporti ritorna. Sale con noi in macchina e con lui partiamo, dritti dentro al caos di Kinshasa alla caccia di una fotocopiatrice funzionante con la quale copiare un ultimo documento che ci permetterà di girare liberi per il Congo per un mese intero.
Fuori, chiuse in un Land Rover bianco ci sono Cecilia e Federica. Il Land è di una missione. Le ragazze sono atterrate quattro ore prima all’aereoporto e li, salvate da un missionario che le ha sottratte alle ire di funzionari corrotti ed alla rissa tra esercito e polizia che si era scatenata in seguito all’arrivo dell’aereo ed al fatto di cercare di capire chi aveva la competenza e la carica di spaventare e chiedere tangenti alle persone che sbarcavano.
Il prete che salva Federica e Cecilia ha un viso buono, ritorna dall’Italia dove ha portato due bimbi ad operare di cuore e salva le ragazze come un angelo sbucato dal nulla.
L’Africa è nient’altro che questo, un inferno popolato dagli angeli .
Otteniamo il visto. Finalmente incontro Cecilia. Ci abbracciamo sotto la pioggia africana. Qualcosa tipo “Via col vento”.
Cecilia e Federica sono tirate, stanche e spaventate. Questo per Cecilia è il primo vero viaggio. È bianca come uno straccio, è ancora spaventata ed eccitata dai pericoli corsi in aeroporto, mi vuole raccontare mille cose. Ma non è ancora il momento di raccontare. Dobbiamo trovare una sistemazione e l’ufficio di Monsieur Alex Demchenko, un illustre amico di Diego che ci stà aspettando. Troviamo prima l’ufficio e poi Monsieur Alex ci trova la sistemazione.
In Rue de L’etoile entriamo dai cancelli di una moderna palazzina fronteggiata da due enormi antenne. Due inservienti chi fanno entrare.
Monsieur Alex ci accoglie nel suo grande ufficio. Ci fa accomodare sui divani. Noi siamo distrutti. Lui è un monolito. Sembra che niente possa scalfirlo. La sua potente voce ci chiede “Come è andato il viaggio?”

Kinshasa è qualcosa che occorrerebbero anni per raccontarla. Intanto Kinshasa e Brazzaville sono le due capitali più vicine al mondo, sono divise “solo” dal lento scorrere del fiume Congo e sono collegate dal traghetto che abbiamo usato anche noi. A Brazzaville per fare il pieno di gasolio bastano setto o otto banconote, a Kinshasa ne occorrono qualche migliaio. L’inflazione non riesce a superare il fiume. Scopriamo che i residenti bianchi e le persone ricche in genere non fanno mai uso del traghetto, usano imbarcazioni private oppure l’aereo, cosa che comunque succede un po’ in tutta l’Africa.
Per le malridotte strade di Kinshasa circolano veloci mezzi corazzati carichi di militari armati di mitra e katiusha. Carri armati in assetto da guerra incrociano e superano carri pieni di uomini fino all’inverosimile.
La visione estrema che ho di Kinshasa è un carro armato fermo in mezzo alla strada che fa attraversare un gruppo di bambini in uniforme da scolari. Maledizione dove ho messo la macchina fotografica?
Ad ogni incrocio un diverso corpo di polizia, ce ne saranno decine, presidia il traffico. I militari fermano le auto, spaventano e chiedono tangenti, dazi, mance e tasse.
A Kinshasa le residenze dei bianchi, anche di quelli meno ricchi, sono sempre circondate da alti muri sovrastati da fili spinati e presidiati da milizie private (altre decine di uniformi diverse da aggiungere al caos).
Un tempo qui governava il grande Dittatore Mobutu Sese Seko Koko. Durante il suo regime cominciato nel 1965, nato da un colpo di stato che rovesciò un governo che aveva preso il potere nello stesso modo, Mobutu riesce ad impoverire fino allo sfinimento un paese che aveva il sottosuolo più ricco del mondo. Oro, diamanti, manganese, uranio, zinco, cadmio, malachite, tungsteno, smeraldi, radio e recentemente Coltan, prendono il largo sulle navi ed il volo sugli aerei e se ne vanno per sempre dal paese. In cambio l’ex Zaire riceverà non enormi quantità di denaro ma armi a sufficienza per mantenere l’instabilità politica  e di riflesso fomentare le rivolte. Centinaia di migliaia di morti in anni di dittatura.
E mentre tra feste e ricevimenti Mobutu continuava a depredare il Congo nello Shaba (ex Katanga) si prepara la rivolta del “grande liberatore”. L’ambiguo Kabila che, marciando dal Katanga, ha liberato Kinshasa dall’oppressore. A farne le spese sono stati ancora una volta i poveracci. Si dice che la marcia per liberare l’allora Zaire sia costata la vita a più di quattrocento mila persone. Kabila si insedia, lo Zaire diventa Congo Repubblica Democratica e tutti ma proprio tutti vengono forniti di certificato elettorale, un certificato che ancora oggi i congolesi ci mostrano orgogliosi, ma un certificato che forse useranno per la prima volta  quest’anno. La verità è che nasce una nuova dittatura. Lo stesso Che Guevara, arrivato in Congo per aiutare i ribelli di Kabila ne fugge spaventato. La violenza e la follia che governano queste terre e le menti dei loro “sovrani” spaventano anche il “grande rivoluzionario”.
A Kabila padre succede il suo assassino, ovvero Kabila figlio. Un nuovo tiranno, se possibile più spietato e feroce dei precedenti.
Sotto al regime di mobutu Kinshasa si era trasformata in un giardino, in una ricca e caotica città nella quale molti Europei si stabilivano in cerca di ricchezze. La città era piena di locali e bar e la vita notturna era intensa. I racconti di chi ancora ha la forza ed il coraggio di vivere a Kinshasa e di quelli che da Kinshasa se ne sono andati, sono chiari, decisi e fanno paura. Con Mobutu si stava meglio.
Il Congo si poteva attraversare in barca, in macchina ed in treno, con tutti i disagi immaginabili, ma si poteva fare.
Adesso tutti gli investitori stanno abbandonando la città ed il paese intero, lasciando nelle mani di pochissimi le ricchezze del paese.
Adesso nemmeno una guarnigione armata sarebbe in grado di attraversare il paese.
Adesso il Congo è un caos, comandato a tratti dagli allucinanti miliziani di Kabila ed a tratti da sempre nuovi gruppi armati.
Mi spaventa sempre quanta poca ed arbitraria realtà si riesca a vedere e quanta ancor meno a capire.
Monsieur Alex la prima notte  ci fa dormire nel suo ufficio visto che i pochi hotel della città sono stati invasi dall’ entourage del presidente del Congo Brazzaville in viaggio diplomatico.
Nei giorni seguenti verremo ospitati in una villetta di proprietà di un 
amico di Monsieur Alex.
A Kinshasa scopriamo che non sarà possibile per noi raggiungere la missione di Irambo Kalee, situata nel Kiwu, a migliaia di chilometri dalla capitale. Questo ci abbatte profondamente. Abbiamo percorso fino ad ora più di tredicimila chilometri ed ora il Congo ci ferma. Il Congo è impenetrabile ed inaccessibile. Ci sarebbero due sole possibilità: caricare i Land Rover su una chiatta e risalire il fiume Congo fino a Kisangani, ma tra aspettare che una chiatta parta ed il tempo necessario alla navigazione ci vorrebbero anche quaranta giorni. Arrivati a Kisangani dovremmo poi raggiungere l’ONU alla base LE MONUC e da li aspettare che parta un convoglio diretto a Bucavu e poi ancora raggiungere la missione. Con un po’ di fortuna ci vorrebbe almeno un mese e mezzo. Purtroppo non abbiamo abbastanza tempo.
L’altra alternativa è quella di prendere tutti e quattro un costoso volo fino a Bucavu e poi raggiungere in qualche modo la missione. A parte l’ingente spesa anche questa opzione richiederebbe un minimo di venti giorni.
Peccato che il tempo sia limitato. L’idea di risalire il fiume Congo in chiatta mi ha attirato sino dal momento che abbiamo deciso di puntare su Kinshasa.
Ma il tempo stringe, ancora non sappiamo se potremo entrare in Angola e soprattutto se riusciremo ad attraversarla.
Diego prende contatti telefonici con suor Franca, la sorella che manda avanti la missione ormai da anni. Suor Franca ci mette in contatto con un suo referente nella capitale che ci conduce alla procura Sant’Anna nella quale facciamo il versamento di seimila dollari a favore della missione. 
Pochi giorni dopo Suor Franca riuscirà ad entrare in possesso dei soldi che abbiamo raccolto nell’anno precedente ed a spenderli, come previsto, nell’ ultimazione del refettorio nutrizionale e nei primi lavori per la 
costruzione delle scuole.
L’unico e vero modo di far arrivare “tutti” i soldi raccolti è quello di portarli materialmente sul posto. Di questo, ormai ne siamo assolutamente certi.
Il secondo giorno che passiamo nella capitale ci stabiliamo nella villetta che Monsieur Alex ed il signor Antonio Fumagalli ci mettono a disposizione.
Il signor Fumagalli e la sua splendida moglie parigina sono una coppia che non basterebbe un libro per descriverla. Quando entriamo nel loro cortile con i Land Rover carichi, sporchi e sovrastati dalle tende Overland, il signor Fumagalli credo sia sul punto di piangere. Lui negli anni sessanta ha compiuto diverse spedizioni in tutto il mondo ed in Africa pur non riuscendo mai a superare lo scoglio del Congo. Anzi, ironicamente ci dice che sono vent’anni che aspetta ancora il visto per l’Angola per poter proseguire. Credo che vedendoci arrivare, in un lampo, gli siano tornati alla mente i suoi viaggi e le sue spedizioni di gioventù. Noi, come lui quarant’anni prima. Due Land Rover. La voglia di andare in un posto che non esiste. Le stesse tende da tetto, la Overland della Autohome, discendente diretta dell’Air camping inventata da Nino Cerani cinquant’anni prima. Nel pomeriggio passiamo all’officina Arno, gestita da una famiglia di italiani, i 
signori Negro che, oltre ad invitarci a pranzo alla fine non ci faranno pagare niente dei due tagliandi alle vetture.
Non ho parole. A Kinshasa Monsieur Alex e la famiglia Fumagalli ci offrono l’alloggio, i signori Negro i tagliandi delle macchine, il signor Nicola la cena nel suo locale ormai storico. Ma più di tutto ci offrono la loro incondizionata amicizia, i racconti incredibili che ci regalano durante le cene ed il ricordo di persone che sembrano uscire dritte dritte da un romanzo. Ringraziarli non basterebbe. Spero un giorno di poter rivedere i loro volti ed ascoltare i loro racconti che parlano di rivoluzioni, di viaggi e saccheggi, di vita e di morte. Sembrano personaggi che stanno facendo la storia e forse è davvero così.
Accompagnati da Gianluca e Bertrand, fidi collaboratori di Monsieur Alex, riusciamo a trovare l’ambasciata angolana. Da questo momento ha inizio un’interminabile successione di corse tra l’ambasciata italiana e quella angolana, di ore di attesa negli uffici e sotto al sole bollente.
Sbrigate in un giorno le prime formalità consegnamo i passaporti. Il giorno successivo scopriamo che a me e Diego sono stati rilasciati i visti, mentre a Cecilia e Federica no. La motivazione ufficiale è che noi arrivando in auto non potevamo richiedere il visto all’ambasciata angolana in Italia mentre le ragazze avrebbero potuto farlo benissimo. 
La realtà è un’altra. Per l’Angola non esiste nessun tipo di visto turistico ma i funzionari, presi in mano i nostri passaporti, e vista la quantità davvero impressionante di timbri, visti, ecc, non hanno potuto fare altro che timbrarli per paura di fare qualche torto a qualche altro paese. I vergini passaporti delle ragazze erano più facili da respingere. Sono certo che ci sia sotto anche una qualche forma di discriminazione sessuale che ha spinto i funzionari a rifiutare i visti a Cecilia e Federica.
A questo punto ci troviamo in un’assurda situazione di stallo. Torniamo mesti all’uffico di monsieur Alex al quale esponiamo il nostro problema.
Noi possiamo continuare, le ragazze no.
Monsieur Alex dalla sua scrivania attrezzata di ogni tipo di apparecchio per le comunicazioni fa tre o quattro telefonate, convoca un ex ministro angolano e ci organizza un incontro con il generale Patience, capo delle forze di polizia di Kinshasa. Questi ci spiegano le “vie da seguire” per ottenere i visti necessari. Inizia un girotondo che dura giorni. Passiamo al comando della polizia, andiamo all’ambasciata dell’angola, poi a quella italiana che ci rilascia dei documenti con i quali richiederne altri e poi altri ancora, e poi timbri, firme e timbri all’infinito.
Alla fine da sotto questa montagna di scartoffie ne emergono i passaporti con i visti timbrati. Si tratta di visti di transito validi per cinque giorni. 
Cinque giorni per attraversare un paese lungo quasi tremila chilometri, un paese dove la guerra, durata quarant’anni ininterrottamente è finita ufficialmente da pochissimo tempo. Un paese per metà privo di strade e per metà minato all’inverosimile.

Lasciamo Kinshasa con l’amaro nel cuore. Salutiamo tutti di malavoglia e con la promessa di ritornare.
L’asfalto che ci porta a Matadi è ottimo anche se la strada è stretta, tortuosa e percorsa da migliaia di camion enormi e scassati che sfrecciano in tutte le direzioni.
Trecentocinquanta chilometri e siamo nel caos di Matadi, un’enorme città che sembra costruita interamente di terra rossa, vero porto di Kinshasa la quale, dal mare, è irraggiungibile a causa delle rapide.
Una notte tranquilla e rilassante a Matadi, anche se non possiamo dormire in tenda a causa dell’alto tasso di delinquenza.
La mattina dopo passiamo qualcosa come cinque ore alla frontiera. L’uscita dal congo è un gioco di richieste di denaro e corruzione che è quasi imbarazzante.
Io e Diego siamo ormai dei professionisti dell’azzardo e della contrattazione. Ci vengono richiesti qualche centinaio di dollari per poter uscire dal Congo, noi fingiamo, recitiamo, piangiamo, minacciamo e ci arrabbiamo. Facciamo anche qualche nome importante sentito o realmente conosciuto a Kinshasa.
Alla fine paghiamo i due timbri con una scatola di pelati e due pacchi di pasta. A volte provo vergogna per come va il mondo. Due ora prima i funzionari di dogana erano spavaldi,ci intimidivano e parevano irremovibili. Due ore dopo accettavano di buon grado e con espressione umile i due pacchi di pasta. E ci ringraziavano anche.
L’entrata in angola è più semplice, a parte l’intollerabile lentezza dei funzionari che cercano di ostentare una precisione esagerata, tutto fila liscio. 
Entriamo in Angola. Abbiamo cinque giorni per uscire dal suo confine più meridionale, quello con la Namibia.
In Angola si parla il portoghese e le costruzioni ricordano molto quelle del Sud America. Qui ci sono stati gli stessi colonizzatori del Brasile, i due paesi si trovano pressappoco alla stessa latitudine. Le somiglianze sono notevoli, solo che il Brasile in confronto all’angola è una “Svizzera”.
Scopriremo che in Angola non esiste più alcun tipo di infrastruttura, non ci son più ponti, le strade sono completamente andate distrutte, non ci sono città degne di questo nome. L’angola è un continuo susseguirsi di asfalti talmente devastati dalle bombe e dal tempo che a volte risulta impossibile seguirli e si è costretti a costeggiarli, con due ruote sulla terra e due nella foresta. Dove non c’è l’asfalto le piste non sono migliori di quelle congolesi. Fango e polvere continuano a martoriarci. Attraversiamo centinaia e centinaia di villaggi fatti di paglia, fango e rifiuti. La gente pare felice, forse per la fine della guerra che ha lasciato sul campo milioni di vittime e milioni di mine inesplose che continuano a uccidere. L’Angola tra l’altro è il secondo paese più minato al mondo ed uno dei più poveri; ma credo che le cose vadano a braccetto.
Impieghiamo due giorni per arrivare alla capitale, Luanda, la “città che appare”, così soprannominata perchè di notte, vista dal mare sembra una città vera. In realtà Luanda è un enorme agglomerato di capanne fatte di fango e lamiere, di rifiuti e paglia marcia.
La strada che dal confine conduce a Luanda è tremenda, gran parte è asfaltata, ma le bombe, le mine e la guerra l’anno ridotta ad un colabrodo. Si viaggia per due giorni su piste appena accennate che zigzagano attraversando continuamente l’inservibile carreggiata principale. Dove un tempo c’erano i ponti adesso ci sono solo macerie e per proseguire dobbiamo affrontare continuamente profondi guadi o ponti posticci  messi insieme utilizzando le macerie di quelli crollati.
Non si vedono uniformi, praticamente mai. Credo che dopo quarant’anni di guerre la gente non sopporti più nemmeno da lontano la vista delle uniformi.
Incontriamo un campo di militari sminatori arrivati chissà da dove, il campo è deserto. Che siano esplosi tutti nel tentativo di salvare questo assurdo paese?
L’angola è bellissima, i suoi panorami variano continuamente, qui c’è la foresta tropicale, la savana sterminata; più a sud il deserto e poi ci sono mare, laghi, immensi fiumi, montagne maestose e fertili praterie.
Siamo fermi a fare gasolio. Ad un passante che viene dalla macchina per chiedere cosa ne pensiamo dell’Angola ed a farsi fare una foto, chiedo se in questo paese si possono incontrare animali. Lui fa un gesto vago indicando delle persone che passano... “No, non intendevo quello, animali tipo elefanti, giraffe, leoni...” insomma, in ormai quindicimila chilometri di Africa ho visto solo un cobra giallo in Mauritania ed una famiglia di babbuini in Camerun! “Leoni?” mi risponde pensieroso” Gli animali ce li siamo mangiati tutti durante la guerra, quando non potevamo fare altro per sfamarci, i pochi superstiti saranno fuggiti il più lontano possibile dai combattimenti e dalle fucilate.”
Incredulo gli domando: ”Vi siete mangiati i leoni?” il poveretto capisce che sono un novellino e mi spiega in tono comprensivo: “No, ci siamo mangiati tutto il cibo dei predatori e loro sono semplicemente scomparsi o morti di fame. Comunque sia abbiamo fatto piazza pulita. Mi piacerebbe tanto che tornassero. Per l’angola sarebbe molto importante, sai il turismo e......” Non lo ascolto più. Mi guardo attorno, siamo in una cittadina piccola prima di Luanda, il distributore ha la pensilina sfondata, il gabbiotto sul retro è crollato, il cemento per terra crepato e capovolto. Lungo la strada giacciono carcasse di auto incendiate, relitti bruciati di carriarmati e mezzi da guerra. Un po’ più lontano mi pare di vedere un Hammer consumato dal fuoco. Spero di sbagliarmi. Non c’è motivo che qui ci sia un Hammer. La strada è distrutta, i cordoli al bordo strada sono sgretolati ed utilizzati per tappare le buche al centro della carreggiata, i pochi edifici veri che si vedono sono macchiati di nero, sbrecciati e cadenti. Tutto è in rovina. Ma appena lo sguardo si allontana un po’ incontro una natura fantastica, colorata e selvaggia. Una natura nuova che riesce a rinnovarsi più in fretta degli angolani.

Entrare a Luanda è un’avventura della quale si farebbe volentieri a meno. Dopo nemmeno cinque minuti che guidi nel traffico caotico la paura ti assale e vorresti essere lontano cento chilometri.
Cadaveri al bordo strada, cadaveri di animali e cadaveri di persone. Cadaveri in mezzo alla strada. 
In mezzo alla strada principale si è formata, ad un incrocio, una rotonda temporanea. A fare da spartitraffico il cadavere di un uomo.
La visione che mi lascia esterrefatto più di tutte è quella di una ragazza che viene allontanata in lacrime dal corpo inerte di un uomo. Il poliziotto che la porta via ride sguaiatamente.
In dieci minuti assistiamo almeno a tre tamponamenti. Un’auto fa sbandare Diego, poi punta dritta contro di me, mi scanso per un pelo, l’auto centra in pieno quella che mi segue.
La periferia di Luanda è immensa. Farei prima a dire che Luanda è una periferia con un centro lungo non più di due chilometri, sulla baia.
Chilometri di macerie e rifiuti si susseguono, vere montagne di rifiuti sulle quali sono state costruite nuove migliaia di abitazioni fatte con i rifiuti stessi. In queste baracche la gente ci vive. Morte, mosche, malattie, colera, tifo e peste,bambini che non giocano ma si nutrono nella spazzatura. Capre che si contendono una buccia di patata incastrata in un sacco di nylon stracciato con una bimba che pare non avere più di cinque sei anni. Unica nota di colore la pensilina bianca e rossa fiammante di un benzinaio. Facciamo gasolio. Dal finestrino un bimbo mi sorride. Gli regalo qualche penna e poi anche un cappellino nuovo con visiera. La sua espressione è fatta di una gioia contenuta che mi disarma. Sembra che qui non siano molto abituati ad affrontare sentimenti la felicità.
Il numero di persone storpie e prive di arti, di mutilati e sciancati è impressionante. Sono le mine, mi dicono. La guerra è finita ma il numero di morti giornalieri non è diminuito. Ci vorranno decine di anni per sminare il paese.
Puoi vederla cento e cento volte questa miseria, questa povertà questo allucinante delirio che gli esseri umani riescono a creare, ma il callo vero e proprio non te lo fai mai.
Ho visto tanta e tanta miseria, povertà e disagio in Bolivia, in Perù, in Argentina Brasile, Paraguay e Messico. Ma l’Africa in questo è la numero uno, la prima della classe, non ha rivali. Adesso sono sedicimila chilometri in cui non abbiamo incontrato altro che persone forti e coraggiose ma anche rassegnate e schiacciate che vivono nella più totale miseria. Abbiamo guidato in mezzo ai poveri per qualcosa come quindici volte la lunghezza dell’Italia e dobbiamo ancora arrivare. 
Cecilia è la prima volta che viene in un paese povero. Ogni tanto la guardo senza farmi vedere. Espressioni di autentica gioia ed estasi accompagnano la visione di panorami mozzafiato. Ma poi ci pensa lei, L’Africa a toglierle il sorriso dalla bocca. Bambini storpi e sporchi, talmente inermi da non chiedere nemmeno un’elemosina le si avvicinano, solo per ascoltare una parola, solo per farsi fare una carezza.
Io guardo Cecilia che regala una biro, che elargisce carezze e che si fa abbracciare e penso che ho visto troppe volte gente bianca che non tocca i negri. SI, I NEGRI, vorrei scriverlo non maiuscolo, ma con il coltello... Ho visto troppe volte bianchi che si scostano se un negro passa, che pagano un negro tenendo i soldi con la punta delle dita o meglio poggiandoli prima che il negro li prenda a sua volta. 

Il centro di Luanda è la base per lo smistamento delle enormi ricchezze del paese, petrolio compreso.
Il centro di Luanda, fatto di asfalto, palazzi in cemento armato, case vere e marciapiedi è davvero minuscolo.
Da qui la Ilia , una lunga lingua di sabbia e palme, si protende verso 
l’Atlantico formando un bel golfo.
Anche sulla Ilia le case sono vere, le spiagge splendide ed i locali notturni favolosi
Noi ci dirigiamo qui, stiamo cercando il signor Elio, un Italiano che vive qui da anni. A Kinshasa un amico del Fumagalli ci ha fatto il suo nome e ci ha detto di passarlo a trovare portandogli i suoi saluti.
Arriviamo alla sua pizzeria, che in realtà è un fantastico locale sulla spiaggia, stracolmo di persone e musica. Scopriamo che ora il locale lo ha dato in gestione. Ci dicono però dov’è la sua abitazione. Non è difficile da trovare. È l’unica costruzione sulla spiaggia di tutta Luanda.
Maleducati ed invadenti come al solito, bussiamo alla porta di casa.
Il signor Elio ci apre. E un vero siciliano. Dalla testa ai piedi. Ci squadra.
“Il signor Elio?” chiediamo, “siamo quattro ragazzi italiani, arriviamo in macchina dall’Italia e...” Non ci fa finire nemmeno la frase e ci invita ad entrare in casa sua. Siamo quattro sconosciuti, conosciuti da circa venti secondi ed Elio ci invita ad entrare in casa sua. 
In cinque minuti la cara moglie di Elio ci prepara un caffè italiano fatto in una moka, su una cucina italiana e, verremo a sapere poi, in una casa costruita da muratori venuti apposta dall’Italia. Tutto sommato siamo un popolo simpatico. 
Elio, sua moglie e Lara, la loro meravigliosa figlia prendono il caffè sul terrazzo con noi.
Adesso, spiegare quanto queste persone si dimostreranno gentili ed ospitali nei nostri confronti, è veramente difficile. Per raccontarli e raccontare le storie che ci hanno narrato ci vorrebbe un libro a parte. Mangiamo da loro, mettiamo le tende nel loro giardino, Lara la sera ci porta a fare il giro di tutti i locali. Il giorno dopo fanno di tutto per farci rimanere e poi ci accompagnano fino alla periferia estrema della città. Spero un giorno di poterli rincontrare anche se come sempre so che sarà quasi impossibile. Il mondo è grande. Non come recita il detto: “com’è piccolo il mondo”.
Se vivi in una città italiana e a ferragosto incontri il tuo vicino di casa a Riccione o a Santa Teresa di Gallura ricordati che non è il mondo ad essere piccolo, ma qualcos’altro.
Il mondo per parte sua è immenso, per un solo uomo addirittura infinito.

Lasciamo Luanda portandoci dietro il caro ricordo di Lara e famiglia e con la promessa di rincontrarci.
Per un po’ la strada è buona, l’asfalto liscio ed il panorama mozzafiato. Il mare blu cobalto incontra le coste rosse come il fuoco, immense saline abbacinanti si alternano a tratti di spiaggia che ospitano relitti di vecchie navi.
Ma poi la strada cambia, non segue più la costa, l’asfalto peggiora. È una giornata di incidenti per noi. Camion rovesciati a bordo strada, uno carico di agnelli rovesciandosi ha ucciso decine di bestie e le altre scappano in tutte le direzioni.
Di fronte a noi un tir scricchiola e si capovolge . L’autista salta fuori dalla cabina e guarda il camion che si rovescia. Non possiamo fare altro che dargli un passaggio fino alla prossima cittadina. Dormiamo a Lobito in un albergo che offre camere sporche ed afose ed un bagno intasato e puzzolente.
La mattina si riparte, siamo sereni visto che ormai manca poco per arrivare in Namibia. Credo che ci separino dal confine un migliaio di chilometri. Forse in serata ci saremo. 
L’Afrique mon ami, c’est l’Afrique.
Questo non dovrei dimenticarlo mai.
L’asfalto peggiora, finisce. Lo sterrato peggiora, finisce. La pista peggiora, finisce. E così, quasi per gioco, quasi senza rendercene conto ci ritroviamo a passare attraverso strette valli, a scavalcare colline verticali seguendo un tracciato indicato da qualche pietra smossa e da cartelli scritti a mano e piantati su antiche carcasse di mezzi militari saltati sulle mine che ogni venti o trenta chilometri indicano località che non riusciamo a trovare sulle carte geografiche.
Seguiamo una specie di tracciato che ci conduce attraverso una terra desolata e brulla, fatta di terra e rocce, Ogni volta che raggiungiamo a fatica la cima di una collina quello che ci si presenta agli occhi è sconsolante. Altre gole e colline a perdita d’occhio.
Il percorso è allucinante. Una pietraia continua. Dove i massi sono piantati nel terreno riusciamo ad avanzare sobbalzando e torcendo la macchina in modo impressionante. Dove i massi sono smossi la cosa si complica. Dobbiamo stare lontani l’uno dall’altro, a volte il passaggio di un auto crea piccole valanghe di massi. È un continuo saliscendi su pendii tanto ripidi che a volte i Land Rover, stracarichi come sono e con le ridotte inserite fanno fatica a salire. Nelle discese su pietrisco le macchine slittano e sbandano. Ma proseguiamo, quasi alla cieca, verso sud.
Quando ogni tanto ci fermiamo per consultarci o mangiare una scatoletta di carne guardo Federica. Sorride e si guarda attorno. Non la smuove niente. 
Prima di questo viaggio non la conoscevo, imparerò a conoscerla in un mese e mezzo di Africa.
Federica ha già compiuto diversi viaggi nella “Cintura del sud” con Diego e si vede: l’Africa ce l’ha negli occhi, l’Africa l’ha rimbambita come fa con tutti quelli che ci vivono, ci passano, la conoscono.
La pietraia continua ininterrottamente per ore ed ore, non incontriamo anima viva. Una serie di discese vertiginose in cui rischiamo di capottarci più di una volta ci conducono sempre più in basso. Sono sul punto di chiamare Diego via CB e dirgli che forse è meglio tornare indietro quando ci troviamo davanti un grande cartello, storto e arrugginito. Il dipinto di un grande pesce preso all’amo è accostato alle parole ”bem vindos a comuna da Lucira”. Dietro al cartello comincia l’asfalto. Così, senza senso, senza motivo, dal nulla, la strada ricomincia.
Guidiamo ora veloci, incontriamo greggi e pastori, cacciatori armati d’arco e frecce e famiglie di babbuini che attraversano la strada e fuggono sugli alberi per spiarci da lontano.
L’asfalto migliora gradualmente sino a diventare il migliore che abbiamo incontrato da quando siamo partiti da Tangeri.
Tangeri, che parola lontana, se fossi a Tangeri in questo momento credo che volendo riuscirei a tornare a casa a piedi senza problemi.
Attraversiamo scenari magnifici, il tramonto dipinge di rosso i canyon e le alte torri di pietra che costellano il panorama. Zabrinsky Point in confronto potrebbe sembrare una cava.
Quante Americhe contiene l’africa?
Il tramonto colora tutto e poi lo decolora impietoso. Cominciamo a salire verso Lubango che già scende la notte.
Puntiamo dritti verso montagne altissime ed all’ultimo momento la strada impazzisce, uno, due, dieci, venti tornanti sovrapposti, tanto stretti che dobbiamo quasi fare manovra per affrontarli, si susseguono, si sovrappongono. La strada è ripida e stretta. In pochi minuti siamo in vetta. 
Dormiamo in tenda in un campeggio bellissimo e l’indomani ripartiamo. 
Ormai ci siamo. In qualche ora dovremmo arrivare in Namibia, dovremmo arrivare nella “civiltà”.
“L’Afrique mon ami, c’est l’Afrique.”
Ricorda Luca, ricorda e non dimenticare mai.

Pochi chilometri dopo aver lasciato la città l’asfalto diventa il solito tappeto di buchi e fossi. È più vasta la superficie occupata dalle buche che quella coperta dall’asfalto. Cinque seicento chilometri in queste condizioni. Le macchine sussultano, traballano, sbattono. La presenza di qualche residuo di asfalto ci fa credere che si possa avanzare più velocemente, ma non è così. Le macchine producono rumori osceni, in continuazione. L’ininterrotto scrollare non ci permette nemmeno di parlare. Ogni tanto Cecilia si addormenta ma un secondo dopo si risveglia battendo la testa contro al vetro e così via. Un terremoto lungo dodici ore.
Attorno però è il paradiso. Praterie verdi, bassa savana e laghetti limpidi. Persone sorridenti e bimbi che fingono di riempire di terra le buche nella strada per avere in cambio qualche spicciolo.
Paesini e villaggi, villaggi e paesini.
All’imbrunire alcune parti delle auto cedono a causa degli allucinanti e consecutivi scrolloni della giornata. Gli snorkel si staccano, le cinghie che legano le ruote di scorta sui cofani si strappano sibilando, le cerniere dei cofani perdono alcune viti.
Dopo ventimila chilometri di fango, polvere, fuoristrada allucinanti a temperature proibitive i nostri Defender, per altro carichi come dieci muli da soma, devono sentirsi un po’ provati. Sembra si siano rilassati un po’, ma capiamo subito il perché. Cinquanta metri più avanti comincia un asfalto nero e perfetto. Quindici chilometri dopo, percorsi in dieci minuti, siamo alla frontiera con la Namibia.
Di qua l’Angola e più su il Congo, il Camerun, la Nigeria, in una parola l’Africa Nera. Di là la Namibia e poi il Sudafrica, l’Africa dei bianchi. Cento metri più avanti la civiltà, le strade illuminate, l’asfalto sempre nuovo e pulito, le città fatte di cemento vetro e acciaio, le banche, gli ospedali, i teatri e le sale cinematografiche. Di là c’è internet, le linee telefoniche e le fogne. Tutte cose che noi “occidentali” diamo per scontate, ma che in diciassettemila chilometri non ho incontrato. Oltre a quel cancello qualsiasi cosa succeda avremo modo di essere soccorsi, di ritornare a casa in pochi giorni.
Qui, sulla frontiera anche il mio cellulare funziona perfettamente. Mia madre mi chiama. La sento lontana e spaventata, non aveva notizie da giorni. “Come state?” Mi chiede. “Va tutto bene? Qui i giornali hanno scritto che...” La Interrompo spiegandole che so cosa hanno scritto i giornali e che come al solito esagerano per fare notizia. Qui va tutto bene.
“Non ti preoccupare” le dico, “ ormai siamo in Namibia, qui non c’è più pericolo, qui le cause di morte sono le stesse che in Europa.”  Non so se questa affermazione la tranquillizza, so solo che è la verità. Qui, come in Europa si muore di malattie, di vecchiaia e di incidenti. Nell’Africa che abbiamo attraversato, nella “nostra Africa” le cause di morte sono anche altre. Si può morire accoltellati, fucilati o impiccati, si può morire di fame o di sete, si può morire sbranati.
Allora? Cos’è che fa paura? Come al solito il diverso e l’ignoto.
Per quanto mi riguarda I paesi che abbiamo attraversato non sono pericolosi, non più del resto del mondo, ovunque si vive e si muore. Per quanto mi riguarda la cosa più pericolosa che esiste è starsene a casa facendo finta di aspettare qualcosa che, lo sappiamo, non arriverà mai. Pericoloso è guardare solo un metro più in là del proprio giardino e magari, sentirsi autorizzati a  parlare e giudicare di cose che non si conoscono.
Ma ormai noi siamo arrivati. Siamo in Namibia.

“L’Afrique mon ami, c’est l’Afrique.Rappelle toi.”
Alle sei la frontiera angolana chiude. Sono le cinque e mezza ma non fa niente. È chiusa comunque. Oggi non si entra in Namibia.
A mezza notte il nostro visto di transito di cinque giorni scade. Ci dicono che di conseguenza l’indomani mattina potremo avere dei problemi.
Dormiamo nel parcheggio della dogana, circondati da alti reticolati sormontati da filospinato. Questa è una frontiera vera. La prima che incontriamo. 
Seduto sulla sedia da campo fumo e mi godo le stelle lassù in alto, da domani saranno diverse. Non so dire se più vicine o più lontane ma sicuramente diverse.
L’indomani dopo sole due ore di formalità siamo in Namibia. Tre ore dopo viaggiamo a novanta chilometri allora su piste lisce come un biliardo, la polvere che alziamo è quasi un divertimento, sfrecciamo rilassati in aperta savana.
Cecilia urla, si agita, indica.
“Guarda, guarda, fermati.”
 A venti metri da noi ci sono un branco di giraffe che pascolano.
Cecilia piange lacrimoni. La posso capire. È uno spettacolo incredibile. Queste giraffe non sono in tv e nemmeno in uno zoo. Questi animali sono liberi, sono reali. In un attimo il mondo si popola di tutti i sogni di bambino, in un attimo, guardando quelle creature dai colli impossibili, pensi che tutto quello che hai immaginato, sognato e creduto da bambino sia possibile e quello che ti fa soffrire è il fatto che forse per davvero “tout c’est possibile an Afrique.”

Guidiamo per ore tra branchi di gazzelle, gnu, giraffe e zebre. Siamo nell’Africa dell’immaginario collettivo, siamo nell’Africa di Mufasa.
Siamo ad Etosha, costeggiamo l’Etosha Pan, una enorme e piatta distesa bianca fatta di sale, in ogni dove animali. Facoceri, gamesbok e sprinbock, ancora zebre e giraffe.
Passiamo qualche giorno a perlustrare la regione ed a dormire in campeggi con la luce e il barbecue.
Per cena mangiamo bistecche grandi come trentatrè giri. Sembra un sogno. Questo è il paradiso.
La sera si va a piedi alle pozze d’acqua ad aspettare di vedere arrivare gli animali a dissetarsi. 
Diego stà cucinando una montagna di carne ed io lo stò filmando quando Cecilia, di sentinella alla pozza con Federica, arriva urlando come un’isterica “ rinoceronte, rino, rinoceronte, correte.”
Ha visto il suo primo rinoceronte, è eccitata, piange ancora, è commovente.
Effettivamente è una visione che tocca il cuore.
Nel tramonto africano il mastodonte si avvicina lentamente, in modo maestoso, attraversando la savana. Si avvicina e sembra uscire dritto dritto dalla presisoria. Credo che l’immagine di questa bestia rimarrà con me per sempre.
L’Africa dura, quella che ti fa paura, quella che ti mette alla prova, quella che ti spaventa e ti può annientare è finita. Qui l’Africa indossa il vestito da sera e ti mostra il suo lato migliore, il suo lato elegante e raffinato.

Attraversiamo la Namibia su strade perfette, entriamo in Sud Africa da una frontiera pulita ed ordinata, visitiamo l’immensa regione del 
Kgalagadi.
Per qualche giorno riposiamo nelle tende e visitiamo i dintorni, scoprendo zone popolate da leoni e surricate.
Le zebre e le giraffe sono ovunque.
Il campeggio è invaso da scoiattoli e manguste.
Passano giorni da favola.
Federica è assolutamente rapita dagli avvistamenti degli animali, ne conosce le razze, le specie, i comportamenti e le peculiarità. Io credo che se partendo ci dimenticassimo di lei, lei non farebbe niente per avvertirci e rimarrebbe qui per sempre.
Federica è pratica, organizzata e pragmatica, ma l’Africa, quella in abito da sera, riesce a farle ribollire il sangue, ne sono certo, si vede a occhio nudo.
Ripartiamo e puntiamo decisi a sud, sempre più a sud. Attraversiamo deserti e vigneti, paesaggi da far west e colline coperte di viti.
Ormai ci siamo. Passiamo una notte a Calvinia, una città il cui nome dice tutto, al Coker Boom mangio la bistecca più buona e grande che abbia mai incontrato.
La sera del giorno dopo siamo a Cape Town, così, come se niente fosse, come se nulla ci fosse tra qui e casa, guidiamo nel traffico, ci fermiamo ai semafori. Cerchiamo un cartello su cui ci sia scritto Cape Town per scattare qualche foto di rito ma non ne troviamo. Chiamo un amico al telefono, mi dice che sta facendo Kite surf e di raggiungerlo in spiaggia. Poco dopo osserviamo le evoluzioni di Michele sull’acqua cui fa da sfondo la Table Mountain. Abbiamo ancora una montagna di cose da fare. Sentire telefonicamente il signor Messina, che ci ha offerto i passaggi per i nostri Land Rover sulle sue navi per farli rientrare in Italia. Prendere accordi con il Capitano Del Vecchio, nostro referente a Durban per quanto riguarda l’imbarco delle auto. Il capitano Del Vecchio si rivelerà poi 
estremamente gentile e disponibile, tanto da ospitarci a casa sua durante lo svolgimento delle pratiche d’imbarco.
Michele ci saluta con affetto e si da subito da fare per procurarci i biglietti aerei per rientrare in Italia, ci porta a casa sua e ci accoglie come fratelli.
Io mi faccio una doccia, prima gelata e poi calda, mi metto dei vestiti puliti, le calze bianche, le scarpe asciutte, mi butto sull’immacolato divano di 
Michele, guardo Federica che prepara un caffè, Cecilia che passa avvolta in un asciugamano, Diego che parla al cellulare e Michele che, più irrequieto che mai, sposta un materasso. Mi accendo una sigaretta.

Sono di nuovo a casa.

Che peccato.



Scritti ed immagini di Luca Oddera
Grafiche di Diego Assandi


Mappa del viaggio raccontato nel libro "Jambo"




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