lunedì 11 marzo 2019

GLI ARCHITETTI SENZA DIMORA

Di Luca Oddera

Il palazzo, visto da lontano, sembra grande si, ma poi quando ti avvicini le sue dimensioni ti sopraffanno. 
Non è abituato, l'uomo, a vedere un palazzo di tali dimensioni se non inserito in una città.
L'erba, morbida e lunga, copre la prateria come un tappeto. La facciata in cemento inizia così, dal nulla.
C'è solo lui, quaranta piani di cemento e vetri opachi messi lì, in mezzo al niente, in mezzo alla savana, in mezzo alla prateria.
Fosse un immensa meridiana alcune delle sue tacche andrebbero disposte ad un chilometro di distanza.
Fosse un gigantesco monolito della conoscenza non avrebbe ne vetri ne ingresso.
Fosse una torre di controllo ci sarebbero aerei ronzanti come api attorno al favo.
Fosse qualcosa che ha un significato non resteremmo interdetti e spaventati di fronte a Lui.
Ci avviciniamo con le macchine, ci avviciniamo ma non troppo, una cinquantina di metri sono già una vicinanza sospetta.
Scendiamo dalle macchine. 
Il caldo è opprimente il silenzio aberrante. 
Come mai, mi chiedo, se osservo il panorama non trovo nulla di strano nel fatto che nessun rumore si aggiri tra i pochi alberi, mentre se mi volto e guardo l'incombente superficie della facciata mi aspetto dei suoni, suoni di un altro mondo la cui assenza instilla nella mia mente una sensazione di panico incombente, una paura primordiale quasi.
Ma non possiamo restare qui a guardare. 
"Esploratori!" ci è stato detto "Andate e vedete!"
Noi non possiamo sottrarci a questa etichetta che raggira il sorriso, che evita lo scherno, che come un gioco ci è stata adesivata sulla fronte e sulle pagine del giornale, che con grottesca enfasi abbiamo voluto accettare senza meritarne il titolo onorifico che comporta.
Ok. Torcia e bastone, videocamera e macchina fotografica.
Mentre ci avviciniamo noto dei particolari che prima non vedevo: la base del palazzo emerge dalla terra secca, quasi sabbiosa, come se niente fosse. 
Non un cordolo, non un marciapiede, non una linea di giuntura.
Da una piccola crepa nel terreno fuoriesce una fila di grosse formiche. la colonna di insetti prosegue in alto, qualche metro e scompare in una fessura tra vetro e cemento.
il cemento è vecchio ed ha risentito delle intemperie, è macchiato, scolorito e quasi triste. Il palazzo è qui da tempo, lo si vede, lo si sente. Il palazzo è piuttosto vecchio ma in ottime condizioni.
Newton è dietro di me, ma io rallento, osservo e rallento, forse rallento per farmi superare. Tutto sommato non me la sento di entrare per primo.
Newton mi supera entrando nell'ombra. lo seguo con un sospiro di sollievo.
La porta, il portone gigante in vetro è spalancato. Il pavimento, stranamente pulito, si perde in un atrio quasi immenso.
Entriamo e mentre gli occhi si abituano alla bassa luce, il ronzio della prateria si fa sommesso e poco dopo si acquieta completamente. Nessun scricchiolio, nessuno stillare di gocce. Nessun rumore, solo quello del vuoto, solo quello del fluire compresso del proprio sangue vicino ai timpani. 
Un colpo di tosse, il mio, uno strusciare di piedi nelle scarpe di pellaccia, quello di Newton.
L'atrio è grandissimo e luminoso. 
I residui, spogli ma puliti di un desk si stirano pigri tra l'ombra e la luce alla nostra destra. 
Le porte in acciaio lucido di due ascensori sono chiuse ed immobili. le grandi colonne di cemento liscio salgono verso una lontana controsoffittatura in marmo colorato.
Alcune porte si aprono su lunghi corridoi.
Una scalinata larga ed imponente sale ad un mezzo piano rialzato, una terrazza affacciata sul atrio. 
Una balaustra di spesso vetro opaco la divide dal vuoto.
Newton sale la scala ed io lo seguo.
Anche il ballatoio vuoto e deserto è enorme, copre quasi la metà della superficie dell'atrio.
Una fila di vetrate si affaccia sulla pianura circostante e lontano vedo due gazzelle correre, fermarsi, guardare verso il palazzo e poi riprendere la corsa.
Vorrei esse già fuori.
Due piccole porte si aprono sulle trombe di scale. A scendere e salire.
Tre archi danno accesso ad un grande ambiente che poteva servire da bar, ristorante o cucina.
Saliamo di un piano.
La scala è sproporzionatamente stretta e povera. un semplice corrimano in plastica e ferro corre sulla sinistra. i gradini sono di cemento liscio ed i muri sono pitturati sommariamente di bianco sporco.
Quattro rampe a zig zag portano ad un corridoio lungo e ricurvo.
Una fila di porte si stende su un solo lato del corridoio.
Newton si incammina verso destra. Lo seguo. 
Nessun rumore.
Le porte sono in metallo, senza maniglie, senza serrature. Solo una placca di ottone con inciso il simbolo di una mano aperta.
Newton spinge la porta dalla quale si diffonde una tenue luce.
Entriamo.
Uffici, antichi uffici suddivisi in moduli di plastica. nessun oggetto, nulla che serva a datare, capire, dare un giudizio.
Altra porta, altri uffici.
Altra porta, altri uffici.
Uno sgabuzzino e poi altra porta, altri uffici.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
un piano di passaggio, quasi tutto aperto e vuoto, grande quasi come l'atrio ma basso ed opprimente nella sua vastità.
Un altro piano, un altro corridoio, altri uffici. 
Un altro piano, un altro corridoio. 
Dovremmo essere al settimo piano. Qui il corridoio è largo e luminoso. le porte che vi si affacciano sono provviste di grandi maniglie in acciaio e sono più ampie.
Ci sono meno porte e meno vicine l'una all'altra.
Newton gira una maniglia ed entra.
Un appartamento luminoso si affaccia sulla prateria.
Un grande appartamento vuoto.
Un grande salone comunica attraverso un arco con una cucina squadrata ed imponente. 
Legno chiaro ed acciaio.
Mentre newton supera una porta io apro il rubinetto del lavandino. Un suono, un leggero fischio come aria che sfiata, esce dal tubo dell'acqua.
Aspetto qualche secondo poi lo richiudo.
Un'altra porta un altro appartamento, identico ma speculare al primo. 
Ancora una porta, ancora un appartamento.
Un altro piano, altre porte altri appartamenti.
Ancora un piano, ancora appartamenti identici.
Un altro piano ancora. Altri appartamenti ma più piccoli.
Altro piano altri appartamenti.
Siamo al dodicesimo piano, credo. 
Attraverso le finestre dai vetri bruniti vedo la prateria. 
Siamo in alto, qualcosa come cinquanta metri dal suolo.
Riesco a vedere lontano. Prateria, pochi alberi ed in lontananza colline coperte di vegetazione.
Newton torna nella tromba delle scale. Stiamo per salire ancora di un piano quando un colpo, un forte rumore ci giunge dal basso. Non quello di una porta che sbatte, no, piuttosto come un colpo sulla ringhiera della scala. 
Newton si immobilizza.
Un altro colpo.
Paura.
Io comincio a scendere la scala, torcia accesa bastone in alto.
una, due, tre, quattro rampe e passiamo accanto alla porta del piano inferiore.
Scendiamo, spaventati ed affannati.
Mi fermo, mi immobilizzo, una nota stridula, incoerente con tutto il mio essere mi fa fermare e decidere di non desistere.
Guardo Newton che arriva, che mi segue nella fuga.
"Newton, non possiamo scappare, torniamo su."
"Tu sei pazzo, fila, fila via"
Newton mi passa di fianco quasi urtandomi e prosegue la discesa.
La paura è passata.
Senza impeto ricomincio la discesa.
Ad ogni rampa, ad ogni cambio di direzione mi aspetto di incontrare qualcosa, qualcuno.
Quanto eravamo saliti?, mille piani?
Comincio a pensare che siamo scesi troppo, che siamo passati oltre il piano ammezzato, oltre al piano terra, stiamo scendendo sotto terra.
Ma d'improvviso ecco la porta che sbocca sull'ammezzato luminoso e silenzioso.
Ci fermiamo nel centro del grande pavimento inondato di luce.
Siamo sudati fradici, affannati ma meno spaventati.
Lentamente scendiamo lo scalone rivolto alla grande entrata.
Siamo fuori. Un metro, due, tre, dieci, venti.
Apro la portiera della machina, mi volto, nessuno ci segue, niente è successo.
Osservo il palazzo, conto i piani e vedo, lassù, più in alto del piano al quale siamo arrivati, un luccichio, leggero, che filtra attraverso gli scuri vetri. un luccichio che si sposta, poi si ferma. Forse un'ombra ci guarda.
Saliamo in macchina.
Newton parte senza indugio. Ancora qualche istante. Resto fermo, osservo l'ombra lassù, irraggiungibile, solitaria, immobile. 
Ora la vedo meglio, è una sagoma.
Alzo una mano in segno di saluto. 
L'ombra si muove, di nuovo un luccichio. 
Poi d'un tratto l'ombra si muove rapida, veloce, come se corresse, come se stesse correndo da qualche parte, come se stesse…. correndo qui.
Chiudo la portiera, accendo il motore e parto.
Mentre mi allontano osservo il palazzo nello specchietto.
Forse laggiù, nella bocca del palazzo, appare una figura, una figura che resta nell'ombra. 
Qualcosa o qualcuno sembra essere sceso fino in fondo ma senza uscire dall'ombra.
Mi allontano, sempre più veloce, fino a quando raggiungo la nuvola di polvere alzata dalla macchina di Newton.
L'adrenalina se ne va, la paura si allontana, la mano si fa più sicura al volante e mi sento nuovamente presente a me stesso. 
Un dubbio, una curiosità, un tarlo comincia a farsi strada nella mia mente; l'ombra nel palazzo, quel qualcosa o qualcuno che vive quella terra inquietante, quell'essere scuro che non ho conosciuto, quella cosa differente dalla luce, che la mia paura mi ha impedito di affrontare, di vedere, di sapere.
"Esploratori!" hanno detto una volta.
"Codardi" penso io ogni tanto.
L'ombra è rimasta un'ombra.
Il palazzo si allontana e la curiosità cresce, il coraggio aumenta.
Alzo il volume dello stereo, guardo la savana, mi rilasso e sorrido.
Tornerò. 
L'ombra esiste, lo so e tornerò per vedere. Ricaricherò le pile, mi darò coraggio davanti ad una birra, mi organizzerò e tornerò per cercare, per vedere, per capire.
Il palazzo scompare dall'orizzonte ed io guido lungo una pista di terra e polvere, attraverso un panorama che si arrossa dei raggi obliqui del sole. 
La temperatura scende, gli animali si rianimano e corrono via al nostro passaggio. Un'ora o due e saremo da qualche parte, in qualche posto dove ci sono gli uomini, in qualche posto dove potremo dormire all'interno di qualche recinto, circondati dagli uomini, e dalle loro creature.
Tra un'ora o due saremo di nuovo salvi.
Almeno per un pò. 
Fino alla prossima volta.


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