Nota: in fondo al racconto trovi la mappa del viaggio.
Durban
non è un dentifricio.
Sono
passati nove mesi da quando, imbarcate le macchine da Durban,
Cecilia, Federica ed io siamo rientrati in Italia.
Dopo
i tre mesi che abbiamo impiegato per attraversare l’Africa
dall’estremo nord marocchino all’estremo sud mezzo colonizzato
dagli indiani; dopo il rientro a casa e otto mesi passati a
progettare un nuovo viaggio; dopo quindici ore di volo e dodici di
autobus; Diego ed io siamo nuovamente seduti di fronte all’Oceano
Indiano a guardare i surfisti, forse sempre gli stessi, che compiono
evoluzioni su onde nane.
Da
Nando’s il pollo si mangia con le mani, se vuoi puoi chiedere le
posate ma qualcuno ti guarda storto.
Da
Nando’s il pollo si ordina piccante, mediamente piccante o molto
piccante.
Io
mi stò letteralmente divorando un mezzo pollo molto piccante, Diego
di fronte a me stà mangiando un pollo intero solo piccante.
Mangiamo
in fretta per spostarci nel locale vicino a bere una o due birre. Da
Nando’s non si servono alcolici.
Siamo
atterrati quattro giorni fa a Johannesbourg, a Joburg come dicono
qui, abbiamo fatto una gara contro il tempo per prendere un bus in
giornata e percorrere i seicento chilometri che ci separano da Durban
dove avremmo dovuto ritirare i nostri due Land Rover e partire alla
volta dello sterminato nord africano.
Tra
due giorni è capodanno, le nostre macchine sono bloccate in porto
per le pratiche di sdoganamento, il nostro referente per la Messina
Lines, il Capitano Del Vecchio, non lavora più qui, così ci
dobbiamo configurare con un ragazzo di origine indiana che pensa più
ad organizzarsi la festa di fine anno che a fare uscire le nostre
macchine dal porto.
Il
porto di Durban sembra essere l’unico angolo di Sud Africa dove
tutte le leggi vengono applicate con meticolosità.
In
Sud Africa, pare, non possono entrare veicoli con guida a sinistra.
Molto strano visto che pochi mesi prima abbiamo circolato per la
Repubblica per un mese con le stesse auto e le abbiamo imbarcate per
l’Italia da questo stesso porto.
Così
siamo bloccati a Durban per chissà quanto tempo. Bisogna aspettare
che inizino le feste, bisogna aspettare che le feste si svolgano e
bisogna attendere che le feste finiscano.
Arriva
il capodanno che siamo stanchi e sfiancati da quattro giorni di liti
negli uffici dell’agenzia che si occupa delle macchine.
Per
tutto il giorno la città è a soqquadro, poliziotti e uomini della
municipalità spostano Jersey di qua e di là, sbarrano strade ed
accessi pedonali e barricano l’intero Water Front. Le milizie si
schierano in assetto da guerra vestite con le attrezzature anti
sommossa. Nel nostro Backpackers si raccolgono le firme per il
Barbecue di fine anno. Noi, ignari di tutto alle nove usciamo e ci
dirigiamo verso il mare. Le strade brulicano di decine di migliaia di
persone che bevono e festeggiano. Noi gironzoliamo qua e là fino ad
arrivare sull’ampia passeggiata che costeggia l’oceano. Un fiume
di persone si sposta incessantemente su e giù, io e Diego ci
buttiamo nella corrente e ci lasciamo trasportare verso nord, verso
la zona che normalmente è frequentata dai Surfisti e dalle famiglie
di turisti.
Nell’aria
c’è qualcosa di strano, si sente la tensione che precede una
festa, ma moltiplicata per mille. Mi sento addosso gli occhi di
tutti. Forse è solo una sensazione. Controllo. Eppure… tutti ci
guardano. Guardo Diego , in mezzo a quel milione di facce e sto per
chiedergli che cosa ne pensi. Diego è bianco come un cadavere, o
meglio, è bianco e basta, come me del resto. Il problema e che siamo
gli unici bianchi in mezzo a milioni di facce nere come il carbone.
Mi gira la testa.
Noi
facciamo finta di niente e continuiamo a camminare, molta gente ci
saluta con affetto e ci augura buone feste, altre persone ci guardano
storto e qualche gruppo di ragazzi ci guarda chiaramente male e con
aria di sfida.
Ci
infiliamo in un ristorante dove una bottiglia di vino bianco, un po’
di pesce e qualche birra ci aiutano ad allentare la tensione.
Il
cameriere ci dice che dobbiamo fare presto, sono quasi le undici e
devono chiudere, inoltre vuole obbligarci ad andare via solo se un
taxi ci viene a prendere.
Noi,
noi che abbiamo compiuto l’impresa di attraversare tutta l’Africa
da nord a sud, venticinquemila chilometri di puro inferno; noi non
abbiamo paura di niente. Quindi usciamo e ci dirigiamo a piedi verso
le vie dell’interno.
La
tensione è più alta, la gente è ubriaca. Noi, così coraggiosi
dobbiamo faticare a non camminare più veloci, ogni tanto mi viene
voglia di mettermi a correre, per scappare da lì. La sensazione è
che la gente che mi guarda, la gente che ci scontra lo faccia per
cercare un pretesto per poterci mettere le mani addosso, per
linciarci.
Un
poliziotto che presiede l’ingresso di una via ci vede, sgrana gli
occhi e poi ci fa il gesto di correre, ci dice di attraversare la
strada e di andarcene di lì velocemente.
“Fast, fast, go, go, not here!”
Noi
attraversiamo la strada di corsa e sentiamo botti e spari provenire
dalle vie alle nostre spalle. Un Taxi ci accosta e ci carica; riparte
in tutta fretta.
Sono
sudato, non sto bene ma siamo scampati a qualche pericolo.
Il
taxsista ci spiega che girare per Durban la notte di capodanno non è
per niente salutare, specialmente in quella zona e soprattutto per un
bianco.
“La
gente spara e si spara” ci dice.
La
città sembra in assetto da guerra, il taxista ci consiglia uno o due
locali nella “zona bianca” dove noi potremmo andare a fare
serata. Gli diciamo che va bene.
Mentre
guida il tassista tiene informata costantemente la centrale della
nostra posizione, segnala via radio le vie e gli incroci che mano a
mano passiamo.
Poco
dopo la città cambia, le strade sono sempre meno affollate, le vie
più larghe, le case più belle e le aiuole più verdi.
L’autista
si rilassa e smette di comunicare con la centrale.
Siamo
nella Durban abitata dai bianchi. Vie larghe costeggiate da villette
con giardino o da palazzi in stile colonial perfettamente restaurati.
I
semafori qui fanno il loro dovere ed al rosso la nostra auto si ferma
e con il verde riparte.
Finiamo
il 2006 in un locale molto grande e bello pieno di gente ubriaca che
festeggia l’arrivo del 2007. Ci saranno un migliaio di persone e
l’unica persona di colore che vedo in tutta la serata è un enorme
buttafuori che sorveglia l’entrata.
L’apartheid
è finito da molti anni ma qui l’unica soluzione possibile mi pare
possa essere solo un gigantesco frullatore, visto che i neri
festeggiano per strada ed i bianchi in un quartiere che sembra di
stare nel New England.
Johannesburg in un solo minuto.
Cinque milioni di abitanti. Mica noccioline.
Noi abbiamo potuto darle solo una fugace occhiata. L’abbiamo
attraversata da cima a fondo una volta di giorno ed una di notte. Le
storie che mi sono state raccontate su Johannesburg sono mille, i
momenti in cui l’ho vista sono solo due.
Nel 1886 Johburg non esisteva, al suo posto sorgevano, sparse,
quattro fattorie. Un tal Gorge Harrison, cercatore d’oro
australiano, trovò quello che venne poi definito il più grande
giacimento d’oro di tutti i tempi.
1889, tre anni dopo. Johannesburg conta centomila abitanti, centinaia
di bordelli e bar (saloon?).
In pochi anni la città diventa la più grande dell’Africa
meridionale, cercatori d’oro, avventurieri e disperati di ogni
razza e colore arrivano da ogni parte del mondo contribuendo a
rendere il Sudafrica noto come la “Nazione Arcobaleno”.
Governo e boeri abrogano leggi per tenere lontani neri e stranieri. I
signori del Rand (Randlords) e gli avventurieri si alleano contro il
governo e le guerre anglo-boere del 1899-1902 trasformando Johburg in
una città fantasma.
L’oro però farà in modo che la città torni ad essere il fulcro
economico del Sudafrica. Questa volta sotto il controllo degli
inglesi le attività estrattive riprendono e la città cresce a ritmi
vertiginosi per decine di anni.
Oggi a Johannesburg ci sono i grattacieli, le Township e le ville dei
miliardari; ci sono gli ospedali, i musei ed i centri internet.
Noi attraversiamo la città dall’aeroporto fino alla stazione dei
bus e da li fino all’estremo sud per poi dirigerci nel Mpumalanga e
quindi a Durban.
È giorno e Johburg è una città più che normale, almeno per i
canoni sudafricani. Code di macchine per strada e viavai di gente sui
marciapiedi, bancarelle e negozi si mischiano senza soluzione di
continuità. Indiani, arabi e cinesi si mischiano per le strade con
cingalesi e africani di ogni nazione. Inglesi ed olandesi
chiacchierano con giapponesi e…. chissà chi altro.
Noi partiamo per Durban e quindici giorni dopo siamo di ritorno.
Questa volta attraversiamo tutta la città di notte, da sud
all’estrema periferia a nord.
Diego ed io ci abbiamo messo quindici giorni per far sdoganare le
macchine e tutto quello che siamo riusciti ad ottenere è stato che i
due Land Rover fossero caricati su un tir e fatti partire alla volta
del confine con lo Zimbabwe.
Viaggiamo da Durban a Johannesburg in bus e durante il tragitto ci
vediamo sorpassare dalle nostre macchine ben legate al secondo piano
del tir.
Siamo in contatto telefonico con un certo Patrick il quale, a sua
volta, è in contatto con i due autisti. Noi volevamo viaggiare sul
tir con le nostre macchine sino dalla partenza ma le autorità ce lo
hanno impedito. Adesso però prendiamo accordi con Patrick.
Se siamo disposti a pagare una “mancetta” agli autisti, loro ci
aspetteranno in un’area di servizio appena a nord della città e ci
faranno salire in cabina con loro.
“No problem for the tip, But you say at the driver to wait us. We
arrive!”
“Ok.They wait in the nord station called Total Station. Ok? 40 Km
at nord Ok?”
“Ok. No problem.”
Parlare inglese senza averlo studiato, su un telefono che funziona a
scatti e con un ritardo di almeno dieci secondi e con uno sconosciuto
è davvero un’impresa. Se ci aggiungiamo che bisogna prendere
accordi sui tempi ed i modi per incontrare un tir tra gli svincoli di
una città africana di cinque milioni di abitanti, allora l’impresa
può risultare impossibile. Ma Diego si destreggia egregiamente.
Chiediamo a Patrick come faremo a riconoscere il nostro Driver e ci
sentiamo rispondere di non preoccuparci perché sarà lui a
riconoscere noi. “Due Bianchi in giro per Johannesburg, in
periferia in piena notte risaltano come una pisciata nella neve
fresca”. Patrick è stato abbastanza chiaro.
Il terminal dei bus durante la notte sembra una zona militare:
guardie armate sorvegliano i cancelli agli ingressi, qualcuno ci dice
che le recinzioni sono elettrificate e le poche persone nelle sale di
attesa ci fanno capire che per uscire bisogna aspettare la luce del
giorno.
Fatichiamo per più di un’ora per trovare un taxista disposto a
portarci al rendez-vous con gli autisti del tir. Ovviamente, visto
che i taxi di notte non circolano ci vuole una bella “mancetta”
per convincerlo. In Africa con i soldi ottieni tutto, questo si sa.
Ma questa volta la mancia è davvero salata: “La mancia è
proporzionale al rischio” ci dice il taxista.
Questo non mi rilassa per niente.
Partiamo su un Mercedes scassato che ha almeno vent’anni, tutto
tappezzato di stoffe leopardate e zebrate, perfettamente in tema con
il continente in cui ci troviamo.
L’autista paga a sua volta una mancetta alle guardie dell’ingresso
che, guardandosi attorno furtive, ci aprono i cancelli. L’autista
pagherà altre mance lungo il percorso, pagherà dei passanti per
avere informazioni su dove si trova il luogo in cui dobbiamo andare.
In tutta l’Africa funziona così: tu paghi delle mance che a loro
volta serviranno a pagarne altre decine. Il sistema alla fine
funziona sempre.
Johannesburg di notte è uno spettacolo affascinante, di notte è
un’altra città.
Escludendo qualche catorcio guidato da bande di neri, la città è
completamente senza macchine, le strade sono deserte e quindi
sembrano larghissime. Non ci sono auto parcheggiate, non ci sono
auto in coda e nemmeno rumore di motori di clacson o di voci.
Forse quello che colpisce di più è proprio il silenzio che si sente
passando tra gli alti grattacieli.
Qua e là qualche bidone pieno di legna e rifiuti brucia per scaldare
uomini di colore vestiti con un cappotto sdrucito, con guanti
strappati e senza le dita che si fanno compagnia con carrelli della
spesa colmi delle loro sudice cose. Mi aspetto da un momento
all’altro di vedere passare Rocky Balboa nella sua tuta grigia in
pieno allenamento. New York primi anni ottanta. Ecco cosa sembra
Johannesburg di notte. Ci sono persino i tombini che fumano. La
differenza è che qui si muore dal caldo e che quindi quello che esce
dai tombini non è vapore ma chissà quale fumo. E poi mi domando
perché queste specie di barboni portino cappotti e guanti senza
dita, forse è uno status-symbol, come i vostri Rolex e le vostre
borsette LV, come le mie felpe con il cappuccio e le scarpe da
ginnastica.
“Fate finta di non essere bianchi!”
Questa frase mi coglie un po’ di sprovvista.
L’autista ci chiede di “far finta di non essere bianchi”.
E come si fa a far finta di non essere bianchi?
Fermatevi a questo punto della lettura, non andate avanti e per dieci
minuti provateci; provate a far finta di non essere bianchi. Tanto
non ci riuscirete mai, vi verranno in mente un sacco di stupidaggini,
roba da riderci sopra, ma non ci riuscirete.
La soluzione è semplice: io mi tiro su il cappuccio della felpa,
nascondo le mie mani bianchicce e chino la testa. Diego si mette un
berretto e fa la stessa cosa.
“Ben fatto” ci dice l’autista.
Eccoci qui che sfrecciamo di notte per la periferia di Johannesburg
trasformati in due cazzo di rapper americani. Speriamo che non ci
fermino per chiederci gli autografi.
Così, a capo chino, quasi fosse una penitenza, guardiamo di
sottecchi la periferia degradata, distrutta e violenta; brutti
aggettivi che però danno il senso di quello che si vede dal
finestrino. Ma questa potrebbe essere solo l’impressione di una
persona che questa città l’ha vista e la vedrà solo per poche
ore.
In un’ora siamo alla stazione di servizio. L’autista ci aiuta a
scaricare i bagagli in fretta e furia, ci stringe le mani, salta in
macchina e sgomma via.
La periferia fatta di svincoli e baracche ci circonda.
Dietro di noi la stazione di servizio, con le pompe e la tettoia
lucidissime e lo spaccio di bibite, panini e chewingum così pulito,
illuminato e asettico da non sembrare vero. La stazione di servizio
qui in mezzo, con le sue luci al neon ed i suoi colori brillanti
sembra un’astronave appena arrivata da marte.
Dentro due marziani in divisa giallo rossa fanno le pulizie.
Ci sediamo vicino ad un tavolinetto di legno con tanto di ombrellone,
facciamo un mucchio dei bagagli e lo usiamo come divano.
“Che provino a rubarmi qualcosa” penso. “Dovranno passare sul
mio cadavere, o per lo meno spostarmi”
Mentre ce ne stiamo seduti sui nostri bagagli ci avvicina un tipo
davvero brutto. Come si dice nei libri? “Un tipo poco
raccomandabile”.
Ci viene incontro un uomo di colore ma con la pelle giallastra, porta
i capelli a riccioli cortissimi ed ha due baffetti sottili sottili.
Jeans, camicia aperta e ciabatte. Sembra un trafficante di coca
portoricano.
Si siede accanto a noi
“Avete una sigaretta?”
“Certo. Eccola” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di
niente.
“Da dove venite?” Mi chiede.
“Da Durban” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di
niente.
“Nel senso di dove siete!”
“Italiani” E mi giro dall’altra parte e faccio finta di niente.
“E dove andate?”
“Senti: se ti do tutto il pacchetto di sigarette poi mi fai il
piacere di andartene?” Gli passo il pacchetto, mi giro dall’altra
parte e però non riesco a fare finta di niente.
Lo guardo di nuovo.
“Guarda che non le voglio le sigarette” mi dice “ ne fumo solo
una ogni tanto, fanno male.” E mi passa il pacchetto indietro. “Era
solo per fare due parole.”
“Senti” gli dico con tono paziente “ io non ho problemi con te,
però stiamo aspettando una persona, ‘un driver’ capisci? E se ti
vede qui magari non si avvicina.”
“Perché no?”
“Perché….. perché….. perché non ti conosce, ecco perché”
non so che dire, sono un po’ a disagio.
“Forse perché sono nero?”
“No..no.. figurati…solo che… che non ti conosce… e…”
“Perché a voi vi conosce?”
Ecco, l’atmosfera si sta scaldando, cosa gli dico ora? “Senti:
questo Driver arriva da Durban con le nostre macchine, abbiamo
appuntamento qui, si aspetta di trovare due bianchi e non due bianchi
ed un nero e tu… poi… alla fine dei conti… non presenti nemmeno
tanto bene…” ecco l’ho detto”
L’uomo non ci fa nemmeno caso, lo dicessero a me mi guarderei
subito i vestiti e chiederei cosa vuol dire “non presenti tanto
bene.”
“E poi dove andate con questo camion?” mi chiede.
“Uffa, che palle. Andiamo a nord, al confine con lo Zimbabwe, in
una città che si chiama Messina.”
L’uomo estrae dalla tasca un cellulare, compone un numero e dopo
qualche istante parla:”Ciao Patrick, sono io, tutto ok, sono due
bravi ragazzi.”
Mi guarda e sorridendo compiaciuto mi dice :”I’m your Driver”.
“Sono io il vostro autista.”
Me le ricorderò per sempre queste parole, le ricorderò per sempre
perché hanno trasformato un uomo, per lo meno lo hanno trasformato
ai miei occhi. Prima avevo di fronte un brutto ceffo, una specie di
barbone, un probabile aggressore, brutto e sporco. Adesso di fronte a
me c’è un ragazzo, che stà facendo il suo lavoro, ha i lineamenti
fini e la faccia intelligente.
Anche lui si è rilassato. È incredibile, ma la diffidenza porta a
questo. Il nostro autista, un uomo abituato a guidare tir nella
sconfinata cintura del sud (Sudafrica, Botswana, Namibia e Zimbabwe)
che prende informazioni prima di dare confidenza, a due ragazzi,
bianchi e ben vestiti.
Cosa posso pensare? L’unica cosa che mi viene in mente è che non
voglio nemmeno sapere perché un povero diavolo di colore debba avere
paura di due ragazzi bianchi ben vestiti, nel cuore della notte e
nella sua città.
Camminiamo mezz’ora con i bagagli in spalla, percorriamo il bordo
della superstrada muovendoci nell’erba alta.
Arriviamo al tir.
Finalmente ci siamo definitivamente ricongiunti ai nostri Land Rover.
Conosciamo l’altro autista: un uomo o molto vecchio o molto stanco,
con il viso coperto di rughe ed un cappellino unto sulla testa. Pelle
nera, capelli neri, occhi neri e cornee gialle. Black man. Very black
man. Non parla inglese, parla solo il suo dialetto. Ma tanto basta,
basta un autista che conosca un po’ di inglese.
Ci mettiamo d’accordo sul sovrapprezzo, in fondo ci danno un
passaggio.
Dietro ai sedili c’è un tavolaccio con due coperte, una fa da
materasso, l’altra da coperta. Diego ed io ci rannicchiamo lì
dietro, con le ginocchia al mento, sprofondati tra i nostri bagagli.
Gli autisti in cambio della mancia per portarci non useranno il
lettino questa notte.
Si parte, seicento chilometri, un po’ su asfalto un po’ su
sterrato, tutti con il culo su una panca di legno.
Dormo a tratti, ogni tanto una buca mi fa dare delle testate che mi
svegliano. Stiamo scomodi, cominciamo a puzzare un po’. I vestiti
ci si appiccicano addosso per il sudore e poi, quando vengono aperti
i finestrini la polvere ci aggredisce e l’aria ci congela. Crampi
alle gambe, insonnia, caldo e freddo, sporco e polvere, le voci
incomprensibili degli autisti che fanno da sottofondo, gli scrolloni
ed i fari fiochi del camion che illuminano una strada ormai diventata
stretta e sconosciuta. Le fugaci apparizioni di animali e persone che
fuggono dal centro della strada per non essere investite, il camion
che non rallenta e gli autisti che si lamentano della lentezza dei
pedoni nel saltare di lato. Le leggi di vita invertite. Qui per
esempio il pedone ha sempre torto. Il confine con lo Zimbabwe che ci
aspetta. La luce del giorno che si fa attendere ma che illuminerà un
mondo completamente sconosciuto ai nostri occhi, sconosciuto in ogni
suo minimo particolare, sconosciuto in tutta la sua immensità.
L’immensità africana.
Non lasciateci, noi dormiamo un po’ ma domani mattina saremo al
confine, dove nuove avventure ci accompagneranno per tutta la
giornata.
A domani e buona notte.
La
sindrome americana.
(Tex
Willer, a cavallo, ci avrebbe lasciato le piume.)
Da
Beitbridge-Messina costeggiamo la border-line tra Repubblica
Sudafricana e Zimbabwe per centoventi chilometri. La strada è
piatta, a tratti perfettamente asfaltata, a tratti perfettamente
sterrata. Nuvole di polvere si alzano al nostro passaggio e dall’alto
sorvegliano il nostro viaggiare.
Costeggiamo
il Limpopo che a sua volta costeggia i fili spinati del confine. La
terra è piatta e arida, il caldo soffocante.
In
un’ora siamo al confine con il Botswana, noto come “il segreto
meglio custodito dell’Africa”.
Sono
ormai due anni che sento Diego elencare le meraviglie di questa
terra; un po’ gli credo un po’ no. Realtà o stati d’animo? Nei
racconti le due cose sono troppo difficili da scindere.
Confine,
dogana, funzionari rilassati e sorridenti. I documenti sembrano non
in regola. Manca l’indispensabile Carnet de passage.
All’ombra
di un mopane due sorrisi con i poliziotti ed un’occhiata alla
cartina che segna il nostro infinito tragitto sulle portiere delle
macchine e tutto è risolto.
Passate
pure, nessun problema, nessuna firma nessun timbro. Dobbiamo
insistere per avere il visto di uscita dal Sud Africa. Qui fa troppo
caldo per entrare in una baracca di lamiera a compilare documenti.
Un
bracciante, seduto accanto al suo scassato trattore vecchio di un
secolo, si incarica di attraversare la strada polverosa e di andare a
prendere il timbro.
Il
cofano del mio Defender, bollente, diventa una scrivania.
Due
timbri e due pacche sulle spalle.
Ripartiamo,
siamo nella striscia di terra di nessuno che divide tutti i paesi
africani.
La
strada scende e si infila nella folta vegetazione che fa da cornice
al Limpopo.
Diego
è davanti a me di qualche centinaio di metri.
Giro
una curva e vedo l’Africa in tutto il suo splendore abbigliata del
suo miglior abito da sera.
Diego
stà guadando il Limpopo, largo qualche centinaio di metri e profondo
non più di ottanta novanta centimetri.
Mezzo
Land Rover spunta dalle placide e tiepide acque del fiume e sulla
riva un branco di elefanti si crogiola nell’acqua.
Anche
le verdi sponde del fiume sono invase dai mastodonti.
È
la prima volta in vita mia che vedo degli elefanti in libertà. Lo
spettacolo è favoloso. Abituato ad un mondo dove ogni animale anche
minimamente fastidioso per l’uomo è stato fatto sparire, vedere
venti o trenta bestioni di diverse tonnellate è uno spettacolo che
non si può descrivere.
Ingrano
la prima ed entro nel fiume come se fossi in barca. I nostri Land
Rover passano a pochi metri dagli elefanti.
Risaliamo
la sponda fangosa del Limpopo ed in pochi minuti siamo alla frontiera
del Botswana.
Qualche
turista sudato e rilassato è seduto sui fuoristrada da safari ad
aspettare che la guida gli sbrighi le pratiche doganali. Tre
babbuini rovistano nelle auto lasciate incustodite cercando cibo o
qualunque cosa possa apparire interessante: un telefonino, un paio di
forbici o anche dei fogli di carta.
Due
battute sul calcio italiano ed il gioco è fatto, passaporti timbrati
e firmati. Possiamo risiedere legalmente in Botswana per tre mesi.
Spendiamo venti dollari.
“Welcome
to Botswana.”
Non
serve nemmeno il cartello con questa dicitura, basta il comportamento
di elefanti e doganieri. Splendido paese.
Filiamo
come treni su piste di sabbia rossa incandescente.
Il
caldo è allucinante, persino più insopportabile di quello del
Sahara. Le temperature superano i cinquanta gradi e solo mantenendosi
in costante movimento con i finestrini aperti si riesce a respirare.
Ci
fermiamo per fare delle fotografie ma, al secondo scatto saltiamo in
macchina e ripartiamo.
In
macchina a gennaio in Ungheria a meno trenta non riuscivo a stare
fuori dall’abitacolo per più di un minuto o due, qui è la stessa
cosa. Il caldo è talmente forte da sentirlo addosso come un peso.
Ottantacinque gradi di escursione termica, dai meno trentadue
dell’Ungheria ai cinquantatrè del Kalahari. In mezzo la quiete
climatica delle alture della Liguria.
Dopo
un centinaio di chilometri di piste sabbiose arriviamo a Bobonong,
ridente villaggio-fornace situato alle propaggini del più antico
deserto del mondo.
Qui,
qualche casa in mattoni la fa da regina in mezzo alle capanne ed un
benzinaio con insegna svetta come un grattacielo.
A
Bobonong non si accettano Rand sudafricani, Dollari Usa o Euro. Noi
li abbiamo tutti e tre e abbiamo anche una sete mortale che ci fa
bruciare la gola ed i polmoni.
Ci
dicono di provare al “negozio dell’indiano” distante solo
qualche isolato.
Mi
sembra di fare cento chilometri, invece ne percorriamo uno o due.
Il
“negozio dell’indiano” è una specie di rosticceria, la gente
viene qui a piedi con cinquanta gradi di temperatura nell’aria ed
acquista pollo e carne cucinate sul momento e poi si allontana
mangiando. Un gelato no? È un’idea troppo stupida rinfrescarsi con
il caldo?
L’indiano
è proprietario anche di due vetrine frigo della Coca Cola piene di
ogni ben di Dio. Acqua, Coca Cola e Sprite.
L’indiano
non accetta Rand Sudafricani, Dollari Usa e nemmeno Euro. Noi li
abbiamo tutti e tre.
Ci
dice di aspettare che finisca di servire dei clienti, poi ci
accompagnerà in un posto dove forse ci verranno cambiati i soldi.
Io
non riesco più a parlare da quanto ho la bocca e la gola secche.
L’indiano
manda un inserviente a vedere se all’ufficio di non so che cosa
hanno da cambiare soldi.
Dopo
un quarto d’ora e venti polli bollenti venduti, l’inserviente
torna: “Purtroppo all’ufficio non accettano Rand Sudafricani,
Dollari USA e nemmeno Euro.”
Non
ci posso credere. “E allora cosa accettano?” domando con un filo
di voce.
“Pula”
mi risponde beatamente l’uomo.
Ma
maledizione, se avessi della moneta locale cosa me ne farei del
cambio?
Credo
di cominciare a delirare.
Diego
riesce ancora a parlare e si mette a conversare con un gigantesco
omone nero alto almeno due metri e con un’infinità di rotoli
lardellosi che gli coronano il collo da toro. Occhiali e baffi lo
fanno somigliare più ad un professore che ad un Boxer.
È
il sindaco della municipalità, e con un gesto che ha del magico si
fa dare tre bottiglie di acqua ghiacciata.
Una
la da a Diego, una a me ed io risorgo dall’incubo della sete.
Il
sindaco ci porta in giro per la “città”, tutta incredibilmente
uguale a se stessa: qualche casa in mattoni, molte capanne e
tantissima terra.
Ci
chiede di noi, ci racconta di lui e ci invita a spedirgli dall’Italia
le divise per un’intera squadra di calcio.
Sul
sedile posteriore una bibbia con copertina in pelle mi guarda di
sbieco e mi sorride.
A
casa di un amico del gigante troviamo una signora che ci cambia dei
dollari.
Tutto
è a posto, ora anche le macchine potranno bere.
Tra
centocinquanta chilometri troveremo la statale asfaltata che conduce
a Francistown.
Sempre
più dentro ad un deserto infuocato, sempre più smarriti ed
abbagliati da paesaggi che sembrano addirittura caricature
dell’ultima frontiera americana, quando ancora i cowboy sparavano
agli indiani.
Qui
tutto è esagerato: il deserto è più arido, l’aria più calda ed
i panorami più sconfinati. I fili spinati sono più arrugginiti ed i
pick up più consunti, gli indiani più scuri ed i cowboy più
giovani di un secolo.
In
due giorni arriviamo al cartello di ingresso di Maun, leggendaria
terra di safari, ultimo avamposto civile prima degli sconfinati e
meravigliosi parchi del nord.
Maun,
una cittadina del far West collegata ad Internet.
Pont
Drift – Maun cinquecento chilometri, gennaio 2007 temperatura media
cinquanta gradi centigradi.
N.B.
non si accettano Rand, Dollari e nemmeno Euro.
Maun
Arriviamo a Maun durante un periodo di caldo eccezionale anche per
queste zone.
Mi chiamano da casa e mi dicono che fa un caldo incredibile, a Savona
sono arrivati a 27 gradi.
Quando noi ci fermiamo in centro a Maun a bere una birra al riparo di
un’acacia, il termometro ne segna 46.
I marciapiedi sono deserti ed il caldo lo senti come una presenza
fisica.
In quattro e quattr’otto saliamo sulle macchine e facciamo il giro
della città con i finestrini aperti che fanno entrare un’aria
comunque calda.
Facciamo un giro perché Diego vuole vedere cosa è successo qui
negli ultimi anni. Nel 2000 questa cittadina era una specie di
avamposto per coloro che volevano spingersi nei parchi più a nord.
Un piccolo aeroporto con la pista in terra battuta era il modo più
comodo per giungere qui, poi c’era un solo supermercato con i
generi di prima necessità, un ambulatorio e qualche abitazione.
Oggi Diego non riesce ad orientarsi, le strade sono state tutte
asfaltate, la città è decuplicata e da ogni parte lavori in corso
indicano il sorgere di nuove strutture. Due internet cafè ed un
modernissimo aeroporto hanno soppiantato l’ufficio postale ed il
gabbiotto in lamiera dell’ Air-Botswana.
Però la sensazione di essere in un avamposto di frontiera persiste,
l’aria che si respira è quella di una cittadina dove ancora si
possono incontrare avventurieri e furfanti, commercianti di diamanti
e piloti di piper in tuta grigia. Arrivano molti più turisti di un
tempo ma il turismo quello vero e proprio di massa è ancora molto
lontano.
Arrivano piccoli aerei con comitive che vengono subito caricate su
Land Rover o Toyota allestite per fare safari. I turisti scompaiono
in un lampo in qualche alberghetto ed il giorno dopo partono subito
per i parchi.
Così in città si incontrano principalmente le persone del posto o
le guide che fanno scorte di cibo e acqua. Qualche viaggiatore zaino
in spalla si trascina per le vie assolate alla ricerca di un
passaggio per arrivare ai camp site fuori città.
Noi compriamo dieci litri di acqua due bistecche grosse come una
mucca ed usciamo da Maun.
Arriviamo all’Audi Camp a metà pomeriggio.
L’Audi camp non è un posto propriamente spartano è invece un
paradiso dal quale non ci scolleremo per almeno quindici giorni. Le
piazzole sono provviste di BBQ con tanto di griglia girevole. Le
acacie fanno ombra alle tende ed alle macchine e uccelli dai mille
colori si posano ad un metro da noi in attesa di una briciola.
Una struttura in legno con il tetto in paglia ospita un formidabile
bar con un bancone a s lungo dieci metri. Un’altra capanna enorme
senza pareti è il ristorante dal sapore coloniale e poco più in
basso una piscina protetta dalle fronde delle acacie e dei baobab è
la nostra isola felice nell’asfissiante caldo del gennaio più
caldo della storia.
Così piazzati, tra serate fatte di bistecche e gin and tonic e
giornate in cui visitiamo i dintorni e ci informiamo sui prezzi dei
terreni in vendita nella zona, aspettiamo l’arrivo di Federica e
Cecilia.
Passo almeno quattro ore al giorno immerso nell’acqua della
piscina. In pomeriggio il caldo è talmente insopportabile che
bisogna stare immobili, all’ombra e si fa fatica persino a pensare.
Qualche volta provo a leggere ma il solo reggere il libro (il mago di
Oz) mi fa sudare. Sfogliare le pagine mi fa sudare le mani e poco
dopo tutte le pagine sono umide, così mi tuffo in piscina con i
compagni di queste lunghe giornate, un bastardino nero ed un pastore
della Rodesia che regolarmente fanno il bagno con me.
Poco più lontano un torrente scorre placido nella savana e la sera
si vedono le antilopi che vanno a bere.
Come ormai ci capita sempre più spesso, siamo diventati un po’
l’attrazione del camp site. Tutti vogliono sapere come è stato
arrivare sino a lì attraverso tutta l’Africa dell’ovest e che
strade intendiamo percorrere per tornare in Europa.
Campeggiatori sudafricani super attrezzati con cucine da campo degne
di un ristorante, vengono a vedere interessatissimi la nostra
cucina-cassettone fatta in casa con tavole di recupero e ne restano
affascinati.
Molti non possono credere che siamo riusciti a discendere l’Africa
dell’ovest, troppa strada, troppi problemi, troppe guerre.
Il giorno che arrivano Federica e Cecilia, è ormai qualche settimana
che Diego ed io ci aggiriamo per il Sud Africa ed il Botswana e, di
conseguenza, la nostra pelle si è già scurita. Cecilia e Federica
invece scendono dall’aereo bianche come il latte. Chi arriva fresco
fresco dall’Europa fa sempre uno strano effetto, sembra malaticcio
e fuori luogo. Faranno presto ad abituarsi, anche perché il caldo
quello esagerato, quello che rimarrà storico, pare sia finito il
giorno prima e nuvole provvidenziali oscurano il sole durante il
pomeriggio.
Lasciamo passare due giorni in cui Cecilia e Federica si riposano e
si ambientano. In realtà io non andrei mai via dall’Audi Camp.
Troppo bello, troppo comodo e soprattutto troppi i chilometri che ci
aspettano nei prossimi mesi. La felicità e la gioia di dover
continuare un viaggio che durerà mesi, si mischiano con una profonda
stanchezza del corpo e dello spirito.
La sera guardo le stelle, più vicine, brillanti e soprattutto più
numerose che nel nostro emisfero. Non so ancora cosa ci aspetta,
dovremo percorrere decine di migliaia di chilometri attraverso terre
sconosciute e spesso pericolose. Terre infestate dai banditi e da
autisti pazzi che incroceranno le nostre macchine di giorno e di
notte. Dovremo guidare attraverso savane e deserti, guerre e
temporali africani. Spesso dovremo guidare giorno e notte senza
sosta. Ma non è tutto questo che mi fa paura. Quello che più mi
spaventa e mi opprime e che questa lunghissima risalita dell’Africa
sarà un ritorno, ogni metro ci avvicinerà a casa, ogni giorno
trascorso sarà un giorno in meno da vivere ed ogni chilometro
percorso un chilometro in meno di possibilità.
Così, questi pensieri si trasformano in ozio ed indolenza, in una
strana voglia di restare qui a Maun, ad aspettare e raccontare ai
tedeschi ed agli inglesi di passaggio la storia della discesa
dall’ovest e quella ancora da venire della risalita per l’est.
Non ho voglia di ripartire. Sono già qui.
Passiamo l’ultimo giorno ad attrezzarci per passare vari giorni in
zone dove non si troverà niente, nè cibo, nè acqua, nè sigarette,
nè birra.
Andiamo a razziare lo Shoprite. Facciamo il pieno di gasolio, di
acqua potabile e di tutto quello che potrà servirci; poi, una
mattina che potrebbe essere una mattina qualunque, diventa la mattina
della partenza.
Lasciamo la cittadina, poi lasciamo l’asfalto e poi gli ultimi
villaggi di capanne. Presto la polvere comincia ad essere la materia
prima della quale viviamo, i Land Rover ricominciano a fare il loro
mestiere fatto di sobbalzi, urti e torsioni. Il motore canta potente
per uscire dalle buche e la carrozzeria scricchiola felice. Nessuno
mi toglie dalla testa che queste macchine hanno una specie di anima,
un’anima che si rallegra quando sotto di loro scorre terra nuova e
nuove speranze di scoperta.
Naturalmente lo so che le nostre macchine sono pezzi di ferro
inanimati ma questo lascio che lo pensiate voi che non le avete mai
sentite scricchiolare di fatica arrancando su terre lontane.
Per me oggi siamo partiti in sei da Maun ed in sei facciamo rotta
nord nord-est, “in direzione ostinata e contraria.”
Ma per ora ci attendono “solo” i grandi parchi del nord, i
paradisi del Moremi e del Chobe. Se tutto va bene, tra una settimana
saremo ad ammirare gli arcobaleni che uniscono Zambia e Zimbabwe
creando ponti colorati sulle smisurate Victoria Falls.
RIFLESSIONI DA CAMPO
ELEFANTE AFRICANO. (Leoxodonta africana)
Di solito vive in piccoli gruppi di 10 – 20 individui che spesso
confluiscono in mandrie molto più grandi che si incontrano presso le
fonti d’acqua o alle fonti comuni di cibo. Le società degli
elefanti sono matriarcali e sono dominate dalle femmine anziane. I
maschi vivono da soli o in piccoli gruppi di subadulti e si uniscono
al branco solo durante il periodo dell’estro femminile.
Mediamente un individuo adulto ingerisce ogni giorno 250 – 300 kg
di erbe, foglie, corteccia ed altri vegetali.
Anche se l’età media dell’elefante africano si aggira attorno ai
75 anni alcuni individui possono viverne anche 100 o più.
Dimensioni: altezza alla spalla fino a 4 metri, peso fino a 6,5
tonnellate.
Forse se non ci capiti in mezzo nemmeno una volta nella vita non puoi
averne un ‘idea chiara. Sto parlando di una carovana di elefanti.
Stiamo attraversando il Chobe National Park: 1.056.600 km quadrati di
paludi, fiumi e savane. Attraversare regioni come questa costituisce
di per sé un’avventura straordinaria, che trascende il viaggio
nello spazio. Attraversare foreste millenarie e savane che si
alternano a montagne ricoperte di piante e liane è come andare
indietro nel tempo, è come viaggiare nella preistoria.
Gruppi di antilopi di centinaia di individui fuggono al nostro
passaggio. Il cielo sopra di noi è piatto, basso e sterminato. I
Land Rover arrancano con le ruote immerse nella sabbia, avvolte dalla
polvere o sprofondate nel fango. Non esistono vere e proprie strade
qui, piuttosto ci si muove su piste o sentieri appena accennati. Non
ci sono aree di accoglienza per centinaia di chilometri. Può
capitare che dopo mezza giornata di viaggio si debba tornare indietro
perché scopri che la regione è stata allagata dalla piena del
fiume. Quando si incontra qualcuno bisogna sempre chiedere
informazioni.
Pochi chilometri prima un enorme elefante maschio che stava al centro
della strada ci ha visti arrivare, ha allargato le orecchie, ci ha
puntato e poi, con un barrito da far accapponare la pelle si è
voltato ed è partito correndo nella savana.
La corsa di un elefante è qualcosa di portentoso: il corpo quasi
fermo e le enormi zampe che si muovono al di sotto ne fanno una
specie di edificio mobile. Le sue dimensioni assumono, in corsa,
proporzioni allucinanti. Al suo passaggio può travolgere qualunque
cosa, anche un Land Rover, può passarci sopra senza problemi.
Ci stiamo muovendo su un sentiero in mezzo alla savana. La pianura è
costellata da basse colline di massi e vegetazione. Diego ferma la
macchina e mi dice via CB di guardare sulla mia destra.
Mi volto e vedo una decina di elefanti che passeggiano con tutta
calma. Cecilia, seduta di fianco a me mi tocca una mano e mi dice di
guardare a sinistra. Altre decine di elefanti.
Guardo nello specchietto retrovisore e vedo che una colonna di
esemplari enormi stà attraversando il sentiero proprio pochi metri
dietro a noi.
Siamo capitati in mezzo ad una mandria di centinaia di esemplari che
si stanno spostando. Con le macchine spente stiamo a guardare il
passaggio degli animali. È come fermarsi in mezzo ad un gregge di
pecore che si muove, solo che queste sono pecore di 7 tonnellate ed
ognuna di loro ti può fare in piccoli pezzettini.
Inizialmente, chiuso nel tuo bel fuoristrada, ti senti al sicuro, ma
quando un elefante ti passa a due o tre metri di distanza e ne
comprendi le reali dimensioni, allora capisci che essere in macchina
o a piedi, fa poca differenza. Non sta a noi proteggerci, ma sta a
loro non attaccarci.
La sera facciamo campo in quella che dovrebbe essere un’area
sicura. A qualche decina di metri da noi due elefanti strappano rami
grossi come un braccio per poi mangiarne le tenere foglioline.
Cecilia e Federica armeggiano dietro ad un rubinetto affogato in una
piramide di cemento alta un metro costruita per difenderlo dai
pachidermi.
Io e Diego, da veri maschi scoliamo birra ed osserviamo il recinto in
cemento armato e terra che protegge i due serbatoi dell’acqua.
Birra in mano, infradito inforcate, posa da sapientoni, stimiamo le
dimensioni della struttura: il recinto in cemento armato è alto 4 –
5 metri con solo due passaggi per entrare larghi non più di trenta
centimetri e chiusi da pesanti cancelli in ferro. All’interno un
terrapieno di tre quattro metri fa da sponda al muro. Sembra un
rifugio antiatomico. Invece è un recinto per difendersi dagli
animali. Roba da matti. Roba da “Jurassick Park”.
Mi viene subito da pensare che forse sia meglio dormire all’interno
di questo bunker piuttosto che sopra alle nostre scatolette di
alluminio di marca Land Rover.
Ma in realtà ciò che va protetto dagli elefanti è l’acqua, non i
quattro italiani di passaggio, sicuramente meno preziosi dell’acqua
e molto meno appetibili per gli elefanti.
Abbiamo attraversato tutta l’Africa da nord a sud ed ora la stiamo
risalendo; siamo passati per strade infangate ed insanguinate, ci
siamo trovati in mezzo a folle di persone arrabbiate ed in laghi di
fango da far tremare le vene ai polsi; ma mai come di fronte ad un
gruppo di elefanti, ci si sente nudi ed indifesi. Il Land Rover,
potente, solido, inossidabile ed inarrestabile, diventa , di fronte a
questi mastodonti venuti dal passato, una scatoletta di sardine e
noi, sdraiati nelle nostre tende, nella notte africana, in mezzo a
centinaia di chilometri di savana, siamo proprio come quattro sardine
in scatola.
Facciamo il campo: accostiamo le macchine, apriamo le tende,
stendiamo un grosso telo impermeabile da un’auto all’altra,
apriamo il tavolo e le sedie.
Cecilia e Federica cucinano la pasta ed io e Diego mettiamo sui
nostri Apple le foto fatte nei giorni precedenti.
La giornata finisce, passa il tramonto rosso come il sangue ed arriva
la notte , nera come l’inchiostro, profonda come un pozzo.
Come tutte le sere ci siamo accampati a ridosso di un enorme albero.
Che sia mopane, baobab o acacia, non importa. Credo, seguendo un
incomprensibile istinto atavico, ogni notte facciamo il campo vicino
ad un albero e più è grande meglio è.
Questa notte attorno a noi gli animali diurni dormono o riposano;
quelli che di notte cacciano sono in movimento.
Leoni, leopardi e iene si danno da fare per trovare e catturare una
preda. Le iene, le più infami, sono anche le uniche che si
avvicinano all’uomo quasi senza timore.
Di notte le senti che si aggirano nel campo alla ricerca di cibo e
avanzi e la cosa migliore da fare è aspettare che si allontanino e
poi rimettersi a dormire. Eppure in nessun posto al mondo si riposa
bene come qui, in questa tenda montata sul tetto della macchina in
mezzo ad un mondo preistorico grande quanto l’Italia. Per centinaia
se non migliaia di chilometri non ci sono costruzioni attorno, non ci
sono motori accesi e nemmeno persone che sfidano la notte a colpi di
bevute.
Attorno solo piante e animali, distese di savana e fiumi che scorrono
placidi e dissetano gli assetati animali.
L’uomo qui è in minoranza assoluta e vive senza il perenne peso
della responsabilità di essere una creatura superiore. Qui l’uomo
può lasciarsi trasportare e cullare dalla corrente, senza dover
affannosamente lottare con il suo ruolo di superbo essere vicino a
Dio. Qui sei vicino a Dio come lo è uno sciacallo, come lo può
essere un’antilope e come loro, le tue uniche preoccupazioni sono i
rumori sospetti.
Come in un passato leggendario vivi con accanto il coltello, vivi con
un’arma a portata di mano e lanci sempre un’occhiata alle scorte
di acqua.
Passi le giornate controllando il livello del gasolio e quello dei
tuoi stati d’animo. Attorno a te la corrente infinita della storia
e quella del ripetersi eterno delle cose, del succedersi delle
stagioni e degli accadimenti, ti trasportano in un flusso che è
sicuramente più vicino alla natura umana di qualunque manufatto o
tecnologia abbiamo la pretesa di inventare.
Questo mondo ti stravolge, ti capovolge e ti fa girare la testa. La
macchina diventa un pezzo di latta e la tenda uno scampolo di stoffa.
Tutto assume la sua forma originaria. Noi diventiamo pezzi di carne
ed i nostri cervelli pezzettini di storia. L’insieme perde
qualunque significato e quello che resta è poi quello che veramente
conta. Ovvero che è scesa la notte.
Domani verrà il giorno e faremo nuovamente i conti con il livello
del gasolio, con quello dell’acqua e della rotta da seguire. Sì,
della rotta, perché in questo mare immenso che è l’Africa non si
segue una direzione ma una rotta.
La mattina si riparte ed il viaggio fatica a riappropriarsi del
proprio significato. Tutto pare futile e senza senso. Ma dove stiamo
andando? Perché non restiamo qui? Qui a casa nostra? Qui dove siamo
realmente nati? Cosa andiamo a fare più avanti? Più su, sempre più
a nord, per raggiungere nuovamente l’Europa, il nostro ultimo punto
di partenza. Sempre più a nord per tornare all’ultima dimora di
cui abbiamo memoria. La nostra memoria ha le gambe troppo corte per
tornare fino a qui, per tornare a questi primordi in cui ci troviamo
ora ed allora.
Ingannati dai nostri brevi e poco profondi ricordi ci svegliamo,
usciamo dalle tende, prepariamo il caffè, disfiamo il campo e
ripartiamo verso il nord.
E così, ciechi e mutilati come il capitano Achab, battiamo la nostra
pista, seguiamo la nostra strada, tracciamo la nuova rotta senza
sapere che comunque sia andremo incontro al disastro ed alla
sconfitta.
Proseguiremo verso nord facendo finta di niente, lotteremo con i
demoni e con le fatiche per giungere ad una meta che non è altro che
il posto da cui siamo partiti.
La savana si stende nuovamente di fronte ed attorno a noi. Questa
sera dovremmo trovare la strada che ci condurrà in Zimbabwe, ma per
arrivarci manca ancora molto ed io cerco di godere di quello che ho
attorno.
Stiamo ormai costeggiando la Caprivi Strip. Poche centinaia di metri
verso nord e saremmo nella splendida Namibia, pochi chilometri e
saremmo nel poverissimo Zambia, qualche chilometro a nord-ovest e ci
troveremmo di nuovo nella lacera ed affascinante Angola. Ma noi
sterziamo e ci dirigiamo ad ovest, decisi o quasi a raggiungere lo
Zimbabwe in giornata.
La sera, all’imbrunire, in lontananza una colonna di vapore ed un
possente boato ci indicano che siamo arrivati.
“The Tunder Smoke” il fumo che tuona, le Victoria Falls, uno
degli ultimi atti del Dott. David Livingstone.
Noi ci arriviamo stanchi, di sera, sporchi e sudati, ma invece che
scoprire le cascate ci ritiriamo mestamente in un affittacamere con
bar e giardino. Un letto vero dopo giorni di campo.
In realtà, se potessi, andrei a dormire in tenda.
Vita e
morte di un poeta.
“Il fumo che tuona”, le Victoria Falls, si fanno sentire e vedere
da decine di chilometri di distanza. Quando con la macchina ti
avvicini vedi in lontananza bianche nubi e ci metti un bel po’ a
capire che non è il maltempo che avanza o un temporale che sta per
sopraggiungere.
La colonna di fumo che le cascate alzano è impressionante. Il fiume
Zambesi si getta in una gola profonda 110 metri e con un fronte di
1600. La gola crea un gorgo immenso e tutto attorno i miliardi di
goccioline d’acqua fanno in modo che si insaturi un microclima
tropicale.
Noi decidiamo di non andare a vedere le cascate se non il giorno
successivo.
Cerchiamo un albergo ma hanno tutti prezzi per noi proibitivi, dai 60
dollari in su a notte. 240 dollari in quattro. Un’enormità se
considerata nell’economia di un viaggio come il nostro.
Qualche ora dopo, con l’aiuto della preziosissima Lonley Planet
troviamo Lorry’s, un affittacamere che ci fa dormire ad un prezzo
decente. Qui tutto è più caro. Le Cascate Vittoria sono molto più
visitate di qualsiasi altro posto nel raggio di duemila chilometri.
Ed i turisti pagano salata la visita di due giorni.
Lorry’s è uno di quei posti che sembrano rimasti indietro nel
tempo. Una piccola costruzione fa da ufficio e bar, un’altra ospita
poche camerette.
Strani personaggi Lorry ed il suo compagno. Sono un po’ Yppies ed
un po’ colonialisti vecchio stampo. Un po’ sembrano due strani
ambientalisti ma potrebbero anche essere due schiavisti. Fumano e
bevono senza sosta. Sono gentili e simpatici. Andiamo a vedere le
camere che non sono per niente male. C’è un piccolo giardino con
una vecchia piscina nella quale ora fanno il bagno i quattro cani di
casa. Nel giardino c’è una vecchia enorme voliera piena di uccelli
esotici. Ci sistemiamo, doccia, birra e tutto il resto.
Ci toccano due camerette divise da un salottino.
Nel salottino, in mezzo a mille soprammobili accumulati in anni di
“Africanità”, c’è, appesa ad un muro una stampa ingiallita
che raffigura un uomo sdraiato sul ciglio delle cascate Vittoria.
Dietro di lui due indigeni in piedi lo osservano.
L’uomo del quadro è David Livingstone che guarda nell’abisso. Il
quadro rappresenta la scoperta delle cascate da parte del primo
occidentale.
La vita di Livingstone è qualcosa che si avvicina più alla poesia
che alla sua vera professione.
Livingstone parte per l’Africa come missionario nel 1840 all’età
di 27 anni. Fu inviato a Kuruman in Beciuania (l’attuale Botswana),
quella che allora era la più remota missione africana.
L’esperienza missionaria di Livingstone si rivela però presto un
totale fallimento. Sebbene egli nel suo intimo non volesse ammetterlo
era molto più esploratore che missionario. Nel suo diario egli
scrive che “ non era mai così felice come quando avanzava a fatica
nella boscaglia con 40 gradi di temperatura, annotando
meticolosamente la natura del paesaggio, la struttura dei termitai,
la consistenza delle rocce e delle foglie.”
Livingstone si persuase che fosse di vitale importanza scoprire una
via fluviale che collegasse l’interno dell’Africa con l’Oceano
Indiano e con quello Pacifico. Probabilmente Livingstone
l’esploratore usò questa come scusa per intraprendere esplorazioni
che lo condurranno attraverso tutto il continente.
Il 3 agosto 1851 dopo una marcia di 110 chilometri attraverso terre
così aride ed assolate che “anche le mosche cercavano l’ombra”
egli giunge al fiume Zambesi. Livingstone prosegue poi la sua
marcia, ma non verso oriente come ci si sarebbe ragionevolmente
aspettati. Per motivi solo a lui noti parte per il nord-ovest. Dopo
sei mesi e 1600 chilometri di foreste e paludi egli giunge stremato,
quasi morto, in Angola. Qui viene curato e, rifiutando l’offerta di
una vacanza in Inghilterra, pochi mesi dopo riparte. L’esploratore
ritorna a Lunati sullo Zambesi percorrendo la stessa via. Il viaggio
di ritorno quasi lo uccide.
Durante il tragitto vomitò sangue più volte, perse parte dell’udito
per un attacco di febbri reumatiche, si ammalò più volte di malaria
e fu quasi accecato da un ramo. Al suo arrivo a Linyati, dopo
un’assenza di quasi due anni, fu accolto dalla tribù dei Makololo
come un eroe. Due mesi dopo, ancora stanco e provato, era nuovamente
pronto a riprendere il suo percorso transcontinentale di 4000
chilometri.
Mentre discendeva in canoa il fiume Chobe e poi lo Zambesi si ritrovò
di fronte ad uno spettacolo naturale senza paragoni.
I Makololo lo chiamavano “Mosy oa Tunya” ovvero il fumo che tuona
e non avevano mai osato avvicinarvisi.
Ed è qui che lo incontriamo noi.
Dopo centocinquanta anni noi lo ritroviamo qui, stampato su un
quadro, ancora sdraiato sull’orlo dell’abisso intento a scrutare
la profondità del gorgo.
In seguito Livingstone superò questo straordinario ostacolo alla sua
marcia e giunse, otto mesi dopo, sulla costa dell’Oceano Indiano.
Stanco, allo stremo delle forze e sconfitto: lo Zambesi non era
navigabile. Ormai però non poteva più fermarsi.
Negli anni che seguirono esplorò dapprima il lago Nyassa (ora Lago
Malawi) che, con i suoi 30.000 chilometri quadrati si spingeva 500
chilometri verso nord.
Spossato dalla dissenteria ormai cronica, distrutto dalle febbri
malariche, egli ormai cadeva sempre più spesso nella più cupa
malinconia. A più riprese, nel suo diario, l’esploratore, si
chiedeva se stesse perdendo la ragione.
Il ministero degli esteri britannico gli ordinò di rientrare in
patria ma egli dopo nemmeno due anni era già di ritorno. Nell’aprile
del 1866 sbarcò alla baia di Rovuma, sul confine tra Mozambico e
Tanzania per cercare la soluzione ad un antico mistero: l’ubicazione
delle sorgenti del Nilo. La sua idea era di esplorare il continente
ad ovest del lago Nyassa. Egli aveva già scartato le affermazioni di
Speke e Burton secondo i quali le sorgenti del Nilo erano i laghi
Tanganika e Vittoria. Era invece affascinato dalla teoria di Erodoto,
secondo il quale nel cuore più nero dell’Africa si trovavano le
mitiche fonti del Nilo che però per metà scorrevano a nord verso
l’Egitto e per metà a sud.
Dopo mesi di ricerche, nuovamente allo stremo delle forze ed ormai
solo, l’esploratore si unì ad una carovana di mercanti di schiavi
arabi. Questa fu per il suo cuore missionario una tremenda
umiliazione ma, pur di continuare la sua ricerca, sopportò anche
questo.
Dopo quasi due anni Livingstone rimase nuovamente solo e per sei mesi
tentò di trovare la sorgente del Lulaba il quale, scorrendo verso
nord, lo aveva convinto di aver trovato la soluzione all’enigma. In
realtà il Lulaba è il corso superiore del fiume Congo.
Dopo altri sei mesi di ricerche, solo e quasi reso storpio da
ulcerazioni ed infezioni ai piedi raggiunse la sorgente del Lulaba.
Mentre l’ormai anziano esploratore sedeva da solo sulle rive del
fiume, sconfitto e sconsolato, convinto di terminare la sua vita di
lì a poco, ode uno sparo molto vicino.
Dopo anni di vita solitaria in mezzo ai selvaggi Livingstone incontra
Henry Morton Stanley, partito un anno prima proprio per ritrovarlo.
Qui venne proferita la frase più famosa di tutti i viaggi di
esplorazione. Stanley, con una calma che può essere solo degli
inglesi disse “Dr Livingstone I presume?”, “ Dottor Livingstone
suppongo”
Per un anno i due esplorarono assieme la regione del Tanganica, poi
Stanley rientrò negli USA, la sua patria mentre Livingstone restò.
Otto mesi più tardi, il primo maggio 1873 i suoi servitori Susi e
Chuma lo trovarono inginocchiato sulla sua branda, sulle rive del
lago Bangweulu dove si era recato per effettuare ulteriori ricerche
sulle sorgenti del Nilo. Era freddo e rigido, già morto da molte
ore.
Mi devo forse scusare per questa lunga digressione sulla vita di
quest’illustre inglese, ma è stata per me troppo affascinante la
storia della vita di quest’uomo del quale è stato anche scritto:
“Indiscutibilmente Livingstone fu un fallimento come missionario, e
come uomo poteva essere arrogante, sospettoso, irascibile ed
indifferente alle sofferenze altrui (Come lo era d’altronde alle
sue).”
Ma leggo anche:”Egli fu indubbiamente un grande uomo, quasi
sovrumano nella sua tenacia, un grande individualista, sinceramente
dedito nel suo intimo a quello che egli chiamava “IL SOLLIEVO DELLE
MISERIE UMANE”.
Quest’ultima frase la voglio scrivere maiuscola. Questo è il
motivo per cui i grandi uomini fanno le cose, nessun altro. Nessun
altro motivo esiste, nessun fine più luminoso può far luce
sull’agire umano. Tutto ciò che è fatto per qualsiasi altro scopo
non è altro che mera sopravvivenza.
Livingstone con il suo peregrinare ha lasciato impronte in tutto il
continente. Ha tracciato rotte che disegnano la sua storia ed assieme
alla sua quella dell’intera umanità.
Ed oggi noi siamo qui, al limitare delle grandi cascate, ad
incrociare il suo cammino per un soffio, un soffio di centocinquanta
anni. Noi siamo qui, stanchi di sei mesi di vagabondaggio in auto e
tenda. Siamo stanchi ed un po’ dobbiamo vergognarcene, al cospetto
di una figura del genere.
Certo non siamo esploratori, abbiamo girato tanto in questo
continente, abbiamo fatto molta più strada di Livingstone, ma in
fine dei conti torneremo indietro. Torneremo in Europa, a casa.
Quest’uomo non tornò mai indietro. Diventò una vera anima errante
priva di ogni ritorno.
Noi domani andremo a piedi a vedere le cascate, ci metteremo addosso
la cerata per non bagnarci e faremo delle foto. Ma per rispetto di
questa enorme figura e di tutti coloro che “cercano il sollievo
delle miserie umane” ripartiremo subito verso nord, senza riposarci
e senza aspettare che scenda su di noi la calma e la pace.
Quest’ossessione al movimento, ad andare avanti, magari a tornare
per poi poter raccontare e poi ripartire è qualcosa che fa male e
che ti sfianca.
La sensazione è di conoscere cose nuove ad ogni passo ma il
sentimento profondo è un altro e di natura totalmente opposta.
Livingstone descrive così questa sensazione parlando di lui e di
Stanley:”un sentimento di comunione condiviso da due uomini erranti
che, nei loro viaggi, avevano perso più di quanto avevano
acquisito.”
Dai miei viaggi io torno sempre e qualche volta ringrazio di non
avere le risorse economiche per non smettere mai di viaggiare.
Stando così le cose l’unica cosa che ci resta da fare una volta
che siamo ritornati a casa è ripartire. Ripartire un’altra volta e
sempre e stare a vedere cosa succede.
Le Cascate Vittoria, infine, sono uno spettacolo affascinante, ma i
turisti che vi confluiscono a frotte, armati di cerata e stivaletti,
i venditori di souvenir e di bibite, ne diminuiscono il fascino.
Uno sperduto salto d’acqua di poche decine di metri che però si
trova nella foresta del nord del Malawi, raggiungibile solo da strade
secondarie, oppure un piccolo lago nascosto nella foresta del Congo
dove se non ci capiti non ci puoi andare, quelli si che sono
spettacoli che mi rimarranno nel cuore tutta la vita.
Come si dice: ”un ultimo sguardo” al fumo che tuona e via, si
ritorna alle camere per dormire e per prepararsi alla partenza
all’alba.
In buona sostanza è più forte e sincero il ricordo di quella stampa
delle cascate con il Dr Livingstone sdraiato sull’abisso, che il
ricordo delle cascate vere e proprie.
Le cascate sono state importanti da vedere e sentire perché l’ho
fatto con Cecilia, con Diego e Federica, abbiamo scherzato, riso e ci
siamo bagnati. Abbiamo vissuto assieme la sensazione di trovarci
finalmente in qualche posto definito e definitivo, un posto che
esiste per tutti e molto lontano da tutti. Credo che ci siamo sentiti
appagati in quel momento, come, dopo mesi di viaggi, fossimo
finalmente arrivati da qualche parte.
Il quadro invece l’ho sentito dentro, l’ho sentito da solo,
seduto su quel salotto sgualcito e umido, con i gechi che schizzavano
sul soffitto.
In quel quadro non c’è nessuna gioia, nessun piacere. Quel quadro
è il lato oscuro delle cose, quel lato che non riesci mai a
conoscere e con cui non riesci mai a fare i conti, quella parte di
noi stessi che gli altri non potranno mai conoscere; quella parte
oscura che, seppure nascosta nel fondo, ha lavorato perchè Cecilia,
Federica, Diego ed io ci trovassimo in quello stesso momento, quello
stesso giorno, seduti proprio in quel salotto umido e sgualcito.
LE STRADE DELLO ZAMBIA
In Zambia siamo passati come fulmini. Un giorno di marcia, una notte,
qualche birra ed un altro giorno. La seconda sera siamo già a
Lilongwe in Malawi.
Lo Zambia è il mio ricordo più fugace e confuso. Le piste si
trasformano in strade e poi i villaggi in città. La prima ed unica
vera città che incontriamo è Lusaka.
Traffico e confusione. Migliaia di poveri e storpi affollano le
città. Musulmani corrono a piedi per le vie, affollano i mercati e
sfrecciano su Mercedes tanto scintillanti quanto fuori posto.
Al bordo strada si susseguono negozietti cadenti e bancarelle, poi
vediamo un enorme mulino e poi di nuovo banchetti di cianfrusaglie e
cibi. D’un tratto un concessionario degno del centro di Dallas.
Mercedes e BMW, Chrysler e Maserati. Porsche e Wolkswagen. Modelli
dei quali ne conosci l’esistenza solo se guardi i cataloghi dai
centomila euro in su.
Posso capire se ti compri un SUV (Sigla che peraltro non vuole dire
assolutamente nulla. Sport Utility Vagon. Ovvero? Il nulla assoluto.
Auto utile per lo sport. Cosa cazzo è? Un cronometro? Una moto da
cross? Un’auto da formula uno? No, è una fiat 127 di venticinque
quintali). Se ti compri un SUV dicevo, tipo Cayenne per intenderci,
magari lo puoi usare un po’ sul fango o su uno sterrato, magari
puoi anche parcheggiare su un marciapiede sfondato. In città, tra
buchi e fossi puoi farci anche i cinquanta all’ora. Ma se ti compri
una macchina da trecento cavalli alta quattro centimetri da terra
dove mai potrai andare se abiti a Lusaka?
Se possiedi un’auto del genere e ti vuoi allontanare dalla città
la devi sollevare con un elicottero o metterla su un camion.
Perché le comprano? Status symbol. Nuovamente
status symbol. E forse è giusto così. Chi sono io per dare un
parere?
Comunque se per strada tra Lusaka ed il confine trovo uno di questi
in panne non lo tiro fuori. Che si chiami l’elicottero.
Passiamo una notte a Lusaka in un ostello che ci ospita nel cortile.
Il giorno dopo per la strada incrociamo quello che qui dicono essere
l’albero più grosso del mondo, per lo meno il più grosso
dell’Africa. Non so se sia vero ma comunque è molto più grosso di
casa mia, in tutti i sensi, altezza e larghezza.
L’Africa è pazza ed i suoi abitanti lo sono ancor di più.
Arriviamo in una cittadina appena degna di questo nome. Nel centro
della piazza principale, che è poi una rotonda di fango nel fango
della strada, c’è un dinosauro in cemento armato.
Lo guardo come potrei guardare un extraterrestre. Ci giriamo attorno
due o tre volte e poi, al riparo della sua mole ci fermiamo ad un
chiosco a mangiare uno stufato di banane e fagioli. L’ideale quando
la temperatura dell’aria è di 42 gradi.
Diamo due caramelle ai curiosi bimbi che ci avvicinano. In cambio
loro fanno le solite mosse di karate imparate dai film di Bruce Lee.
Qui tutti i bimbi sembra abbiano visto i film di Bruce Lee. Meno male
che sono rimasti indietro. Come farebbero se avessero visto The
Matrix? Dovrebbero imparare a volare ed a rimanere fermi a mezz’aria
affinchè una telecamera inventata possa fargli un giro attorno di
almeno 250 gradi.
Così i piccoli si sparano due mosse di arte orientale, si beccano
tre caramelle e poi scappano lontano a ridere di noi ed a spiarci.
Paghiamo il pranzo, lo paghiamo quattro soldi. In effetti il pranzo è
da quattro soldi ma il servizio è da re. Tutte le volte che ci
sediamo ad un locale dove normalmente un bianco non si siede, tutte
le volte, nessuna esclusa, veniamo trattati come principi, come se
avere dei bianchi a tavola fosse un onore.
Grazie di qua e grazie di là, grazie di su e di giù.
Ci alziamo e, camminando nel fango, arriviamo alle macchine, le
mettiamo in moto e partiamo, dieci, venti metri e superiamo il
dinosauro di cemento armato. Ci facciamo un altro giro attorno per
riguardarlo meglio.
Nelle ultime due ore non si è mosso di un millimetro, come il cane
che sta appisolato sotto la sua ombra.
Ripartiamo e viaggiamo veloci sulle strade più o meno asfaltate. Se
riusciamo vorremmo passare la notte a Lilongwe.
Sono teso, agitato un po’ confuso. Sono stato in Malawi quattro
anni prima e mi ero ripromesso di non metterci mai più piede. Per la
verità non volevo mettere più piede in Africa, beh in Africa non
so, ma in Malawi proprio no.
Adesso invece non vedo l’ora, di ritornarci, non vedo l’ora di
vedere cosa e come è cambiato, di rivedere i posti e capire come mi
sento, capire quanto sono cambiato io.
In Malawi c’è Gerardo. Non ci aspetta ma dovrebbe essere lì.
Gerardo avrà sicuramente birra fresca per tutti.
Se dico Malawi non sai nemmeno di cosa stò parlando
Fino a quando, nel 2006, Madonna (la cantante) non decide di portarsi
via un bimbo dal Malawi ed adottarlo, erano davvero pochi quelli che
sapevano che il Malawi fosse uno stato africano ed ancor meno quelli
che sapevano dove si trovasse.
Madonna adotta un bambino e finisce su tutti i giornaletti di gossip.
I giornali più letti dagli uomini e dalle donne sono proprio queste
riviste-cartaigienica. Dopo i peggiori canali tv sono proprio le
rivistine di gossip il mezzo di comunicazione di massa più fruito.
Fate uno più uno e vedrete che ora, ma solo per qualche anno, perché
la memoria è corta, la gente saprà cos’è e dov’è il Malawi.
Tra qualche anno tutti dimenticheranno ed il Malawi tornerà a
stabilirsi in un confuso sud-est asiatico tra Puket e “dove c’è
stata la guerra del Vietnam”.
Grazie a Dio la gente si dimenticherà di nuovo del Malawi.
Il Malawi è uno stato dell’Africa Orientale. È piazzato lì, in
mezzo ad un paradiso terrestre. A sud-est ha il Mozambico che gli fa
compagnia, a nord l’immensa Tanzania che lo protegge ed a ovest lo
Zambia.
Si presume che il nome Malawi si riferisca ad un termine Chewa che
indica lo scintillio del sole che sorge sul lago (rappresentato anche
sulla bandiera).
Che dire di uno stato che porta il nome di un fenomeno così poetico
e che ha per simbolo il sorgere del sole sul lago?
Il Malawi è un paradiso di spiagge bianche, coperte di mangrovie e
palme. Le acque del lago formano un mare di cui spesso non si vede
l’altra riva. Le maree sono puntuali come quelle del Mediterraneo
ma le sue acque dolci e calde sembrano quelle di una piscina.
Montagne di tremila metri si affacciano sulle chiare acque del lago,
altopiani di conifere digradano verso foreste incontaminate che a
loro volta racchiudono fiumi cristallini. Cascate che si gettano nel
buio della foresta dissetano fiumi che sfociano nel lago mantenendo
sempre limpide le sue acque. In questo ambiente vanno a spasso
ippopotami (che ogni tanto si pappano una massaia che porta i panni
al fiume e regolarmente la notizia esce sui giornali nazionali)
elefanti ed antilopi. Sembra che qui non ci siano nemmeno molti
predatori.
Il Lago Malawi ospita oltre cinquecento specie di pesci tropicali.
Questo ne fa il lago con più specie al mondo o più semplicemente il
più incredibile e gigantesco acquario del pianeta (altro che quello
di Genova).
Dodici milioni di abitanti spalmati su 120.000 km quadrati con il 90%
della popolazione che vive nelle zone rurali. Le città sono piccole
e molto più pulite delle altre città africane.
Noi entriamo in Malawi attraverso la frontiera con lo Zambia ed al
tramonto siamo a Lilongwe, la capitale.
Io sono stato qui con Giuseppe cinque anni prima e sono molto curioso
di vedere come è cambiato il posto. Inaspettatamente è cambiato per
davvero. Le strade sono molto più pulite, la luce elettrica molto
più diffusa. Regna un’atmosfera ancora più rilassata. Cinque anni
prima giravo per il Malawi a piedi, in autostop ed in bus. Oggi siamo
qui con i nostri due destrieri marca Land Rover. Le questioni
cambiano. Cinque anni fa per trovare i passaggi e far coincidere i
bus per attraversare tutto lo stato ci volevano giorni e giorni.
Oggi, volendo, viaggiando senza sosta dall’alba al tramonto
potremmo percorrerlo tutto in un giorno.
Anche Lilongwe mi sembra più piccina. In cinque minuti vai da una
periferia all’altra. Cinque anni fa, a piedi, alle periferie non ci
ero nemmeno arrivato.
Pernottiamo al Kiboko (ippopotamo in Swaili). Ero già stato anche
qui e poco è cambiato. Anche i due cani mi sembrano gli stessi.
(Praticamente tutti i bianchi residenti in Africa posseggono cani. La
maggior parte dei neri ha terrore dei cani. Fate di nuovo uno più
uno.)
La mattina presto andiamo allo Shoprite che è arrivato fino a qui
dal Sud Africa. Facciamo scorta delle solite cose: acqua, sigarette,
pane e scatolette. Compro anche un chilo di anacardi. Fuori dal
supermercato Cecilia regala penne e zainetti ai bimbi che tra poco
accorreranno a centinaia. Quando in Africa si sparge la voce che
arriva una novella Lady D. carica di piccoli doni, i bambini saltano
fuori da ogni anfratto, da ogni buco, pertugio o crepa nell’asfalto.
Qualche volta piovono addirittura dal cielo. In un secondo ti
stringono d’assedio e con i loro corpicini ti impediscono di far
ripartire la macchina. Finchè tutti ma proprio tutti non hanno avuto
un pennarello, una penna o anche solo una carezza sulla testa.
Ripartiamo verso nord. Partiamo alla volta di Mzuzu regno
incontrastato di Gerard Esposito e Jennifer cittadini del mondo.
La strada sale dolcemente. Sulla sinistra le spiagge assolate del
lago e davanti a noi sulla destra le prime vette coperte di pini.
La popolazione del Malawi è composta per il 95% dai neri d’Africa
divisi in una moltitudine di etnie (Chewa, Nyanja, Yao, Tumbuka,
Lomwe, Sena, Tonga, Ngoni, Ngonde). A pronunciarle una dietro l’altra
sembra di cantare una canzone. Il gruppo dominante è il Chewa e
ovviamente la loro lingua è quella parlata in tutto il paese. Il
Chichewa a sentirlo è pieno di suoni come che, chi, ngo, ngoni, ecc.
La strada sale tortuosa. La pioggia scende lenta a bagnare le nostre
macchine e le decine di teste nere appollaiate sui lenti pick-up che
arrancano su per i tornanti. Salendo la temperatura scende e la
vegetazione cambia.
Quasi improvvisamente ci troviamo in uno scenario tipo Twin Peaks. Le
capanne che erano in paglia e fango ora sono fatte con assi di legno
di pino.
Interi villaggi fatti in abete, sembra di vedere degli accampamenti
di boscaioli canadesi. Però qui chi taglia le foreste è ovviamente
nero come il carbone. Enormi distese di pinete tagliate con i tronchi
già spellati ordinatamente accatastati ci fanno da contorno.
Noi sfrecciamo sicuri su un asfalto perfetto, reso nero nero dalla
pioggia. Le strade non fanno qui i folli giri per aggirare o
scavalcare le montagne con percorsi da ottovolante. No, niente
affatto. Qui sono stati fatti dei lavori: scavi per diminuire le
pendenze, terrapieni per ovviare alle controtendenze e ponti per
scavalcare non solo fiumi ma anche torrenti.
Arriviamo a Mzuzu e in un attimo, dopo cinque anni che non ci venivo,
riesco ad orientarmi. Il Tropicana, il vecchio ristorante di Gerardo
che era ormai pronto ad entrare nella leggenda, è stato sostituito
da qualcosa che non capisco, sembra un altro ristorante ma è troppo
candido ed asettico per essere vero.
Troviamo in Mzoozoozoo, il backpackers di Gerardo. Lui non c’è.
Come fossimo Tex Willer e Kit Carson mangiamo bistecche con una
montagna di patatine.
Partiamo per Nkata Bay, un paradiso sul lago. Torneremo qui domani.
La strada per Nkata Bay è asfaltata e circondata da una vegetazione
color smeraldo che diventa sempre più fitta e verde mano a mano che
scendiamo verso il lago. Di quando in quando colonie di babbuini ci
guardano passare; i più piccoli scappano, i più grandi ci guardano
altezzosi grattandosi i genitali.
Nkata Bay è rimasta tale e quale, un piccolo insediamento sul lago,
dietro al quale ci sono piccole spiagge degne dei Caraibi.
Parcheggiamo le macchine sulla sabbia della spiaggia e apriamo le
tende con l’entrata rivolta verso il lago, verso levante, verso il
sorgere del sole.
Qualche bimbo magro magro si aggira attorno a noi aspettando penne e
caramelle che arriveranno puntuali.
In otto secondi e mezzo siamo tutti e quattro a mollo nelle calde e
dolci acque del lago.
Arrivano i beach boys. Così si fanno chiamare, come quelli delle
località turistiche solo che questi qui nelle loro lunghe giornate
vedono sicuramente più ippopotami che turisti. Si presentano con
nomi davvero improbabili come Cheese on toast o Chicken Pizza.
Proprio quest’ultimo diventerà per qualche giorno il nostro fedele
scudiero. Ci farà mangiare il pesce migliore, ci indicherà le
strade più brevi e ci dirà qual’ è la marca migliore di birra.
Non voglio raccontarvi di questi due giorni passati come in un
paradiso a mangiare pesce, bere birra e far passare il tempo tra
acqua e sole.
Unico aneddoto: Chicken Pizza (vero nome Preatcher, di origini
zambiane) ci racconta quello che secondo lui è il momento più
saliente della sua infanzia.
Ci sono con lui tre bimbi nello spiazzo antistante la capanna di
famiglia. Gli adulti del villaggio sono indaffarati nelle loro
occupazioni: le donne macinano la farina e gli uomini le guardano, le
donne vanno a prendere l’acqua al fiume e gli uomini le guardano,
le donne cucinano e gli uomini le guardano. Infine gli uomini
mangiano e le donne guardano.
Chicken Pizza è un bimbo molto magro ed ha fame, come i suoi
fratelli e cugini. Unica ricchezza del cortile una pianta di mango
con due frutti. Chicken Pizza, più intelligente degli altri, prende
una lunga canna e stuzzica il mango più grosso e sugoso. Lo stuzzica
tanto che questo si stacca e gli piomba sulla testa. Lui sviene.
Quando si riprende c’è lì la mamma spaventata che lo sgrida e gli
dice :” Vedi come sei stupido? Ora Chicken Pizza ha un bernoccolo
ed il nostro albero un mango in meno perché questo si è spappolato
e non si può più mangiare. Quindi siediti lì e stai fermo.”
Morale? Stai seduto e non fare niente come fa tuo papà e coma ha
fatto tuo nonno ed il papà di tuo nonno e così via.
Chicken pizza ci racconta questa storia e ride come un pazzo. Ride
tanto che si butta per terra e si deve tenere la pancia per non farla
scoppiare dalle risate.
Rientriamo a Mzuzu dove incontriamo Gerardo e Jennifer.
La casa di Gerardo è stata trasformata in una specie di Backpakers.
Il vecchio Land Rover è parcheggiato fuori e si porta addosso il
peso degli anni.
Gerardo invece non sembra per niente invecchiato. Elegante e stiloso
anche in mezzo all’Africa nera.
Lo troviamo che stà battendo a macchina una lettera. Usa una vecchia
olivetti e con gli occhiali sulla punta del naso batte sui tasti.
Scrive alla municipalità ed alla polizia una lettera in cui spiega
che da lui, nel suo ostello non vengono vendute droghe e non si
pratica la sodomia. Spiega alle autorità che lui e chi lavora per
lui non incitano i clienti nè all’uso di droghe nè alla sodomia o
alla promiscuità. Sembra una specie della nostra “dichiarazione
antimafia” (ovvero dichiarare cose più che scontate).
Passiamo la serata con Gerardo, Jennifer ed un loro amico inglese
senza una mano, un personaggio che sembra uscito da un libro di Jack
London, un elemento che ha da raccontare più avventure di quelle che
si ricorda.
Una bottiglia di whisky, poi due poi sei birre, poi dodici, poi
ventiquattro.
Sono stordito ma felice, felice di rivedere una persona alla quale
non so per quale motivo ma mi sono affezionato.
Gerardo che tanto mi era rimasto impresso nel mio primo viaggio in
Africa, è ancora qui, a tentare di migliorare il suo mondo, a
spiegare che a casa sua non si pratica la sodomia e non si vende
droga, a spiegare che i libri ed i film che ha in casa non sono opera
del demonio, a lottare contro ai mulini a vento.
Il giorno dopo ci salutiamo e facciamo qualche foto quasi di rito.
A fatica trattengo le lacrime, Cecilia invece non le trattiene per
niente e piange.
Spero un giorno di rincontrare queste persone e di capire, di
imparare l’arte per raccontare di loro, di spiegare perché siano
persone tanto speciali.
Ci lasciamo alle spalle Mzuzu, attraversiamo boschi di conifere e poi
ridiscendiamo verso il lago. Viaggiamo per ore ed ore in paesaggi che
sembrano finti tanto sono belli.
A destra il lago costellato di villaggi di pescatori, a sinistra alte
rupi precipitano cascate di acqua cristallina che prima di toccare
terra si nebulizza creando un continuo e caleidoscopico susseguirsi
di arcobaleni che decorano la vegetazione verde come un ramarro.
Ci lasciamo dietro il Malawi e la sera entriamo in Tanzania.
Se sei nero e nasci in questo paradiso che è il Malawi, hai
un’aspettativa di vita di 35 anni. Che tu sia uomo o donna, in
queste cose, quello che conta è che tu sia nero.
Nord Nord-est
Nord Nord-ovest
Entriamo in Tanzania da sud-est ed attraversiamo savana e praterie
lungo strade a tratti asfaltate ed a tratti sconnesse come
mulattiere.
Villaggi che sembrano popolati solo da bimbi sotto ai dodici anni, ci
vengono incontro ogni mezz’ora a ritmo quasi regolare.
La Tanzania si presenta splendida e smisurata come sa esserlo solo
uno stato africano.
Nei prossimi giorni la dovremo attraversare in lungo ed in largo,
zigzagando tra l’Oceano Indiano e il monte Kilimangiaro, tra il
cratere di Ngoro Ngoro e le infinite pianure del Serengeti,
percorrere la costa del Lago Vittoria e cercare di entrare in Rwanda
o in Burundi.
Di colpo una decina di uomini ci fanno segno di rallentare. In mezzo
alla savana si è creato un ingorgo.
Un bus ed un tir si sono scontrati, uno è mezzo rovesciato, l’altro
mezzo distrutto. La strada completamente bloccata.
In Europa si formerebbe una coda chilometrica, qui nasce un mercato.
In breve le auto cominciano ad uscire di strada ed a disegnare
percorsi alternativi. I pulmini stracarichi di persone sono i primi a
gettarsi nelle cunette ed a cercare di uscirne.
In pochissimo tempo, tutto attorno all’incidente si è formato un
via vai di macchine e persone degno di un centro cittadino. Pulmini
infossati ed auto con i pneumatici affondati nell’erba. Banchetti
improvvisati vendono bibite e collanine.
Noi scendiamo nel fosso al lato della strada e risaliamo agevolmente
dall’altra parte. Superiamo pulmini carichi di donne che si sono
piantati nel terreno sabbioso.
Ok, so cosa dobbiamo fare: tiro fuori le cinghie. Attacchiamo una
cinghia al retro del mio Defender e Diego scende a dirigere le
operazioni di sgombro.
Tiriamo fuori dalla savana diversi furgoncini ma presto ci rendiamo
conto che se non ci sbrighiamo ad andarcene la cosa non avrà mai
fine. Si è già formata una piccola coda che aspetta di venire
trainata in salvo.
Noi mentiamo spudoratamente: “Dobbiamo andare ma non preoccupatevi,
tra poco arriveranno altri nostri amici con i fuoristrada e vi
aiuteranno.”
Ripartiamo scansando gente e macchine in contromano.
Da un ingorgo del genere in Africa, mi sa che può non nascere solo
un mercato improvvisato ma addirittura un insediamento stabile, un
villaggio. Spesso i villaggi sorgono per motivi meno importanti, cose
come la presenza di un bell’albero o l’assenza di rovi.
Andiamo a passare la notte in una zona nota con il nome di Baobab
Valley.
Mangiamo cena sotto un tetto di paglia degno della migliore
tradizione africana, dormiamo protetti da alberi giganteschi che
vegliano sul nostro sonno e, la mattina, ripartiamo rigenerati dalla
frescura dell’alba.
Viaggiamo fino a sera, viaggiamo dodici ore e passiamo mille paesini
e cittadine come Tukuyu, Mbeya, Iringa e Morogoro.
Sfioriamo Dar es Salaam e l’Oceano Indiano, in pomeriggio puntiamo
ad ovest e la sera arriviamo a Korogwe.
Dormiamo in un enorme e deserto campeggio che aspetta dei turisti che
forse tra qualche anno cominceranno ad arrivare. Mangiamo in un
ristorante in città. Quattro sedie sporche, di plastica scassata, un
tavolino e un po’ di riso. Ci servono un pesce che qui non daremmo
nemmeno ai gatti. Dall’albero sopra di noi piovono formiche
carnivore che si avventano sui nostri colli e sui nostri piatti di
cibo. Un gatto malato si contende gli avanzi con quattro bimbi magri
come scheletri. Beviamo una birra tanto calda che è praticamente
solo schiuma e andiamo a dormire.
Nel campeggio di ghiaia un leopardo di cemento trascina sull’albero
la sua preda insanguinata anch’essa di cemento. Questa scultura in
perfetto stile “African-ultra-kitch” merita più foto di un
predatore vero.
La mattina dopo, sempre di buon ora partiamo alla volta di Arusha.
In tarda mattinata passiamo, come in un sogno, sotto alle vette
innevate del Kilimangiaro, ma un cumulo di nubi nasconde presto alla
nostra vista quella che in questo momento deve essere l’unica vetta
innevata del continente.
Qualche ora dopo siamo alle porte di Arusha.
Nel traffico cittadino un‘auto carica di almeno due famiglie ci
supera contromano a velocità folle, tenta un rientro impossibile e
tampona un pick up carico di casse di coca cola.
Superiamo lentamente l’incidente. Donne che urlano e uomini che
litigano. Una fontana di Coca Cola zampilla dal retro del furgone,
bottiglie continuano a stapparsi ed a sparare tappi.
La cocacola schiumosa si mischia con il sangue rosso.
Noi passiamo oltre come se fossimo passati di fronte alla vetrina di
un negozio dell’orrore, di maschere e scherzi di carnevale.
Qui succede che, certe cose, che andrebbero ricordate tutta la vita,
vengono invece dimenticate in pochi minuti, messe in ombra da sempre
nuove disgrazie, da nuove esagerazioni, da nuovi problemi.
Ci accampiamo in un camp site grande, bello e molto frequentato e
finiamo la serata con una sfida a biliardo.
Il giorno dopo si presenta radioso di sole e lasciamo Arusha dopo
avere fatto provviste. Presto il panorama diventa ampio e aperto
immense pianure d’erba ospitano mandrie di bovini dalle lunghe
corna scortati al pascolo da gruppi di coloratissimi Masai.
In pomeriggio decidiamo di fare una deviazione e ci addentriamo in un
villaggio Masai. Qui veniamo accolti con entusiasmo e presentati al
capo villaggio. Tutto si risolve con una richiesta di denaro in
cambio dello scatto di qualche fotografia.
Guidiamo tutto il giorno e la sera facciamo sosta per la notte in un
villaggio dal nome impronunciabile: Mto Wa Mbu (Fiume delle zanzare).
Centinaia di bimbi in uniforme scolastica di colore viola intenso
circondano il nostro campo e ci guardano affamati.
Manine nere tese attraverso la griglia del reticolato, implorano un
dono, che sia caramella o penna non importa, l’importante è avere
qualche cosa.
Andiamo a dormire con nelle orecchie migliaia di voci che ripetono:
”Mzungu, give me a pen, please, please”.
Affacciarsi nel cratere di Ngoro Ngoro provoca una sensazione di
stordimento e frustrazione.
Ngoro Ngoro è una caldera di venti chilometri di diametro, un
cratere dalle ripide pareti che scivolano in una pianura fatta di
savane e foreste, praterie e laghi.
Noi arriviamo a Ngoro Ngoro la mattina presto, saliamo lungo una
tortuosa strada sterrata e le prime luci dell’alba ci regalano il
primo spettacolo della giornata: dietro una curva appare un leopardo.
Fermiamo le macchine e lui ci passa accanto, non ci degna nemmeno di
uno sguardo, tiene gli occhi socchiusi per combattere i raggi obliqui
dell’alba che gli arrivano addosso. Passa accanto a noi e scivola
via come fosse un’ombra di seta lasciando che il suo ricordo resti
appiccicato alle nostre menti come miele sulle mani.
Pochi chilometri e siamo sulla sommità del cratere. Un cartello
indica un’area di sosta da dove si può ammirare il paesaggio.
Io scendo e corro, impaziente come un bimbo, fino allo steccato che
fa da ringhiera a questa specie di balconata naturale.
Mi gira la testa. Lo scenario che ho davanti è degno di una
rappresentazione della preistoria. Non riesco a trattenere le lacrime
e, mezz’ora dopo gli altri devono insistere più volte per
strapparmi a quella visione che mi ha ormai completamente rapito.
Per circa un’ora percorriamo la pista che corre lungo la cresta
dell’immenso cratere e poi cominciamo la discesa passando per
strade dalle pendenze vertiginose che corrono tra verdi praterie.
Passiamo diversi villaggi e di quando in quando, frotte di Masai
arrivano di corsa per venderci il loro artigianato.
L’unico difetto di Ngoro Ngoro è che proprio a causa della sua
struggente bellezza è diventato il posto più turistico della
Tanzania. Nello stesso momento nel cratere possono esserci diverse
decine di fuoristrada che circolano.
Comunque il cratere è grande e per la maggior parte del tempo siamo
solo noi quattro con i nostri fuoristrada che attraversiamo
lentamente la preistoria, il sogno. Passano diverse ore in cui
incrociamo leoni, bufali ed anche un ormai rarissimo rinoceronte.
Mangiamo un panino al bordo di un laghetto che ospita decine di
ippopotami e Diego viene attaccato da un’aquila che cerca di
appropriarsi della sua scatoletta di tonno.
Nel primissimo pomeriggio risaliamo le ripide pareti del cratere e
lanciamo gli ultimi sguardi all’immensa caldera. Di nuovo le
lacrime stanno per avere la meglio su di me.
Ma la strada è ancora lunga.
Discendiamo verso la gola di Olduvai, mitico sito archeologico dove
sono stati ritrovati reperti fossili di ominidi risalenti a tre
milioni e mezzo di anni fa. E’ proprio in posti come questo che,
pare, l’uomo abbia mosso i suoi primi passi sulla terra.
Allora eravamo ancora piccoli piccoli e molto simili alle odierne
scimmie, ma con il tempo siamo cresciuti e siamo smigrati. Oggi
torniamo qui e riviviamo quel tremendo brivido di un ritorno
incomprensibile verso una casa sconosciuta.
Attraversiamo le gole di Olduvai, secche e aride e ci spingiamo nelle
praterie del Serengeti.
Da qui una pista di terra che attraversa praterie infinite che si
stendono a perdita d’occhio, ci condurrà in qualche giorno al lago
Vittoria.
I Land Rover corrono veloci e sicuri sulla pista ben tenuta.
Migliaia, milioni di animali vivono in queste zone, branchi di
centinaia di zebre costellano la pianura erbosa. Miriadi di antilopi
guardano incuriosite il nostro passaggio.
È anche il periodo della grandiosa migrazione degli gnu. Questi
possenti animali attraversano tutto il Serengeti in massa, milioni di
esemplari percorrono centinaia di chilometri attraverso le praterie
incolonnandosi in carovane lunghe chilometri.
Noi giochiamo con loro, quando queste sterminate colonne lanciate al
galoppo tentano di attraversare la pista acceleriamo costringendoli a
correre al nostro fianco.
È uno spettacolo che non ha uguali, non riesco e non posso
descriverlo.
Passa così tutta la giornata, percorrendo l’Africa più bella che
si possa immaginare. La sera allestiamo il campo nel Serengeti, ci
facciamo la doccia con le sacche appese alle macchine. Siamo nudi e
bagnati in mezzo al mondo che ci circonda, ci prepariamo a cucinare
qualcosa, a chiacchierare di ciò che abbiamo visto e ad immaginare
quello che ci aspetterà domani.
Siamo liberi come non lo siamo mai stati.
Tornare, tornare, questo viaggio è un maledetto grande ritorno. Ma
ora siamo qui e qui succedono cose strane: durante la notte tre o
quattro iene fanno visita al campo nella speranza di fare razzia di
cibo. L’unica cosa che trovano da portarsi via sono le ciabatte di
Diego.
La mattina ripartiamo dopo una tazza di caffè bollente.
A metà mattinata assistiamo ad un banchetto osceno: sciacalli e
iene, al nostro arrivo, sono intenti a spartirsi la carcasse di un
enorme bufalo che ormai giace con le zampe rigide protese al cielo e
la gola squarciata e divorata.
Mandrie di giraffe fanno da coronamento alla giornata,
accompagnandoci sino ai confini occidentali della piana del
Serengeti.
Costeggiamo il lago Vittoria per tutto il giorno e la sera troviamo
da dormire in una specie di affittacamere cadente, sporco e
scalcinato che si trova in un paese-villaggio tanto infimo da non
avere avuto nemmeno l’onore di essere riportato sulle carte
geografiche.
Il giorno dopo continuiamo a correre lungo le coste del lago,
l’immenso lago Vittoria e la sera, al tramonto entriamo a Mwanza,
splendida, cadente e dimenticata cittadina che si affaccia sulle
dorate acque del lago.
Per cena scoviamo un ristorante che serve bistecche degne di un re. I
tavoli sono ampi, in ferro battuto e posizionati su un prato che si
affaccia sul lago. Le candele illuminano il cibo e l’acqua scura,
tanto vicina da lambire i nostri piedi.
Dall’altra parte della baia appare, come in un sogno, la città,
interamente illuminata da fiaccole, candele e torce. Un tuffo nel
medioevo e due bicchieri di vino. Cosa potremmo chiedere di meglio?
Potenti scrosci di pioggia ci svegliano all’alba. Smontiamo il
campo coperti dai nostri k-way ed in meno di mezz’ora siamo
all’imbarcadero. La ressa di cose e persone è, come al solito
impressionante.
Saliamo per primi ed in un’ora attraversiamo la stretta insenatura
che ci divide dal nostro ultimo tratto di strada prima del Rwanda.
Mancano 350 chilometri par arrivare al confine quindi stimiamo di
essere in Rwanda all’ora di pranzo. Scendiamo dal traghetto e
trenta chilometri ci bastano per capire che in Rwanda forse, non ci
arriveremo mai o per lo meno ci vorranno giorni e giorni.
La strada è simile al letto di un fiume. Solchi profondi un metro e
mezzo zigzagano per tutta la sua lunghezza. Pozze di fango marcio,
nero e fetido ci fanno impantanare sino ai parafanghi ed i Land Rover
faticano più volte prima di risalire dove il fango è meno liquido.
Incrociare altre auto è un’impresa quasi senza speranza. La strada
è costellata di vetture ferme, mezze riverse nelle cunette o
irreparabilmente affondate nel fango. Il peggio lo incontriamo quando
attraversiamo i villaggi e le piccole cittadine. Qui la carreggiata è
intasata da vetture immobilizzate dal fango, spesso dobbiamo fare
delle svolte ed uscire di strada per superare i punti critici.
Viaggiamo ad una media di dieci, quindici chilometri orari. Lungo
una salita di fango superiamo un bus quasi completamente affondato,
per evitarlo ci buttiamo in un canalone alto come le nostre macchine.
Il fango si appiccica alle ruote e fa da ventosa, le macchine
continuano a procedere producendo rumori osceni.
Guidiamo dall’alba al tramonto ed alla sera giungiamo in un paesino
dove potremmo trovare da dormire. Abbiamo guidato sedici ore per
percorrere duecentocinquanta chilometri. Da qui in poi, ci dicono, la
strada migliora. Non so se crederci, la giornata appena trascorsa è
di quelle che ti convincono che non ce la faremo mai ad arrivare alla
missione.
Un affitta-camere sporco e scalcinato, ricco di gechi, scarafaggi e
prostitute è l’unico alloggio che troviamo. Per cena mangiamo in
una specie di pub con le inferriate alle finestre e tre avventori
ubriachi sugli sgabelli. Ci servono una carne tanto filacciosa e dura
che quando impari a mangiarla hai ormai le mandibole indebolite dalla
fatica. Le patate di contorno invece sono buonissime.
La strada migliora per davvero e nel primo pomeriggio arriviamo al
confine. Una specie di piccola baraccopoli assedia gli uffici di
dogana. Noi, affamati, ci inoltriamo negli stretti e tortuosi vicoli
di fango alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti.
Troviamo un mucchio di lamiere, bancali e cartoni che prendono il
nome di ristorante. Ci sediamo. Le due donne e l’uomo che
gestiscono il posto ci guardano sgomenti. Credo sia la prima volta
che dei bianchi si siedono qui. L’uomo viene da noi ma parla solo
Swahili. Così, a gesti gli facciamo capire che vorremmo mangiare e
bere qualcosa. Una delle donne fila via in cerca di quattro coca
cola, l’uomo va via e ritorna con un secchio di plastica bianca
ormai consunto ed ingiallito dal grasso rappreso. In una brodaglia
verdognola galleggiano pezzi di capra mezzo cotti. Dai nostri volti
forse appare il disgusto ma noi cerchiamo comunque di mascherarlo con
un sorriso di assenso.
Dieci minuti dopo abbiamo di fronte quattro Coca Cole e quattro
piatti di quella zuppa. Diego si abbuffa, Cecilia e Federica
spiluccano qualche pezzo dei meno grassi, io non tocco la carne e
bevo il brodo come se prendessi un’infame medicina, trattenendo il
fiato per non sentirne il forte odore. Per il pranzo paghiamo una
cifra con la quale da noi ci compri sì e no una caramella.
Ridiscendiamo verso gli uffici di frontiera. Guardo duecento metri
più in là, oltre il fiume, di là dal ponte di ferro. Il Rwanda.
Lo stomaco mi si torce forse per la brodaglia di capra, forse per la
paura.
Twa, Hutu e Tutsi.
Il bagno di sangue.
L’etnia originaria del Rwanda era quella dei Twa, un popolo nomade
che viveva di caccia e raccolta.
Nel primo millennio dopo Cristo migrarono in questo territorio gli
Hutu, popolazione coltivatrice di origine Bantu.
Nel tredicesimo secolo arrivarono i Tutsi, un popolo nilotico
proveniente dall’area etiope che praticava prevalentemente la
caccia.
Allora? Tutto chiaro? C’erano gli Kwa, poi arrivarono gli Hutu e
per ultimi i Tutsi.
I Tutsi si imposero sin da subito in nome della presunta superiorità
che distingueva la loro razza, ridussero in schiavitù gli Hutu ed
emarginarono completamente i Twa, quindi assunsero il controllo del
territorio; divisero l’attuale Rwanda in staterelli ed
organizzarono una società a struttura piramidale al cui vertice era
il re, chiamato “mwami”.
Il primo mwami di cui sia certificata l’esistenza fu Ruganza Bimba
(quindicesimo secolo).
Il territorio rwandese si espanse, a fasi alterne, fino al 1860
quando vi giunse il primo europeo, il conte Von Goetzen.
Il Rwanda restò tedesco fino al 1918 quando passò nelle mani del
Belgio.
Nel 1957 fu fondato il primo partito per l’emancipazione degli
Hutu, il Parmehutu che si ribellò alla casta dominante. Kigeri V,
ventunesimo e ultimo mwami fuggì e migliaia di Tutsi emigrarono in
Burundi.
Nel 1962 fu abolita la monarchia ed il Rwanda divenne uno stato
sovrano.
Nel dicembre del 1963 decine di migliaia di Tutsi rifugiati in
Burundi rientrarono in Rwanda e compirono stragi di ogni tipo per
riprendere il potere senza però riuscirvi.
Nel 1990 i Tutsi tentarono invano un nuovo golpe invadendo la parte
settentrionale del paese.
1994, l’anno del genocidio.
Il 6 aprile del ’94 l’aereo presidenziale del
presidente-dittatore Juvenal Habyarimana al potere dal 1973, fu
abbattuto da un missile terra-aria. Ancora oggi non si sa chi fece
partire quel missile.
Il giorno 7 aprile alle prime ore dell’alba a Kigali e nelle zone
controllate dalle forze governative, inizia il genocidio tramite
l’eliminazione fisica della popolazione Tutsi e dell’opposizione
democratica. A compiere il massacro sono la Guardia Presidenziale ed
i giovani Hutu.
Il segnale di inizio dei massacri fu dato dalla radio estremista
“RTLM” che invitava, per mezzo dello speaker Katano, a “Seviziare
ed uccidere gli scarafaggi Tutsi”.
Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo.
Vennero massacrate quasi due milioni di persone in maniera
pianificata e capillare.
Uno dei momenti più terribili fu il massacro di Gikongoro: quasi
30.000 persone. In cinque giorni il terreno si intrise di sangue. In
un solo giorno vennero massacrate ottomila persone. Circa 350 in un’
ora, ovvero 5 vite al minuto vennero troncate.
Quasi seguendo un macabro rituale non vennero mai utilizzate armi da
fuoco o bombe. Uno dei massacri più grandi della storia dell’umanità
avvenne per mezzo del più rudimentale degli strumenti, il machete e
con l’ausilio di terribili bastoni chiodati.
I Tutsi possono essere spettacolarmente alti, fino ad oltre due
metri. Gli Hutu sono di statura media. Differenze fisiche di questo
tipo esistono però sia all’interno del gruppo Hutu che di quello
Tutsi. Anche se alcuni Tutsi sono molto più alti ed hanno nasi più
affilati degli Hutu, la maggioranza dei Tutsi non è distinguibile da
un Hutu medio.
Vi è pochissima differenza tra la cultura Tutsi e quella Hutu ed i
due gruppi parlano la stessa lingua. Queste significative somiglianze
portano, molti a concludere che Tutsi è un’espressione di classe o
di casta piuttosto che di etnia.
Noi entriamo in Rwanda attraversando la sperduta frontiera con la
Tanzania.
La strada sterrata, scassata e fangosa arriva fino al ponte che
divide le due nazioni. Da lì parte una ben tenuta strada asfaltata.
Se sei a conoscenza di quello che è accaduto in Rwanda, entrarvi dà
una strana sensazione. Una sensazione di paura, di disagio. In realtà
per noi il Rwanda si è dimostrato uno degli stati più tranquilli,
sicuri ed ordinati in cui siamo passati.
Alla frontiera espletiamo le solite folli formalità, come quella di
cambiare al mercato nero dollari antecedenti il ’99 con dollari più
nuovi, ovviamente rimettendoci qualcosa. In molti paesi africani i
dollari precedenti al ’99 non sono accettati perché prima di
quella data sono state messe in circolazione troppe banconote false.
Alla frontiera i funzionari sono molto gentili e precisi. Mentre
aspettiamo il solito timbro ci sediamo sulla scalinata di cemento che
fronteggia l’edificio. Arriva un grosso Mercedes nero e ne scendono
due uomini molto alti e molto eleganti (eleganti all’africana e
cioè vestiti di mille colori). Dalla macchina scende anche una donna
altissima, fiera e bellissima con il naso molto affilato e la pelle
nera tendente all’olivastro. È elegante, nel modo di vestire ma
soprattutto in quello di muoversi, di camminare e di parlare.
Si incammina fiera e superba, con il suo ombrellino colorato, verso
la piccola folla che stà di fronte all’ufficio di dogana.
Sono sensazioni impercettibili ma le persone sembrano farle largo,
qualcuno le cede un posto all’ombra e sembra che tutti tengano lo
sguardo basso. Lei si siede su una panchetta e guarda lontano innanzi
a se aspettando il suo turno che, se non ho inteso male, sarà prima
del nostro e di quello di tutti gli altri che attendono sotto al
sole.
Io non traggo nessuna conclusione da ciò che ho visto ma mi resterà
impressa tutta la vita l’immagine di questa donna che sembra una
principessa.
Percorriamo le strade del Rwanda diretti a Kigali dove cercheremo un
posto per dormire. Le strade sono tortuose ma ben tenute e l’asfalto
corre veloce sotto di noi. I bordi strada sono puliti ed è pieno di
uomini che puliscono dai rovi e dalle erbacce armati di falcetto e
machete. Quegli stessi machete che hanno compiuto il genocidio ora
vengono usati in modo frenetico e forsennato per tenere pulito il
paese. I lavoratori lavorano con una lena che non esiste nel resto
dell’Africa e forse lo fanno nella speranza di poter cancellare un
ricordo od una colpa che non avranno mai fine.
La strada che porta a Kigali è disseminata di lapidi. All’ingresso
di ogni villaggio vi sono targhe o archi di fiori che commemorano il
massacro del ’94 e rendono omaggio alle vittime.
Ma il sangue versato non si può più raccogliere, scende nella terra
e la permea per secoli.
Giorni dopo Suor Angela, che gestisce la missione di Nka-Nka vicino
al confine con il Congo, racconterà a Cecilia e Federica che quelle
feste che si tengono in ogni villaggio di campagna una volta al mese,
non sono propriamente feste commemorative ma piuttosto veri e propri
processi popolari all’aperto che, molto, troppo spesso, terminano
con condanne che vengono messe in pratica sul momento ed in modo
violento.
Nei vari villaggi del Rwanda, ancora oggi, le persone vengono
giudicate per i crimini commessi nel ’94 e spesso vengono poi
giustiziate sul posto dal popolo stesso.
La terra continua a bere sangue ed il governo a chiudere un occhio,
basta mantenere la pace nella nuova dittatura mascherata da
repubblica. Basta che i machete continuino a tagliare erba ed
arbusti ed anche se ogni tanto mozzano una testa, un braccio o una
vita, non fa niente.
Teniamo le strade pulite.
Dopo quello che è successo diciassette anni fa quello che conta è
l’apparenza di un paese florido e tranquillo. La solita Svizzera
dell’Africa. Basta che il thè ed il caffè crescano rigogliosi,
poi anche se assieme all’acqua viene loro dato da bere anche un
po’ di sangue, beh non fa niente.
Ordine e disciplina per non impazzire.
Le persone che incontriamo sono molto gentili ed ospitali ma esiste
un muro di silenzio per quanto riguarda il massacro del ’94. la
gente, a mio parere giustamente, vuole dimenticare. Ci vorrà ancora
una generazione perché si possa ricordare senza provare vergogna,
dolore e paura. Chi vive certi avvenimenti non è come noi, chi vive
certe cose ha un’altra opinione della vita, del genere umano e
della natura di tutti noi.
Per avere notizie dirette su quello che accadde in quei 100 giorni di
morte, dovremo arrivare in Congo dove tuttora risiedono decine di
migliaia di rifugiati Rwandesi.
Come il nord-est della Tanzania, anche il Rwanda è tutto un
sali-scendi di verdi colline, di pascoli e piantagioni di thè,
caffè, banane e manioca.
La gente sorridente ci rincorre per salutarci e noi, quasi
inconsapevoli guidiamo verso Kigali.
La notte scende e arriviamo in città. Una città caotica ma
abbastanza gradevole ed ordinata, almeno per i canoni africani.
Passiamo la notte in un albergo bellissimo e quindi anche abbastanza
caro. L’albergo si chiama Chez Lando, è in centro ed è circondato
da uno splendido giardino. Lando, il fondatore della struttura è
stato ucciso nel massacro del ’94 perché dava asilo e protezione
ai Tutsi che cercavano di salvarsi la vita.
La mattina, presto come al solito, ripartiamo verso sud-est, verso la
frontiera con il Congo, verso il cuore nero dell’Africa, verso quel
posto dove tutto è successo e dove tutto continua a succedere, verso
quel posto che non fa parte di questo mondo in cui noi tutti viviamo.
Ci inerpichiamo su alte montagne ricoperte di una lussureggiante
vegetazione tropicale. Famiglie di scimmie bianche e nere saltano ai
bordi della strada. All’interno di queste foreste impenetrabili e
sterminate vivono ancora leopardi, elefanti di foresta e scimpanzè.
Questa zona che sembra uscire dritta dritta dalla preistoria è però
in mano a gruppi di ribelli armati che la utilizzano come
nascondiglio e che effettuano spesso attacchi ai mezzi di passaggio.
La polizia di Kigali ci ha detto di stare molto attenti e di non
farsi fermare da nessuno, nemmeno dagli uomini dell’esercito
governativo che picchettano le strade, troppo spesso i ribelli
attaccano, macchine di passaggio e villaggi, travestiti da militari.
O forse chissà, è proprio l’esercito che compie gli attacchi e
poi incolpa i ribelli che forse non esistono nemmeno più.
Come in tutta l’Africa le forze al potere preferiscono tenere le
popolazioni nella paura e nell’incertezza.
Quello che per noi conta è però che c’è il rischio di essere
assaltati, che sia poi l’esercito, la polizia, i ribelli o i puffi
poco importa.
“A chiappe strette”, come si suol dire, guidiamo attraverso
scenari meravigliosi.
Di quando in quando, salendo lungo le strade tortuose che disegnano
percorsi da capogiro, ci si aprono innanzi scenari maestosi e
sterminati. Vallate, montagne e colline fino dove l’occhio può
vedere. Una foresta infinita ricopre questa parte di continente, una
foresta che, senza interruzioni di sorta, arriva fino all’Oceano
Atlantico, distante migliaia di chilometri, scende fino alle verdi
praterie dello Zambia e del Botswana e si arrampica a nord fino a
coprire parte della Repubblica Centro Africana ed a fare da sponda
all’immenso Sahara.
Sulla cima di un passo un cartello verniciato di fresco ci avverte
che siamo sullo spartiacque continentale.
Le acque che cadono sul versante occidentale, dieci metri più in là
si riversano nel fiume Congo ed attraverso la tenebra più oscura
vanno a riversarsi nell’oceano Atlantico.
Le acque che cadono invece qui dove siamo noi, sul versante
orientale, vanno verso nord, a formare il Nilo che, attraverso mille
laghi e cascate e dopo aver superato la trappola delle paludi
sudanesi di Sudd, va a bagnare prima Kartoum e poi la mitica terra
dei faraoni.
Ripartiamo verso ovest ed un po’ scendiamo. Nel primo pomeriggio
dall’alto scorgiamo le acque blu del lago Kivu. Per un po’ lo
costeggiamo.
Ecco qua il paradiso o perlomeno un altro paradiso africano: clima
mite e piacevole, acque limpide e piante tropicali. Alberi dai fiori
di mille colori e odori. La regione del Kivu; potenzialmente il paese
più ricco del mondo per risorse e qualità della vita, in realtà
oggi un luogo infernale che proprio a causa della sua bellezza e
delle sue risorse è teatro di spietate guerre sin dall’inizio
della sua storia.
Diego è agitato perché dopo anni sta per ritornare a Bukavu e
rivedere suor Franca.
Ma anche Cecilia, Federica ed io siamo tesi.
Finalmente stiamo per arrivare alla missione di Irambo-Kalee.
Sono tre anni che aspetto questo momento. L’anno scorso dopo
venticinquemila chilometri di deliri attraverso tutta l’Africa
dell’ovest non siamo riusciti a giungere fino a qui. Abbiamo dovuto
rientrare in Italia, raccogliere altri soldi da portare alle nostre
suore e preparare una nuova spedizione. Siamo ripartiti dal Sud
Africa ed ora dopo altri diecimila chilometri siamo qui, siamo ad una
delle frontiere più incredibili del mondo.
Il Lago Kivu finisce a sud con una stretta insenatura da cui parte un
fiume. Qui passa un ponte, che le suore chiamano il “ponte dei
sospiri”.
Esattamente in questo punto, in equilibrio tra inferno e paradiso si
incontrano i tre stati più pericolosi e dalla storia più
travagliata di tutto il continente e forse del mondo intero. Qui si
incontrano Rwanda, Burundi e Congo.
E noi, minuscoli come formichine scendiamo fino al ponte,
parcheggiamo le macchine ed andiamo a piedi alla frontiera.
Una piccola ringhiera, fragile ed arrugginita ci divide dal Congo.
Di là tre figure ci salutano: due sono vestite di bianco ed una ha
una camicia coloratissima.
Diego corre loro incontro e le abbraccia. Un abbraccio diviso dal
basso parapetto che divide i due stati ed in realtà tutto il
continente Africano. Di qua l’Africa di Karen Blixen, l’Africa
mitica, popolata dai Masai, dai giganteschi elefanti e dalle immense
praterie. L’Africa colonizzata dagli inglesi e dagli arabi.
L’Africa di questo viaggio.
Dall’altra parte l’Africa dell’ovest, caotica ed abbandonata a
se stessa, l’Africa di Konrad, quella con il cuore nero che fa
paura a tutti, quella che non si può attraversare, L’Africa dove
la guerra non finisce mai. L’Africa di Down the Africa, la nostra
spedizione del 2006 che invece l’ha attraversata e conosciuta un
po’.
Per fare si che Diego e suor Franca si abbracciassero in questo punto
abbiamo dovuto percorrere 35.000 chilometri di strade, deserti,
paludi e foreste. Abbiamo dovuto fare tanta strada che avremmo potuto
fare il giro del mondo. Ed ora eccoci qui, come se tutto fosse finito
e tutto debba ancora cominciare.
Sdoganiamo le macchine ed i nostri documenti. Usciamo dal Rwanda e,
con una suora per macchina, attraversiamo il “ponte dei sospiri”
e ci dirigiamo verso la tenebra del Congo sotto un sole splendente
percorrendo nuovamente strade di fango.
Poto Poto
Il diavolo
si nasconde nel fango.
Se è vero che il diavolo è la prova dell’esistenza di Dio, allora
il poto poto (fango) è la prova dell’esistenza dell’acqua.
Sono cresciuto in un paesino dove tranne la strada principale e poche
altre sono sempre state sterrate, quindi con il fango ho una certa
dimestichezza. Mi viene naturale scansare le pozze di acqua marrone,
camminare sul duro tutte le volte che posso e pulirmi poi sull’erba.
Ho però sempre notato che i vecchi dei miei posti erano migliori di
me nell’arte di convivere con il fango. Loro ci sono cresciuti. I
cortili delle case erano fango, le strade fango, i pollai fango e
spesso fango erano anche le piazze ed i vicoli. Fango anche sui tetti
per isolare e fango con aggiunta di cacche varie anche nelle stalle
sotto casa.
Ma qui, signori, qui in Congo il poto poto è il sovrano
incontrastato. Qui il fango è la maledizione dell’esistenza. I
militari, la corruzione e la malattia sono il pane quotidiano ed il
poto poto è il loro infernale condimento.
Qui il fango agisce da collante tra le disgrazie e, in parte, libera
i bimbi dall’incubo di una pulizia forzata e sconosciuta all’animo
dei più piccini.
Entriamo in Congo dalla frontiera di Cyangugu, vera e propria
anticamera dell’inferno. L’asfalto del Rwanda finisce incontrando
il ponte che divide le due dogane. Entri in Congo, da qualunque
parte, ed entri nel fango.
Una strada scassata ed infangata sale leggermente verso una gola
scavata nella collina. Pareti di terra rossa vomitano colate di fango
che riempiono le malandate cunette. Accostiamo ad un gabbiotto della
polizia fatto di mattoni e calce, rattoppato in qualche punto con
manate di finto intonaco che è in realtà poto poto rinsecchito.
La solita marmaglia ci viene incontro: donne in divisa beige e uomini
in divisa blu. Poliziotti in borghese vestiti di stoffe africane che
hanno le mille tonalità del marrone come la pelle dei congolesi.
Militari in divisa, in mezza divisa o con un quarto di divisa. Da un
buco nel muro fa capolino un militare gigantesco in canottiera e
pantaloni da guerra, si sta facendo la barba, si interrompe e viene
verso di noi togliendosi la schiuma con uno straccio. Sembra sappia
il fatto suo.
Invece no.
Si avvicina alle macchine, ci gira intorno con maestosità, è alto
quasi due metri. Viene da me ed invece di chiedermi i documenti mi
chiede una lametta da barba. Non ne ho, se ne va quasi sconsolato e
mezzo metro più basso.
Scoppia il parapiglia infernale che contraddistingue buona parte
delle frontiere africane ed in queste cose il Congo la fa da padrone,
il Congo riesce sempre ad essere la caricatura grottesca di tutti i
mali che affliggono il continente.
Suor Franca ci dice di lasciar fare e parlare lei e, con uno svolazzo
di vesti “marrone candido” scompare dentro agli “uffici-baracca”.
Noi abbiamo il nostro bel da fare a tenere a bada i soliti sei corpi
di polizia, legionari, militari, bucanieri, pirati, vigili e chi più
ne ha più ne metta.
Solo l’Italia riesce a competere con il Congo per quanto riguarda
il numero di corpi inventati di ordine pubblico e quantità di
modelli di divise.
Si va in un ufficio e si paga una mancetta per avere i timbri sui
passaporti, si va in un’altra stanzetta e si paga una mancetta per
non avere i visti sui documenti delle macchine perché, ci dicono,
“qui le vostre macchine non possono entrare, quindi meglio far
finta di non averle viste”.
Far finta di non averle viste? Ma siamo matti? E quando poi ci
fermeranno decine di volte all’interno del paese cosa gli diremo?
“Se proprio non potete farne a meno dite che è tutto a posto e che
vi ha fatti entrare nello stato il Grand Chef di Cyangugu pas de
probleme monsieur.”
Quest’ultima frase arriva come un lampo a ciel sereno. Siamo di
nuovo qui, siamo rientrati nell’”Africa francese”, quella dove
tutto è possibile, quella dove servono solo le mancette e la
simpatia, quella dei rapporti umani, quella che ha una burocrazia
talmente assurda che accetta soluzioni assurde, quella in cui noi
italiani ci muoviamo come pesci nell’acqua, quella che manderebbe
fuori di testa qualunque inglese o tedesco.
Un altro gruppo di pseudo-funzionari ci dicono che devono perquisire
le macchine ed il loro contenuto. Apriamo i portelloni e, con l’aiuto
di due donne che fanno le “poliziotte estemporanee” (professione
molto comune in centro Africa), cominciano a svuotare le auto di
borse, zaini e contenitori vari. Lo fanno in modo disordinato e con
gesti plateali. Sforzi sovrumani deformano i visi delle donne che
scaricano le nostre borse, gli uomini le incitano di sbrigarsi e le
sgridano.
Non trovo un senso a ciò che fanno: borse che vengono aperte sul
posto, altre che non vengono nemmeno considerate, altre ancora che
vengono portate in un ufficio per un’ispezione più approfondita
perché sono borse dall’aria sospetta. Ogni tanto si intrufola
qualche passante che cerca di arraffare qualcosa.
Bisogna stare attenti a non farsi rubare niente. Diego va
nell’ufficio con suor Franca e i passaporti, io resto dalle
macchine a fare la guardia armato della mia manina grattaschiena che
più di una volta cala sulle mani di chi le infila troppo a fondo
nella macchina. Cecilia e Federica vanno nello stanzino dove si
controllano i bagagli.
Il gioco è semplice, ci dividono e tentano di spaventarci e
stressarci per avere un supplemento di mancette.
Suor Franca dice di pazientare e non cedere. Così è. Dopo mezz’
ora ci lasciano andare.
Ripartiamo e dopo dieci metri una sbarra ci ferma ed un elegantissimo
poliziotto abbigliato di azzurro ci avvicina, parla un po’ con suor
Franca la quale gli allunga due dollari e questo sorride e ci lascia
andare.
“Perché a questo gli avete dato dei soldi?” domando.
“Ma, sai, suo figlio viene a scuola da noi, sono brava gente, è un
anno e più che il governo non gli paga gli stipendi e di qualcosa
devono pur vivere.”
Pochi metri ed entriamo a Bukawu.
Bukawu, quarta città del Congo, forse l’unica città africana
priva di township perché non ha un centro pulito e ordinato.
In realtà Bukawu è un'unica enorme baraccopoli.
Un tempo giardino dello Zaire, oggi città in rovina, specchio delle
atrocità compiute dai dittatori e dai presidenti-mostro che hanno
governato in questi anni.
Le vie in molti punti sono così mal ridotte che il traffico, assurdo
ed incessante, passa sui residui di quelli che un tempo furono
marciapiedi.
Passiamo nella via principale e dopo poco siamo costretti a guidare a
un centimetro dai palazzi cadenti che la costeggiano, lasciando vuote
le due corsie vere e proprie.
Un traffico come quello di Bukavu in realtà non esiste. Non può
esistere. Migliaia di auto scassate e fumanti, catorci e relitti
abbandonati a bordo strada, a volte in centro strada a fare da
spartitraffico. Le persone passano come un fiume tra i motori accesi
ed i clacson sfiatati. Centinaia di motorini sfrecciano e svicolano
tra le macchine.
Si nota che un tempo la città esisteva, si vede che qualcuno in un
lontano e mitico passato aveva costruito strade, aiuole, piazze e
marciapiedi. Oggi non esiste più niente. Il selciato dei marciapiedi
è stato usato per riempire le voragini in mezzo alle strade,
l’asfalto delle strade, a blocchi, lo hanno usato come mattoni per
farcisi delle specie di baracche. I pali della luce sono tutti storti
e contorti ed i cavi della luce e del telefono disegnano un intrico
pari a quello di una pianta rampicante, ogni appiglio è buono, una
pianta, un palo mezzo crollato, un ferro di una ringhiera che sporge
dalla facciata di un palazzo o lo specchietto retrovisore di una
carcassa di camion ormai completamente arrugginita. Qualche volta i
cavi elettrici, non avendo appoggi, non fanno altro che starsene lì,
a terra, come bisce morte, con i bambini che ci giocano a fianco.
Niongolo, l’autista-tuttofare della missione guida forte e male
come qui fanno tutti ed in mezz’ora siamo davanti al cancello della
missione.
Tre colpi di clacson ed il cancello si apre e noi entriamo.
Domani o dopodomani andremo alla missione di Irambo, per ora siamo
ospitati qui.
L’edificio che ospita le suore è una villa risalente ai tempi
d’oro, appartenente a qualche bianco, a qualche commerciante o a
qualcuno del regime. Comunque è una casa in stile africano, molte
porte e finestre ed un grandissimo salone.
Una rimessa ospita le due auto ed una piccola dependance è a
disposizione degli ospiti. Qualche decina di metri più in là
un’altra costruzione che assomiglia all’asilo in cui andavo da
bambino, ospita le novizie.
L’accoglienza da parte delle suore è degna di persone importanti
quali non siamo certamente.
Suor Franca, potente ed energica svolazza qua e là con passo di
marcia. Meglio non trovarsi sulla sua strada, soprattutto quando
guida il Toyota della missione.
Suor Michelina è piccolina e perennemente agitata, instancabile pure
lei e pungente come uno spillo.
Suor Annamaria arriva dall’India ed il suo iter nelle suore
Rossello è pari a quello di Rambo nel corpo dei berretti verdi
americani.
Le suore Rossello sono un po’ come i paracadutisti per l’esercito,
vanno per prime e nei posti peggiori.
Nei giorni successivi vengo a sapere che hanno missioni in Rwanda,
Burundi, nel nord-est del Camerun, in Tchad, in Repubblica
Centraficana e, ovviamente, in Congo. Per completare l’opera
potrebbero andare direttamente all’inferno e avviare una missione
lì per aiutare i dannati a sopportare meglio le loro pene.
Ma forse lo fanno già.
Le suore sono come i frati, hanno fatto voto di povertà, non hanno
cose di loro proprietà e non percepiscono alcun tipo di stipendio.
Tutto quello che riescono ad avere lo investono nella causa per la
quale stanno vivendo, aiutare chi ha bisogno. Da quanto ho capito,
persone come suor Franca, oltre a non percepire stipendio e non
tenere nulla per sè, investono in queste situazioni, anche i soldi
di famiglia.
Negli anni suor Franca, tra le altre cose, ha anche fatto in modo che
Niongolo, ex bambino di strada, avesse una casa così da potersi
sposare e avere dei bambini.
Suor Michelina, nelle veci del colonnello Troultman, è arrivata da
poco e tra non molto partirà per il Camerun. Senza sosta si sposta
da un posto all’altro portando forza e risorse nuove.
Noi qui ci sentiamo come bimbi. Tutti ci trattano con la massima
cortesia ed in ogni gesto si legge la gratitudine che hanno tutti nei
nostri confronti, forse non tanto per gli aiuti che abbiamo portato,
quanto per il fatto di essere qui.
Il giorno dopo suor Annamaria ci porta alla missione di Chai uno dei
quartieri più poveri di Bukawu, dove le suore gestiscono un
ospedale.
La strada per Chai è quanto di più allucinante si possa immaginare.
Un fiume di macchine, persone, motorini e fango scorre in mille
direzioni formando gorghi e labirinti nei quali muoversi in macchina
è un’impresa assurda.
Mentre guidi non capisci come facciano le moto e le altre macchine a
non scontrarti e come sia possibile che nessuno resti stritolato
sotto le ruote dei Defender.
La gente a piedi striscia contro le fiancate delle macchine, scarta
all’ultimo il camion che arriva dalla direzione opposta, si butta
davanti alla tua macchina, poggia una mano sul cofano e, con una
piroetta scivola di lato, scarta un motorino e, come se niente fosse
si accuccia ad un banchetto e contratta un casco di banane.
Noi avanziamo lentamente in mezzo al delirio. Tutti, ma proprio tutti
ci guardano incuriositi, molti, moltissimi ci sorridono, qualcuno ci
saluta, altri ci lanciano dietro insulti e sibilano parole sprezzanti
nei nostri confronti.
Le ruote delle macchine arrancano in salita e slittano e scivolano
nel fango a pochissimi centimetri dai piedi delle mamme che
accompagnano piccolissimi bambini che sfiorano le nostre portiere
abbassando la testa per non essere colpiti dagli specchietti
retrovisori.
Qui la città è fatta di fango. Siamo sul lato di una delle decine
di alte colline che formano Bukavu.
Baracche e capanne anch’esse fatte di fango sorgono ovunque, senza
nessun ordine, a poche decine di centimetri l’una dall’altra, a
volte attaccate, schiacciate l’una contro l’altra.
Mucchi di baracche compressi l’uno all’altro a causa degli
smottamenti continui del terreno. Un coacervo di lamiere, bancali e
fango, tavole marce e pentole nere che bruciano su fuochi umidi. E
panni stesi ad un centimetro dal fango che, immobile, ogni giorno
scorre.
Canali di scolo dalle pendenze vertiginose corrono serpeggiando tra
le baracche seguendo percorsi da pista di bob. In mezzo i bambini
giocano a creare dighe ed a farle distruggere dalla furia dei
liquami.
Una città, zone e quartieri in continuo mutamento, ogni giorno, dopo
ogni acquazzone pomeridiano, la città cambia forma, struttura,
forse odore e di sicuro umore.
Le cunette del giorno prima diventano altre, diventano le cunette di
adesso, che non sono le stesse di quelle di domani.
Ogni giorno nuovi puntelli sorreggono pareti che hanno raggiunto
l’inclinazione critica. Il giorno dopo questi puntelli diventano
stendibiancheria e, con il tempo, la settimana dopo, vengono
tamponati con spazzatura e lamiere e si trasformano in nuove
abitazioni oblique che forse, un giorno, se non verranno distrutte da
una frana, avranno la fortuna di essere raddrizzate.
“Ogni tanto”, ci dice suor Annamaria, “la collina si scrolla di
dosso un po’ di peso ed una parte di queste abitazioni scivola a
valle trasportata dalle colate di fango, trascinando con sè cose e
persone. Quando succede è un disastro, morti feriti e spesso
dispersi, sepolti sotto al fango. Si dice che certi quartieri siano
in movimento da anni, che scivolino, senza troppi danni e lentamente
verso il basso. Lasciando nuovamente spazio libero a monte. Il
problema è che qui ci sarebbe la foresta ma questi arrivano,
disboscano, costruiscono le loro baracche e poi scivolano a valle e
magari muoiono. Non c’è modo di far capire loro che se lasciassero
un po’ di piante il terreno non franerebbe. Sembra che ogni
centimetro quadrato sia prezioso”.
Chiedo ad Annamaria quanti abitanti fa Bukavu.
“Esattamente non si sa. Si parla di quattro cinque milioni, altri
dicono solo uno. Probabilmente il vero stà nel mezzo come al solito.
E poi ogni giorno muore tanta gente e tanta ne arriva e tantissimi
bambini nascono….”
Smetto di ascoltare Annamaria e, guidando come un automa guardo
scorrere le baracche accanto a me.
Ho di fronte un’immagine di Bukavu che mi ghiaccia il sangue nelle
vene.
E’ un mare di fango, di baracche costruite su pendii scivolosi, di
case fatte di fango, costruite sul fango e che fango torneranno.
Dal finestrino la scena che scorre al rallentatore è quella di
migliaia di facce, di occhi, di espressioni strane, lontane dalle
nostre. Gente con i piedi appoggiati nel fango e baracche che
scivolano su ripidi pendii. C’è un suono nell’aria, è il suono
di milioni di voci e di migliaia di rachitici motori diesel che
impestano le strade.
E su, in Europa, la gente guarda la televisione e non capisce un
cazzo.
Qui le suore, candide come la neve, combattono un demonio assatanato,
dalla coda di serpente e gli occhi gialli del gatto, che, nero come
la notte e sfuggente come un’ombra schifosa e viscida, scivola tra
i vialetti, nelle intercapedini in pendenza tra queste baracche fatte
dai dannati per i dannati e, strisciando con lingua biforcuta porta
il male nell’anima della gente, la cattiveria nelle teste delle
donne, la violenza nel cuore degli uomini e la paura della notte
negli occhi dei bambini.
Le suore, bianche, forti e veloci, tra un frusciare di vesti che
sanno di Gesù e Maria insieme, lo inseguono nel labirinto di fango.
Lo inseguono e lo stancano. Gli danno la caccia e lo stanano come una
belva viene stanata dal cacciatore.
Il diavolo si annida e si insinua come una malattia, come un topo,
come un veleno nelle vene della città.
Le suore si immergono nella tana ed ogni giorno ne arrestano
l’operato, in una lotta senza fine, senza vinti ne vincitori, in
un’eterna lotta che serve da esempio e monda l’anima dei puri e
sgomenta chi ha paura del bene e non riesce nemmeno a comprenderne la
forza.
Ogni notte, ogni giorno le nostre suore scendono nel labirinto e
lottano con il diavolo che vi si annida, lottano perché lui è il
male che da sempre esiste.
Arriviamo alla missione di Chai e suor Annamaria tira fuori pane e
nutella, fa un caffè e mangiamo come facoceri. Per oggi il diavolo è
stato tenuto fuori da queste mura con la dolcezza del cioccolato, ma
domani ci vorrà di nuovo la forza dello spirito.
Non sta certo a me comprendere l’importanza di ciò che stanno
facendo qui le suore, e forse non sta nemmeno a me raccontarlo.
La loro non è una lotta contro la fame, la povertà o la malattia;
la loro è una lotta senza esclusione di colpi contro il male
supremo, contro tutto ciò che è al di là di quello che io e voi
che leggete, siamo in grado di comprendere.
Qui il crocifisso è un’immagine tanto potente ogni giorno ed in
ogni momento che nella nostra bella e placida Europa non possiamo
immaginare se non nei momenti troppo vicini alla morte ed alla
disperazione da non poter essere descritti e raccontati.
Quaggiù ho capito che Dio non è mai quello che immaginiamo o che
abbiamo la pretesa di non immaginare.
Dio risplende nel “sollievo dalle umane miserie” e, in questo
modo, opera ogni giorno con mani forti e consunte ed ogni giorno
aspira alla conoscenza ed alla coscienza di quello che siamo e di
quello che facciamo.
La sera torniamo alla missione di Nguba e attorno ad una tavola
imbandita di sombe, bisciogolo, ugali, pasta e formaggio, preghiamo,
cantiamo e poi ci stappiamo cinque o sei birre, alla faccia di satana
e del poto poto.
La sorgente della vita.
Ci sono quei posti che respirano e fanno respirare un’aria
particolare, più pura. Un’aria che scende verso i polmoni ma prima
di arrivarvi si disperde, prende altre vie ed arriva ad ossigenare
quella parte di noi che è sconosciuta ad ogni scienza e
fantascienza, quella parte di noi che conosce ed è conosciuta solo
dalla poesia, quella parte che non ha alito né orecchio.
Così restiamo senza fiato, incantati a guardare senza capire,
incantati a sentire senza udire alcun suono.
Questi posti che incantano l’anima senza che i sensi ne siano
minimamente interessati, sono pochi, pochissimi e spesso mutevoli e
differenti. Mutano con il tempo e con l’età delle persone, si
differenziano a seconda di chi ci arriva e di chi se ne va. Sono
posti che se proprio volete che ve lo dica, non esistono. Sono luoghi
inventati. Sono luoghi che come li scopri ti sfuggono e ci puoi
restare solo qualche minuto, nei casi più fortunati qualche giorno,
ma niente di più perché la familiarità con essi è anche la loro
fine.
La missione di Irambo è uno di questi posti.
La vegetazione è verde come quella di un fumetto, le foglie dei
banani così grosse che possono riparare dalla pioggia un’intera
comunità di fate e folletti. Le acque del lago Kiwu sono limpide
come cristalli di neve ed il fango delle strade rosso rosso, come le
mele delle fiabe.
Il cielo blu, sempre blu, si arrotola come in una spirale invisibile
e, attorcigliandosi su se stesso si trasforma in una voliera di
stelle adatta a contenere ogni genere di creatura in grado di volare.
Farfalle grosse come uccelli e uccelli grossi come mosche virano e
cabrano sfiorando fiori che nemmeno Hoffmann ha mai avuto il coraggio
di immaginare. Pistilli gialli come il sole esplodono come una
fontana racchiusa tra le lenzuola rosso fuoco dei petali iridescenti.
Possenti e carnosi steli sorreggono strutture blu e viola, leggere
come un soffio di ovatta e colorate come arcobaleni solo immaginati.
Insetti ubriachi di polline si spostano appesantiti da un deliquio
all’altro, grossi come uova di gallina e veloci come vecchie
mosche.
Ma Irambo è anche terra di morte e disperazione per l’uomo che,
più mestamente delle altre creature, si aggira per questa regione
camminando su piedi scalzi o guidando spossati motori diesel.
Una macchina al secolo dà l’idea di quanti mezzi passino da queste
parti. Una morte al minuto dà la certezza di trovarsi sempre in
bilico tra inferno e paradiso.
Un paradiso dove l’uomo tecnologico è incapace a restare per più
di un minuto ed un inferno dal quale l’uomo primitivo non riesce a
scappare.
Noi raggiungiamo Irambo arrivando da sud, da Bukawu, girone infernale
più grande e conosciuto.
Il nostro Caronte è Niongolo, la nostra barca una Toyota e la nostra
Beatrice è Suor Franca.
Noi siamo quattro, seduti sui casseri-parafanghi del Toyota e
guardiamo lo scorrere della strada come costernati dal non poter
toccare tutto quello che vediamo.
A metà strada tra Bukavu e Irambo c’è una cava di pietre dove
uomini, donne e bambini lavorano.
Gli uomini vivono il sogno di non essere più neri perché la polvere
delle pietre spaccate li ricopre rendendoli più simili ai bianchi,
meno simili ai loro simili, meno uomini e più cadaveri.
Le donne spostano macigni grossi come grosse angurie e li depositano
vicino a bimbi e vecchi che, con consunti martelli e scalpelli
spuntati, li trasformano prima in sassi, poi in sassetti, poi in
pietre, quindi in pietrine ed ancora in pietruzze ed infine ghiaia.
Una catena umana che fa la ghiaia a mano, come se ogni grano di
pietra fosse un gioiello, un diamante o uno smeraldo. Bianchi,
stanchi, pallidi e sudati, a fine giornata hanno creato una carriola
di ghiaia ed il loro compenso è un secchio di quella stessa materia
che li piega in due e li uccide, prima nella mente e poi nel corpo.
La strada prosegue e dopo chilometri incontri i boscaioli che, armati
di seghe lunghe tre metri tagliano enormi tronchi, li issano su
giganteschi cavalletti ed a mano, pazientemente e con infinita
fatica, li riducono in tavole perfette che verranno vendute a peso.
Proseguendo si incontra il posto di guardia che da poco le milizie di
Kabila sono riuscite ad espugnare, a liberare dalle mani dei ribelli
che lo usavano per fare il tiro a segno con chi passava per la
strada.
Ancora dopo incontri la mille volte nominata base MONUC, missione ONU
(pachistana) di stanza in Congo. Carri armati bianchi, motoscafi
bianchi e fuoristrada bianchi se ne stanno rinchiusi tra muri bianchi
che disegnano una fortezza, sorvegliati dai caschi blu.
Qui l’ONU si dà un gran da fare a costruire moschee e poco altro,
pare, almeno stando a quello che qui tutti dicono. L’ONU non fa
niente, lo dicono i ricchi, i poveri, i religiosi, i malati ed i
sani, le donne e i vecchi, i militari e i dottori. Solo i mussulmani
mi fanno sapere che la MONUC stà facendo un ottimo lavoro.
Bene, forse per partito preso, crederò a chi mi darà di più, a chi
mi farà star meglio, a chi mi darà la spiegazione che più servirà
ai miei discorsi.
La strada che da Bukawu va a Irambo non voglio nemmeno descriverla,
sarete tutti ormai stanchi di sentirmi ripetere le solite cose sulle
strade africane, così questa non la descriverò perché è peggio
delle altre.
Sessanta chilometri si percorrono in circa dieci ore, senza fermarsi
mai. La media è altissima, se sei a piedi, zoppo e scalzo. Ma se sei
su un Toyota 4x4….
Per la prima volta vedo gli edifici che sono stati costruiti con i
dodicimila dollari portati fino ad ora ad Irambo: un magazzino per la
distribuzione dei generi di prima necessità ed un refettorio
nutrizionale composto da cucina, servizi ed un’aula in cui le mamme
prendono lezioni su come sfamare i figli, su come differenziare il
più possibile la dieta dei piccini per dargli una possibilità in
più per vivere.
Restiamo a Irambo qualche giorno, ospiti di suor Marie Jeanne che da
poco dirige la missione. Le suore Rossello, qui come a Nguba mettono
a nostra disposizione tutto quello che di meglio hanno. Beviamo coca
cola, aranciata e birra calde, mangiamo carne e formaggio. Solo
giorni dopo scopriremo che abbiamo esaurito le loro scorte mensili di
questi prodotti e, posso giurarlo, non abbiamo esagerato per niente,
qualche bibita e qualche pezzo di formaggio. Il punto è che qui
anche le suore hanno poco, pochissimo: manioca, vegetali da bollire,
pane e poco altro e se hanno qualcosa in più fanno in modo che tutta
la comunità ne goda.
Suor Franca non si sbottona molto ma quando lo fa racconta situazioni
che lasciano con l’amaro in bocca.
“Due anni fa i ribelli hanno attaccato la missione, ucciso,
stuprato e rubato. Io sono riuscita a mettermi in fuga per miracolo,
grazie ad uno dei ragazzi che facevano da sentinella giù al
villaggio e che è corso ad avvertirmi. La priorità assoluta è
stata quella di prendere con me tutte le novizie e metterle in salvo.
Le novizie sono una tentazione troppo forte per ribelli e militari
che scendono dai monti dopo mesi di astinenza. Siamo scappate tra le
piantagioni di banane, siamo scappate per chilometri e chilometri e
siamo rimaste lì, all’aperto, protette solo dalle grosse foglie,
per 24 giorni. Le persone dei villaggi della foresta venivano a turno
a nutrirci ed a portarci l’acqua, mantenendo il segreto del nostro
nascondiglio e sfidando la morte per proteggerci. Dopo anni di duro
lavoro in questi posti ho capito che ho fatto bene, che non ho
lottato per niente, che la gente mi considera una di loro ed una di
loro resterò ancora per molto tempo.”
Quando senti questi racconti rimani scioccato, scioccato dalla forza
di una persona che vive per gli altri e con gli altri.
Suor Franca ci racconta ancora di come sia difficile andare a fare la
spesa: “Vedo una bella bistecca, sono mesi che non mangio carne, la
prendo e poi penso quanta manioca o sombe posso comprare se rinuncio
alla bistecca, quante bocche posso sfamare e così, poso la bistecca
e carico il Toyota di sale, manioca e sombe. Ogni volta, ogni piccolo
gesto come questo si trasforma in un problema di carattere morale.
Non è mica facile.”
Così qui le suore lavorano duro, soffrono, si fanno i loro cicli di
febbri malariche e resistono, resistono a tutto pur di andare avanti
nel loro operato.
In questi posti ci si rende conto che le velleità da missionari che
molti di noi in Europa abbiamo sono solo una finzione, una voglia di
avventura camuffata da bontà d’animo, una scappatoia immaginaria
alla noia di ciò che facciamo ma soprattutto alla noia di noi
stessi. Infatti poi, vieni qui e scopri che i missionari veri, quelli
che qui vengono e operano, sono pochi, pochissimi. A Bukawu nella
missione delle Rossello ci sono due suore bianche, in quella di
Irambo ora nemmeno una. Nella missione in Rwanda c’è solo suor
Angela ed in Camerun hanno bisogno della presenza di Michelina. E noi
che ci immaginiamo missioni affollate da migliaia di suore
indaffarate a sfamare gli affamati ed a curare i malati. Qui le
poche sorelle che ci sono salvano vite tutte le volte che possono e
anime tutti i giorni, le loro preghiere accompagnano i malati anche
dopo la morte, lontano, per mesi e mesi.
Devo smettere di parlare di queste sorelle che ho conosciuto, devo
smettere perché le mie parole non sanno comunque rendere giustizia a
ciò che fanno, a ciò che sono. Posso solo dire che qui chiamare
sorella una suora non è un modo di dire preconfezionato, la parola
sorella, quando la pronunci si riappropria del suo significato più
vero e profondo. Quando penso a loro se non fossi un duro quale sono
piangerei lacrimoni caldi, invece sorrido e penso ad altro, tipo ad
accendermi una sigaretta.
Il refettorio di Irambo di domenica si trasforma in un lazzareto, in
un lager, in una misera fossa comune fatta di carne e fango.
Mi spiace usare questi termini per descrivere uno dei posti in cui il
bene viene praticato nella sua forma più pura e più scevra da
interessi personali.
Centinaia di persone arrivano, trascinandosi dietro o in spalla
bambini malati, che a volte non riescono a camminare, malnutriti,
denutriti, malati e letteralmente coperti di stracci. Per arrivare
qui ed avere a disposizione un rubinetto a cui lavare i piccoli
corpicini gonfi, per avere una tazza di manioca, alcune donne
camminano per quindici venti chilometri.
Donne scure dagli abiti coloratissimi e dagli occhi rassegnati lavano
e sfamano figli non loro, figli della guerra, della malattia e
dell’intolleranza.
La gente arriva e si siede paziente nel fango erboso del prato che
fronteggia il refettorio. Pazientano in attesa delle razioni
settimanali: mezzo chilo di sale, dieci chili di farina di mais e
venticinque di farina di manioca. Se è una domenica fortunata viene
distribuito anche un po’ d’olio.
Intanto le donne più volenterose di Irambo cucinano manioca e la
distribuiscono ai più piccoli. Un uomo in camicia multicolore prende
le impronte digitali e segna nome e cognome di tutti quelli che
beneficiano della “spartizione dei pani”. Qui quasi nessuno sa
scrivere, così prendere le impronte digitali è ormai un rito
consolidato.
Noi ci aggiriamo per questo posto dove Dio aleggia come un’ombra
sotto al sole, camminiamo con i piedi fasciati in scarpe da
ginnastica che sono ormai un blocco di fango. Camminiamo tra queste
persone scattando fotografie e facendo domande. Nessuno ci guarda
storto, credo che tutti siano stati in qualche modo informati di
quello che siamo venuti a fare qui. Gli sguardi sono tutti pieni di
timida gratitudine, le donne più coraggiose si avvicinano e ci
ringraziano infinite volte, tanto da mettermi a disagio, in fondo non
abbiamo fatto poi molto, potremmo fare di più, molto di più….
Una vecchia signora mi avvicina e si mette in posa con il suo bimbo,
mi chiede di far loro una foto e di mostrarla alle “signore” in
Europa “perché capiscano” mi dice.
A me tremano le mani, il bimbo di fronte a me avrà sei sette anni ed
un tumore in faccia che gli ricopre parte del naso, mezza guancia ed
arriva allo zigomo. È un male profondo ed il bimbo ha la bocca che
trema, batte i denti sotto questo cocente sole che brilla lassù in
alto lontano dalle umane miserie. Per tutto il pomeriggio questo
piccolo condannato non mi leva di dosso i suoi occhi calmi ed
impauriti, curiosi e stanchi. Ogni volta che mi giro lui è lì che
mi osserva, mai un sorriso gli illumina il volto e mai qualcosa lo
distrae dall’osservarmi dritto nelle palle degli occhi.
Mi scopro debole, impacciato ed immaturo. Incapace di affrontare il
male altrui, incapace di soffermarmi a comunicare anche solo con uno
sguardo. Scatto al bimbo un’altra foto e lui accenna un sorriso,
subito cancellato dal dolore e dalla paura.
Che Dio ci aiuti, ci sollevi dalle pene e dalle responsabilità.
Sono lontano mille miglia da me stesso e dal mondo che mi circonda.
Non sono adatto, non ci riesco, ho paura di tutte queste cose, ma per
oggi non scapperò.
Ad Irambo non c’è corrente elettrica e non c’è acqua potabile,
almeno potabile per degli europei che qui sono fragili ed indifesi
come creature appena nate, esposti a tutti i mali del mondo.
La sera si va a dormire con il buio, nelle tenebre si suda, ci si
agita si sta soli con sé stessi e si riposa.
Ci si sveglia alle prime luci dell’alba, si va a messa, dove mille
persone partecipano al rito e centinaia cantano e decine ballano. Il
poto poto è ovunque, per le strade e sui sentieri, nei cortili e
nelle cunette, rinsecchito al sole tra crepe e ragnatele rivive, in
rivoli e ruggì, sotto l’acqua battente dei temporali e stenta a
ritirarsi se lavato via dalle abitazioni. Il poto poto fa da gel
sulle teste rasate e ricciute dei piccoli neretti che affollano la
missione, si trasforma in calzino attorno ai piedi nudi delle persone
che passano lungo le sue strade. Imprigiona le mie scarpe e le fa
diventare pesanti dieci chili. Qui poto poto vince la partita contro
asfalto e cemento per mille punti a uno.
Un pomeriggio, presto, ci incamminiamo con suor Regina per fare una
passeggiata, camminiamo verso nord costeggiando il lago,
attraversiamo numerosi villaggi ed ogni volta sempre più bambini si
accodano stando a distanza di sicurezza. Ci seguono, per chilometri,
ci scrutano timidamente, ci studiano. Il guardarli scatena
immediatamente risate e baruffe.
Camminiamo tutto il pomeriggio e mentre stiamo tornando Diego
fotografa un camion arancione colmo di militari.
Scoppia il finimondo. Alcuni militari saltano giù e cercano di
appropriarsi della macchina fotografica. Suor ….. si mette in
mezzo, i militari e due poliziotti si scaldano e puntano la suora,
Diego si mette di mezzo e risponde per le rime, altri militari
chiedono la telecamera a Federica e fanno per saltare giù dal camion
e andarsela a prendere. Mi sposto tra Federica e i militari e loro,
vermi, tornano al loro posto.
Le donne, come in un lontano passato si stringono attorno agli uomini
e gli uomini a parole o a sguardi lottano e soppesano la situazione.
Le cose si sistemano tra uomini per il semplice fatto che a scatenare
questi casini sono proprio gli uomini.
Paura e trambusto, poi due poliziotti in borghese, in Jeans e stivali
in finto coccodrillo, lucidi come serpenti, vengono a placare gli
animi.
Quattro parole fra suor Marie Jeanne e i poliziotti e tutti tornano
nel cassone ed il camion riparte.
Noi torniamo alla missione scortati dai due sbirri in borghese. Qui
le discussioni continuano per un’ ora di fronte a suor Marie
Jeanne. Spiegazioni e controspiegazioni non servono a un bel niente,
noi dobbiamo andare al commissariato a Bukavu ed essere denunciati,
potremmo essere spie o roba del genere.
Suor Marie Jeanne appiana tutto: due birre e tre dollari. Tutto è
risolto, i poliziotti salutano e si allontanano camminando nel fango
con i loro stivaletti lucidi, contenti come bambini, ma molto più
pericolosi.
Due giorni dopo le suore ci portano in visita alla parrocchia di
Kalèe, trenta chilometri più a nord. Andiamo a trovare padre Bemba.
Arriviamo nel cortile della chiesa. Il posto è occupato da un campo
militare dove uomini in mutande e canottiera vanno a spasso armati
aspettando che la guerra ricominci per potersi rimettere le uniformi.
Il padre arriva e ci dà il benvenuto, ci dice che la chiesa e la
sacrestia sono state occupate dalla guarnigione May May del
colonnello Yabushebua Aaron da ormai un anno e che quindi lui è
costretto a stare nella piccola casa di fronte. Ci invita in casa a
bere un “Droghino” (birra di banana ad alta gradazione alcolica)
ma prima, ci dice, “Dobbiamo andare a porgere i nostri omaggi al
colonnello.” Dobbiamo salutarlo, rendergli nota la nostra presenza
ed il motivo della stessa, già che ci siamo bisogna domandare il
permesso di attraversare la sua zona. Nei prossimi giorni io e Diego
dovremo passare di qui con le nostre macchine per raggiungere prima
Goma e poi la frontiera con l’Uganda.
Ci incamminiamo lungo un viale alberato presidiato da militari armati
fino ai denti che presiedono mortai e mitragliatrici coperte da reti
militari di stoffa. I soldati guardano Cecilia e Federica con occhi
che non mi piacciono per niente. Al nostro passaggio qualcuno si fa
in mezzo alla strada ma poi ci lascia passare, qualcuno serra i
ranghi dietro di noi come per chiuderci un’eventuale ed assurda
fuga.
Tutto sommato però la presenza del prete e delle suore mi
tranquillizza un po’.
Entriamo sotto ad un porticato in ombra dove altri soldati sono
intenti a pulire i fucili ed i mitragliatori. Tutti smettono di
pulire e ci guardano.
Entriamo in una stanza dalle pareti scalcinate e scrostate e qui
aspettiamo qualche minuto prima di essere ricevuti.
Entriamo alla presenza del Colonnello Yabushebua Aaron.
Lui è un uomo altissimo, educato ed elegante, dai lineamenti
finissimi e dai modi cortesi. È chiaramente un Tutsi finito qui dal
Rwanda. Spesso i Tutsi arrivati dal Rwanda, poi si trovano ad
occupare posizioni di un certo rilievo.
Aaron elegante e a modo, ma placido come lo sa essere solo un
serpente, stona vistosamente con l’ambiente che ci stà attorno e
con i suoi luogotenenti. Il colonnello è vestito di un elegante
abito viola lindo e pulito come fosse nuovo. I suoi sottoposti sono
sbragati e sudati. Il colonnello ha di fronte una bottiglia di acqua
e la sorseggia da un bicchiere immacolato. Gli altri sono mezzi
ubriachi, bevono birra calda e di pessima marca.
Noi ci sediamo in riga come scolaretti con le mani sulle gambe.
Facciamo i saluti del caso, spieghiamo i motivi del nostro viaggio e
chiediamo il permesso di passare di lì tra qualche giorno con le
nostre macchine. Yabushebua ci fa capire che sarebbe molto contento
di avere due Land Rover nuovi per rafforzare la sua guarnigione. Poi,
facendoci intendere che scherzava ci congeda con freddezza.
Usciamo al sole e ci incamminiamo verso la casa del prete. Ragazzi
che sollievo uscire di lì e portarsi fuori Federica e Cecilia tutte
intere. Altro che colonnello Kurtz, questo che abbiamo appena
conosciuto è un demonio della peggior specie, affascinante certo, ma
pericoloso come un serpente a sonagli.
Il prete ci fa passare dal suo salotto e ci offre bibite, pretende di
parlare con noi di politica africana e ci dice che appena potrà se
ne andrà da quella fogna di posto, che forse, grazie al Colonnello
andrà a fare il prete nell’esercito, all’accademia militare del
Congo.
Qualche sorrisino pizzicato a me e Diego mentre le suore sono girate
e qualche strana occhiata a Cecilia e Federica. Noi, immagino più
tonti del normale non cogliamo e cambiamo discorso.
Come d’usanza, la prima volta che un ospite entra in casa tua ha
diritto ad un dono.
Ripartiamo in Toyota con un nuovo ospite. Il prete ci ha regalato una
bella capretta maschio che, ci ha detto, dovremmo sgozzare in serata
e farci una succulenta mangiata. Questa è la tradizione.
Per prima cosa io do un nome alla capra e la battezzo con il nome di
Yabushebua Aaron per intero e pronunciato all’africana. Poi
prendiamo accordi con le suore che la capra diventi la mascotte di
Irambo e che vada a vivere con le altre capre che lì sono allevate.
Magari il suo destino sarà quello di diventare colonnello della
comunità di capre ed un giorno liberare la regione dal giogo dei
militari.
Passiamo ad Irambo ancora qualche giorno, la gente del villaggio ci
sommerge di richieste per la prossima volta che torneremo: divise per
giocare a calcio, reti e palloni da pallavolo, una chitarra e
soprattutto la possibilità di iniziare una corrispondenza con
qualche “villaggio” in Italia. Noi diciamo dei sì smorzati dalla
consapevolezza che non potremo fare nessuna di queste cose.
Signore salvali e liberaci da ogni male.
Il giorno in cui ripartiamo per Bukavu è un giorno triste, un giorno
di lacrime e di forzati sorrisi. Allontanarsi da Irambo, quando è il
momento, è una cosa che ti stringe il cuore.
Irambo ci lascia soli e noi ripartiamo.
La notte precedente ha piovuto incessantemente per ore ed ore così
poto poto adesso è al massimo della forma.
La strada è quasi impraticabile, le quattro ruote motrici slittano
continuamente, il contachilometri segna trenta all’ora ma noi ci
muoviamo a non più di dieci.
Diego guida a fatica esasperato dalla poca tenuta che le balestre
impongono ai lisci pneumatici.
I soliti ingorghi dovuti alle innumerevoli auto in panne,
caratterizzano il passaggio nei villaggi.
Ad un tratto un enorme tir, carico di migliaia di sacchi di manioca,
ingombra la strada di traverso, impantanato ed immobile. Il fango è
troppo viscido, poco profondo ma troppo viscido.
Qui assistiamo ad uno dei miracoli africani, miracoli di perseveranza
e ostinazione.
Una ventina di volontari stanno scaricando le migliaia di sacchi che
si trovano sul camion, li stanno depositando sull’erba umida. Tra
molte ore il camion vuoto sarà forse nuovamente in grado di
muoversi, farà qualche centinaio di metri, qualche chilometro e si
fermerà su un terreno meno viscido. Le migliaia di sacchi verranno
trasportati in spalla e ricaricati sul camion. Il tutto richiederà
decine di ore, forse due giorni ma poi il bestione riprenderà il suo
affannoso cammino e, magari, prima di giungere alla meta, si
impantanerà un’altra volta, forse due, tre, quattro volte, ma alla
fine arriverà.
La sera siamo di nuovo alla missione di Bukawu, seduti alla tavola
rotonda, imbandita di manioca, sombe e pollo come per celebrare una
grande festa, il nostro ritorno.
Grazie sorelle, grazie di cuore per quello che fate per tutti noi,
grazie del cibo e dell’ospitalità, dell’affetto che ci avete
dato e se devo dirlo grazie anche della birra … il vero, lucente,
oro africano.
Le preghiere in francese si mischiano con i canti delle sorelle
africane e la birra si mischia con la mia stanchezza. Dormo già
mezz’ora prima di andare a letto.
MONUC
biscuit!
Bisquit
MONUC!
”Solo
dopo aver ammirato la bellezza delle persone che qui si incontrano,
delle donne, dei bambini, degli uomini; la bellezza del paese e della
luce. Allora e solo allora, con grande rispetto, abbiamo il diritto
di chinarci sulla loro miseria.” Pierre Ceyrac. “Tutto ciò che
non è dato è perso”.
Poto
poto è un bastardo di razza speciale. Oggi non piove, oggi uno
splendido sole illumina la foresta e le acque del lago Kivu.
Il
giorno prima migliaia di piedi hanno lasciato le loro impronte nel
fango. Oggi le impronte si sono solidificate e la strada si è
trasformata in una vera e propria grattugia.
Muoversi
è un incubo, le vibrazioni continue e potenti danneggiano le
macchine. Tutto ciò che non è ancorato con cinghie e corde rimbalza
e cade, ogni cosa che appoggio nella macchina, dopo un minuto non la
trovo più. Dobbiamo fermarci a più riprese a fissare le tende e le
gomme di scorta.
Il
porta-ruota che ho rivettato sul tetto si stacca producendo un rumore
infernale. Le macchine sembrano dei pacchi regalo, tutte
infiocchettate da cinghie e cinghiette.
Siamo
spaventati, Diego è tesissimo, stiamo per affrontare la parte più
incerta e pericolosa di tutto questo assurdo continente.
La
mattina abbiamo salutato Federica e Cecilia che si sono fermate alla
missione di Bukavu con suor Franca e suor Michelina. Troppo rischioso
portarle con noi, sono state proprio le suore le prime a dirci che
sarebbe stato meglio ripartire da soli.
Io
non sono più abituato a viaggiare solo, Cecilia ed io ci stavamo
facendo compagnia ormai da oltre diecimila chilometri. Ci salutiamo
con il magone tutti quanti, ci salutiamo con la promessa di non
morire e di rincontrarci al più presto.
Sembra
esagerato avere così paura ma qui le cose stanno proprio così, il
rischio c’è, è reale e costante.
A
fine mattinata arriviamo nuovamente ad Irambo dove suor Regina ci ha
preparato una torta con la scritta “GRACIE DI TUTTO”. Mangiamo la
torta nel salottino, beviamo caffè a volontà. Non abbiamo voglia di
ripartire ma lo dobbiamo fare comunque.
Le
suore mettono mezza torta in un sacchetto e me la depositano in
macchina, la torta viaggerà con me fino a sera.
Ripartiamo
verso nord, superiamo i territori del Colonnello Yabushebua Aaron,
più volte, ai posti di blocco, il solo fare il suo nome ci aiuta non
poco a risolvere le situazioni di tensione. Non abbiamo un permesso
scritto per transitare ma il nome del Colonnello apre comunque molte
porte, fa alzare molte sbarre e spostare i militari.
Ad
un posto di blocco delle milizie presidenziali mi chiedono se posso
dare un passaggio ad un militare che va in licenza.
Adesso
in macchina ho un uomo con un fucile semiautomatico tra le gambe ed
un coltello lungo trenta centimetri sul cruscotto, l’uniforme verde
ed il basco viola.
Dopo
mezz’ora che lo vedo fissare la torta che le suore ci hanno
lasciato gli dico che se la può mangiare. Non se lo fa dire due
volte.
Il
fucile è ormai coperto di briciole quando incontriamo il primo posto
di blocco di una certa importanza. Siamo in una botte di ferro.
Abbiamo le credenziali giuste. Conosciamo “Il Colonnello” ed
abbiamo a bordo un suo militare.
Passiamo.
Per qualche ora i posti di blocco non sono un problema ma ormai
stiamo uscendo dalla zona di pertinenza di Aaron.
Il
militare che ho di fianco parla pochissimo e male, fatica a usare il
francese, ma questo mi aiuta perché parla piano e usa parole
semplici.
“Allora
come vanno le cose adesso che, finalmente, ci sono state le prime
elezioni democratiche nel paese? Sei contento di Kabila Junior come
presidente?”
“E’
una gran cosa avere di nuovo un presidente, Josef Kabila è un
grand’uomo, discendenze più che nobili. Un grande capo, un grande
figlio ed una grande armata, noi, i Mai Mai, ‘coloro che non
possono essere uccisi dalle pallottole’”.
È
incredibile ma qui, al nord, in queste zone dove i militari sono
reclutati tra i poveracci ed i più ignoranti, ci credono davvero,
credono davvero che le elezioni siano state vinte democraticamente,
credono che Kabila figlio sia un santo ed il padre sia stato un
grande liberatore. Ma soprattutto credono di essere invincibili. Le
brigate Mai Mai sono state da sempre il corpo militare personale di
Kabila padre ed ora del figlio. Hanno le divise verdi ed i berretti
viola, hanno marciato dal Katanga a Kinshasa ed hanno fatto
capitolare Mobutu, hanno fatto vincere le elezioni a Kabila ed hanno
in mano buona parte delle sorti del paese. Molti di loro sono
seriamente convinti che un Mai Mai non possa essere ucciso dalle
pallottole dei nemici.
Stappo
una birra e la offro a quest’uomo invincibile ed intanto mi chiedo
se nel suo fucile ci siano le pallottole o sia solo un deterrente
come spesso accade da queste parti.
La
birra scioglie un po’ la lingua del piccolo Rambo: ”Ma dimmi, al
tuo paese, in Europa, le donne sono come qui da noi?” mi chiede.
Non
capisco bene cosa intenda, non so bene cosa rispondergli. “Si,
direi di si ma non proprio sai, qui credo che siano migliori.”
“Certo”
mi risponde “ certo che sono migliori le nostre donne, quanto
trasporta un’europea? Venti, venticinque? Le nostre donne
trasportano cinquanta chili e più”
Così
vengo a sapere che uno dei fattori determinanti nel scegliere una
moglie è il peso che essa riesce a trasportare. In effetti le vedi
sempre stracariche, con sacchi legati alla fronte, piegate in due
come vecchie e gli occhi rivolti all’insù che guardano la strada
davanti a loro.
In
buona sostanza ho qui davanti a me un uomo molto fortunato, un uomo
che non può morire e che possiede una moglie che trasporta più di
cinquanta chili. Ed io che pensavo di avere di fianco un disperato,
uno che fa il militare da anni quasi senza paga, che tutti i giorni
rischia di beccarsi una pallottola nella testa e che vive in un paese
che non conosce la pace.
Scaricato
il militare, che mi domanda il solito “cadeau” e che se ne va con
quello che resta della torta, riprendiamo il nostro cammino verso
nord.
La
strada sale, sale incessantemente, tra dirupi e ponti fatti da grossi
pali squadrati gettati su vertiginosi dirupi.
La
carreggiata, neanche a dirlo, è un susseguirsi di voragini e crateri
e più aumenta la pendenza peggio vanno le cose.
“MONUCBISCUIT,
MONUCBISCUIT”. I bambino ci rincorrono da tutti i lati lanciando
grida di gioia e chiedendo biscotti. Tutti ci scambiano per due mezzi
della MONUC, addirittura a due posti di blocco ci fanno segno di non
fermarci, levano in fretta le barre spinate in mezzo alla strada e ci
salutano “Bonjour MONUC.”
Bene,
l’ONU da queste parti è quasi intoccabile.
La
strada sale senza sosta e di fronte a noi si aprono scenari sempre
più vasti e meravigliosi. Visioni del lago che sembrano rubate da
stampe cinesi. La costa, le isole nella nebbia, la vegetazione che
scende dai pendii, tocca le acque e vi si immerge. Qui non esiste il
turismo, sotto nessuna forma, qui in realtà non esiste nemmeno un
vero e proprio passaggio di auto. Queste strade sono ormai decenni
che vedono avanzare solo colonne di mezzi militari o camion di grano
e manioca. Qualche sporadico operatore di missioni umanitarie e
religiosi.
Saliamo
fino a tremila metri e poi giù, in un vortice di curve, tornanti e
strettoie che dà la vertigine ed in mezz’ora siamo nuovamente al
livello del lago.
Avanziamo
a fatica, a tratti immersi nel fango, a tratti coperti dalla polvere.
Fango e polvere formano una cortina sui vetri che rende
difficilissimo vedere la strada. Scendono le tenebre africane. I
nostri fari sono incrostati di terra e fanno una luce troppo fievole
per procedere. Scendere dalle macchine per pulirli è troppo
pericoloso, accendere i fari sul tetto troppo pericoloso a causa dei
cecchini.
Essere
scambiati per l’ONU ha anche i suoi lati negativi, uno di questi è
rappresentato proprio dai cecchini che si rifugiano sulle montagne.
Dobbiamo
fare una scelta, o andare a sbattere da qualche parte o accendere i
fari sul tetto.
Accendiamo
la fanaleria e ci mettiamo a guidare molto più velocemente. Le mie
luci illuminano una massa di polvere enorme, alzata dalla macchina di
Diego. Non vedo niente, seguo il centro del polverone. I bimbi,
ancora svegli continuano a gridare “MONUCBISCUIT; MONUCBISCUIT” e
noi, ai posti di blocco ci sporgiamo dai finestrini ed urliamo MONUC,
MONUC. I posti di blocco vengono aperti e noi passiamo oltre. Quando
si accorgono che non siamo dell’ONU ormai è troppo tardi, resta il
tempo di imprecare e basta.
Goma
non arriva mai, guidiamo in queste condizioni per diverse ore, con
l’incubo di sentir echeggiare un colpo di fucile, una scarica di
mitra. I posti di blocco sono sempre più frequenti e meno disposti a
levarsi di mezzo in fretta.
Sono
le undici di sera, ormai, secondo i nostri calcoli dovremmo essere a
Goma da un bel po’. Comincio a pensare che abbiamo sbagliato
strada, comincio ad aver paura.
Come
una magia, come un sogno incontriamo l’amico più amico dei nostri
Defender, il nemico giurato del poto poto. L’asfalto, nero e
morbido, grigio e duro, steso come una coperta di seta ci accoglie e
ci libera dalle vibrazioni.
Un
colpo secco per superare il primo scalino ed eccoci lì, che filiamo
a cento all’ora in mezzo alla foresta.
Un
posto di blocco più guarnito degli altri se ne frega delle nostre
urla dal finestrino.
Siamo
fermi.
Nel
buio più assoluto scendiamo dalle macchine. Attorno a noi sentiamo
la presenza di decine di persone, militari e poliziotti, non li vedo
ma sento i passi degli scarponi e lo sferragliare dell’artiglieria.
Si
accende una torcia elettrica. È un poliziotto in borghese che ci
controlla i documenti. La fioca luce della torcia illumina decine di
sagome che ci si fanno attorno, tutti uomini armati fino ai denti.
“Goma?
È ancora lontana Goma? Ci aspettano al vescovado, siamo già in
ritardo, saranno in pensiero per noi.”
Non
è vero, a Goma non ci aspetta nessuno, ma abbiamo paura.
Ci
chiedono cinquanta dollari per superare il posto di blocco ed
entrare, Goma è ormai a pochi chilometri.
Diego
mi dice di salire ed accendere il motore, sale in macchina anche lui,
nel buio e nella confusione mette una banconota nel taschino del
poliziotto e subito schizziamo via.
Cinque
minuti dopo, via CB chiedo a Diego perché siamo ripartiti così in
fretta.
“A
quello stronzo gli ho infilato in tasca dieci dollari, non
cinquanta!”
Arriviamo
a Goma in piena notte.
Goma
è una città piuttosto incasinata. I soliti cavi della luce e del
telefono corrono in tutte le direzioni disegnando intrichi scomposti
in ogni dove. Asfalti rotti e mancanza assoluta di illuminazione
pubblica. La città è illuminata principalmente dai fuochi delle
case e da quelli dei venditori di brochettes. Così l’apparenza è
quella di un enorme villaggio, con le ombre gettate dalle fiamme che
danzano sui muri.
Il
caldo è insopportabile. Ci mettiamo più di un’ora per trovare la
procura del vescovado, un posto dove pare, troveremo da dormire.
La
procura è un posto degno di un film dell’orrore. Un guardiano
mezzo zoppo ci viene ad aprire, a fatica spalanca gli enormi cancelli
di lamiera.
Una
strada sterrata si inoltra in un dedalo di cortili e costruzioni
enormi in cemento. Il buio ci aiuta a non capire né la vere
dimensioni né la disposizione di questo gigantesco centro.
Un’anziana
donna di colore ci fa entrare alla reception, composta da una
scrivania ed una branda e, a lume di candela, prende i nostri dati.
Per
andare alle camere ci infiliamo in un lungo corridoio, stretto e
pieno di piccole porte, quindi saliamo una scala angusta fatta di
ferro, quindi un ballatoio ci conduce ad un’altra scala, enorme ed
in cemento armato, una svolta e siamo in un immenso cortile interno.
Sui quattro lati due piani di ballatoi ospitano decine e decine di
altre porte. Ci infiliamo in un nuovo corridoio, una scaletta e siamo
su un altro ballatoio che, riesco a capire, si affaccia sull’ingresso
principale.
Le
camere sono spoglie ed infestate dagli scarafaggi. Il bagno è una
stanzetta comune che ospita un water e una vasca ingiallita piena
d’acqua anch’essa di colore giallastro.
Per
questa sera non ci laveremo, meglio così.
Mangiamo
del pane a lume di candela e studiamo le carte geografiche per
stabilire il percorso da seguire l’indomani.
La
procura è un edificio che, visto così, vuoto e in piena notte,
mette una certa ansia. La mia porta non si chiude a chiave
dall’interno quindi prima di coricarmi spingo una specie di armadio
a fare da barricata.
Mi
stendo sulle lenzuola senza spogliarmi e tengo la mia MagLite a
portata di mano.
Sento
zampettare, accendo la torcia: uno scarafaggio sulla parete, due sul
soffitto; ne scovo tre che corrono sul pavimento e che si
immobilizzano quando li colpisco con il fascio di luce.
Spengo
la pila, la riaccendo d’improvviso. Le bestioline si immobilizzano.
Mi fa un po’ schifo dormire qui, ma fa niente, ci provo. Ogni tanto
riaccendo la torcia. Adesso gli scarafaggi, in due, si arrampicano
lungo la zanzariera che protegge il letto, li allontano con una
manata e loro cadono a terra con uno schiocco secco.
Provo
a dormire. Una bestia mi striscia vicino al collo. Salto fuori dal
letto tutto impigliato nella zanzariera, accendo la pila e vedo che
c’è uno scarafaggio, un po’ più piccolo degli altri, che si
infila veloce sotto al mio cuscino.
Non
ne posso più. Raccolgo le mie cose, vado a bussare alla porta di
Diego e gli dico che io vado a dormire in tenda. Diego mi segue.
Passiamo
la notte nella tenda umida e piena di polvere e terra.
La
mattina ci alziamo tutti indolenziti, ci lamentiamo della presenza
degli scarafaggi e veniamo così omaggiati con una colazione a base
di uova e caffè.
Uscire
da Goma in direzione Rutshuru non è così semplice come può
sembrare dalla carta geografica. La città, di mattina è tumultuosa
e densamente trafficata. Ci si muove a stento tra le macchine ed i
carretti. Sbagliamo due volte direzione ed in fine prendiamo in
macchina un passante che, ci dice, se gli paghiamo il bus per
tornare, ci accompagnerà volentieri fino a Rutshuru.
In
effetti la strada, per diversi chilometri è piena di bivi e
diramazioni.
Superiamo
vari tratti di strada distrutti dalle colate di lava delle continue
eruzioni che devastano regolarmente la città.
La
lava scende e distrugge, ma gli abitanti, un attimo dopo sono lì che
già ricostruiscono le loro case-baracca proprio sopra alla lava
seccata.
Guidiamo
tra scenari meravigliosi. Stiamo costeggiando la parte più
meridionale del parco del Virunga, uno dei parchi più belli del
mondo, sicuramente il meno accessibile. In questi anni ormai il parco
è nelle mani dei ribelli, che lo infestano e ne impediscono
l’accesso.
Il
mio passeggero mi racconta un sacco di cose, è una persona che ha
studiato, conosce la storia e la geografia.
Qui
la guerra si è scatenata con maggior forza che in altri posti.
“Quello laggiù” mi dice indicando un villaggio lontano sulle
alture “ è la cittadina di Kanungu e sai perché è famosa? È
famosa per l’impressionante percentuale di vedove che ci sono.”
“Ecco”
mi dice toccandomi una gamba,” guarda verso la foresta, vedi? È
pieno di carri armati ed autoblindi.”
Io
non vedo niente, la vegetazione alta ed impenetrabile nasconde tutto.
“Là dentro è pieno di carri e blindati e cannoni e scheletri,
residui della guerra che la giungla ormai ha inghiottito.”
Piantagioni
di caffè si alternano a tratti di foresta primordiale. Sulla nostra
sinistra svettano i coni dei vulcani e le cime dei monti.
In
tarda mattinata siamo a Rutshuru.
Il
nostro accompagnatore ci guida alla stazione di polizia, l’ultima,
da qui in poi il territorio è in mano alle bande armate ribelli e
polizia ed esercito non si inoltrano.
Settanta
chilometri ci separano dalla frontiera di Ishasha. Di là l’Uganda,
con le strade asfaltate ed un governo stabile.
“Con
un po’ di fortuna ce la farete, non fermatevi mai, per nessun
motivo, nessuno capito? Tirate sempre dritti, qualche ora e sarete
alla frontiera.” Salutiamo il nostro amico che prima di lasciarci
ci ripete dieci volte la stessa cosa:”Non fermatevi mai, anche se
ci sono posti di blocco di polizia o esercito voi tirate dritto, sono
finti, sono banditi. Non fermatevi mai e buona fortuna.”
Settanta
chilometri che, a causa delle condizioni della strada, impieghiamo
tre ore a percorrere.
La
tensione è altissima. Superiamo diversi campi profughi, sterminati
agglomerati di tende e ripari fatti di Nylon, più volte i militari
ci fanno cenno di fermarci e noi tiriamo dritto. Qualcuno ci urla
dietro insulti. Passiamo parecchi villaggi dove la gente ci guarda
come se fossimo marziani.
Sui
cigli della strada è pieno di persone armate, due ragazzi in braghe
militari, ci puntano i fucili addosso, per scherzo…, si per
scherzo…ma a me fanno paura.
Arriviamo
a Ishasha che siamo sudati marci ed abbiamo il torcicollo tanta è
stata la tensione. Siamo vivi, siamo salvi. Scendiamo dalle macchine
ed andiamo al posto di frontiera.
Qui
ci danno un’accoglienza straordinaria. Per loro siamo il segno che
la guerra è davvero finita, che tra un po’ arriveranno i turisti.
Ci chiedono se il Congo ci è piaciuto e se lo consiglieremo agli
amici per le loro prossime vacanze.
Noi
sorridiamo e diciamo una verità ed una bugia. La verità: il Congo è
il paese più bello del mondo, almeno dal punto di vista della natura
e dei paesaggi. La bugia: consiglieremo ai nostri amici di venirci a
passare le vacanze.
Un
solo problema, dovremmo passare dal capo della stazione perché i
documenti auto non sono regolari.
Entriamo
in una baracca-ufficio, un grosso omone nero e pelato ci fa sedere e
ci spiega che non abbiamo nessun timbro che attesti l’entrata delle
nostre macchine in Congo, che non abbiamo l’assicurazione, che i
nostri visti sono scaduti e che non abbiamo il permesso dell’esercito
per andare in giro con le macchine fotografiche.
Siamo
messi bene.
Pensiamo
subito che il capo ufficio voglia spillarci dei soldi, ma presto
scopriamo che non è così, soltanto, quest’uomo, ci tiene che
tutto sia in regola. È dispiaciuto ma questo è un grande problema.
Diego
ha un’illuminazione: “Guardi signore che è tutto a posto, noi
siamo entrati in Congo attraverso la frontiera di Cyangugu e “le
grand chef de poste de Bukavu” ci ha detto che non servivano i
timbri e che tutto era a posto”.
L’uomo
di fronte a noi tira un respiro di sollievo, ora può scaricarsi la
coscienza, se a parlare è stato proprio “le grand chef de Bukavu”
allora è tutto a posto.
Passiamo
la frontiera ed io penso all’assurdità di quello che è successo
in quell’ufficio.
Siamo
usciti dal Congo, paese dalle mille meraviglie, paese della gioia e
del dolore. Spero di poter sentire Cecilia al più presto, lei e
Federica sono ancora là e finchè non saranno su un aereo non starò
per niente tranquillo.
Adesso
siamo in Uganda, gli uffici di frontiera sono ben curati e fatti in
mattoni, non ci sono poliziotti o militari ma solo due impiegati
cordiali e gentili anche se un po’ alticci.
Mentre
ci timbrano i passaporti, davanti alla porta dell’ufficio passa un
gigantesco uccello, alto più di un metro.
Esco
subito fuori a guardare, è proprio vero, c’è un enorme volatile
che passeggia serenamente ed entra ed esce tranquillamente dagli
uffici.
Chiedo
cosa sia quella fantastica creatura.
“E’
un Marabu, Welcome to Uganda Sir” ci dice l’impiegato sorridendo
e porgendoci i nostri passaporti firmati.
E’
pazzesco.
Una
frontiera, inventata dagli uomini, una striscia di filo spinato ed
una sbarra, di qua si parla inglese e c’è la pace, l’asfalto, un
governo stabile. Di là, cinquanta metri più in là, oltre al filo
spinato non esiste legge, c’è la guerra, la morte. I ribelli
dominano la regione ma non sconfinano, i poveri muoiono di fame ma
non sconfinano. Ed intanto il filospinato sta lì ad arrugginire e
non si accorge di niente.
In
Congo la uerra non ha mai fine.
Buganda
Kingdom
Il
Buganda è un regno composto dai 52 clan dell’etnia africana
Baganda; è il più grande dei regni tradizionali rimasti nell’Uganda
moderno. Il sovrano di Buganda è denominato Kabaka.
Il
regno è delimitato a sud dal lago Vittoria, ad est dal fiume Nilo
Vittoria, a nord dal lago Kioga. Sia l’antica capitale del paese
(Entebbe) sia quella attuale (Kampala) si trovano nel regno di
Buganda.
Noi
entriamo in Uganda dalla “frontiera impossibile”, quella di
Ishasha.
Attraversiamo
da prima una sconfinata zona di savane, percorriamo strade sterrate
che tagliano attraverso territori selvaggi dove i piccoli villaggi
degli ugandesi convivono con gli animali della savana.
Tutti
coloro che incontriamo non possono credere che siamo entrati in
Uganda arrivando dal Congo, troppo inusuale, troppo pericoloso e
difficile.
Noi
puntiamo a sud, verso il lago Vittoria, di nuovo verso il Rwanda,
verso Kampala.
Attraversiamo
una zona di montagne coperta da foresta e piantagioni abbondanti ed
ordinate.
La
strada è sterrata ma ben tenuta, nessun cartello indica le direzioni
da prendere ma la gente a cui chiediamo informazioni è più che
disponibile.
Tornanti
da vertigine si inerpicano sui pendii scoscesi, la strada disegna un
percorso che sembra disegnato da un pazzo. Decine di volte ci
ritroviamo a percorrere le creste delle montagne ed altrettante volte
discendiamo nelle gole coperte di vegetazione. È un continuo
alternarsi di foresta equatoriale e di pinete di conifere. Ogni ora
la vegetazione cambia radicalmente, si trasforma, per poi ritornare
se stessa.
Viaggiamo
sull’orlo di abissi profondi centinaia di metri e mezz’ora dopo
stiamo correndo proprio in fondo a quegli abissi. Il percorso è
quello di un ottovolante. Passiamo su una strada che costeggia un
profondo burrone, trenta metri sotto di noi la stessa strada ci
aspetta e, di là dal baratro a poche decine di metri possiamo vedere
quella appena percorsa.
Sembra
di viaggiare in un labirinto dove gli scenari si ripresentano decine
di volte, dove le curve si assomigliano ed i villaggi sono gemelli.
Ormai
a notte inoltrata cominciamo a filare lisci su un asfalto piatto che
corre nella pianura.
Dormiamo
a Cabale e la mattina seguente ripartiamo in direzione
Mbarara-Masaka-Kampala. Viaggiamo attraverso spesse cortine di nebbia
che annunciano l’avvicinarsi del lago Vittoria. Alle prime luci
dell’alba superiamo colonne lunghissime di uomini in bicicletta che
trasportano enormi quantità di banane verdi, andranno ai mercati a
venderle e scambiarle con altre banane, forse più mature forse
diverse.
Migliaia
di donne e uomini carichi come muli camminano verso i mercati e
quando ci fermiamo per comprare qualche brochette li rincontriamo,
stanchi e sudati, seduti di fronte alle loro poche mercanzie ben
disposte ed ordinate.
Donne
che oltre alle banane trasportano piccoli esserini scuri scuri con
gli occhi ancora chiusi dal sonno.
Qua
e là orde di bimbi in età scolastica si aggirano vestiti delle loro
impeccabili uniformi multicolori.
I
gruppi di bimbi ci rincorrono e ci salutano, gli uomini ci offrono
banane e brochettes e le donne ci guardano con occhi stanchi e
sognanti, poi tornano a contrattare il loro casco di banane, il loro
sacco di patate. La loro vita.
Spesso,
quando sono in Italia la gente mi chiede perché vengo a fare questi
lunghi viaggi in questi posti così lontani, pericolosi, poveri,
forse strani.
I
meno arguti mi domandano perché non me ne vado qualche settimana
alle Maldive o a Sharm el Sheikh, magari a Cancun o in Thailandia. I
più attenti mi fanno sapere che per vedere e conoscere posti e modi
di vita nuovi basta andare in est Europa o magari negli Stati Uniti.
Qualcuno, qualcuno che prima di parlare ha pensato, invece mi chiede
se provo godimento nel vedere la povertà, se mi sento più ricco ed
arrivato confrontandomi con i disperati e gli ultimi.
Poi
ci sono quelli che mi dicono che vorrebbero fare un viaggio come
quelli che faccio io, che ammirano il mio coraggio e che prima o poi,
anche loro...
Io
non so mai cosa rispondere, a nessuno.
Non
ho coraggio di nessun tipo, quello che ti fa venire qui non è una
sfida alle nostre paure ma un impulso, una spinta che viene da dentro
e della quale non ti puoi liberare mai.
Non
ho paura di attraversare il Congo o l’Angola, di affrontare un
posto di blocco di invasati islamici che odiano tutto ciò che
rappresento. Non ho paura di guidare tre mesi senza sapere se mai
arriverò da qualche parte. Non ho paura di chiedere da bere ad un
poveraccio o di dar da mangiare ad un militare affamato. Non ho paura
di vedere i posti più belli del mondo e rischiare di essere
catturato e picchiato, imprigionato e terrorizzato.
Ho
paura di andare a Sharm el Sheik, a Cancun, in un villaggio turistico
in Tunisia o a fare un giro in Marocco “all inclusive”. Ho paura
di questi posti che non esistono, tutti uguali e miseri, poveri di
qualsiasi cosa, dove i disperati vengono fatti entrare con il
contagocce così il turista che ne vede uno gli dà una monetina e
quando torna a casa può dire di avere un amico che si chiama Pedro,
Said, Pablo o Alì, magari Mohammed. Ho paura di questi luoghi dai
quali i turisti rientrano abbronzati con in testa foulard di stoffa o
sombreri grossi come case. Ho paura di quelle persone che dopo dieci
giorni a Cancoon mi dicono che sono state in Messico e che il
prossimo anno andranno in Egitto al villaggio Valtur. Ho paura di
queste persone perché portano il male in terre lontane senza nemmeno
metterci i piedi, i posti in cui vanno sono tutti uguali e mostruosi
ed arricchiscono solo ed esclusivamente coloro che li hanno
inventati.
I
mass-media ci hanno convinti che andare in qualche posto senza che
tutto sia organizzato da un tour operator sia impossibile. Balle.
Balle grosse come una casa. Finzioni e bugie a cui tutti credono.
Basta un libro, una guida magari Lonely Planet, e non serve altro.
Perché assieme all’aereo mi devi vendere una camera d’albergo,
un panino, un cocktail ed un mucchio di cazzate? Hai quindici giorni
e pochi soldi? Predi la Lonely Planet del Marocco, prendi l’aereo e
poi visita la nazione, a piedi, in autobus o a dorso di mulo. Ecco
fatto. Hai portato soldi in un paese più povero del tuo, hai visto
veramente qualcosa di diverso dal tuo giardino, hai speso poco e
magari, se hai avuto dei problemi e qualcuno ti ha aiutato, magari un
certo Hamed, allora puoi tornare a casa e dire che hai un amico
laggiù. Solo una cosa, se andate in un villaggio turistico a Cancun,
non dite che siete stati in Messico, se andate a Charm el Sheik, non
dite che siete stati in Egitto. Il Messico è lontano diecimila
chilometri da Cancun e l’Egitto è addirittura in un continente
diverso da Charm. Se vado a Malindi con un bel pacchetto tutto
incluso non devo dire che sono stato in Kenia, non lo devo dire per
rispetto al Kenia ed ai suoi abitanti che ogni giorno attraversano il
deserto su camion scassati, che ogni giorno attraversano le townships
di Nairobi, per rispetto di coloro che muoiono cercando di costruire
una strada che raggiunga il lago Turkana.
Quello
che sempre mi capita, invece, è di incontrare viaggiatori in giro
per i continenti, gente che viaggia per istinto o per paura di stare
fermi e nessuno di loro, mai una sola volta mi ha chiesto perché
stavo viaggiando in un posto come quello.
Entriamo
a Kampala da ovest. Kampala è grande e caotica, disordinata e bella,
molto bella.
Fango
e polvere sono le strade dei quartieri più poveri, asfalto e verdi
aiuole gli arredi del centro. Ovunque grandi alberi sorgono maestosi,
tra le baracche o accanto ai grattacieli. I Marabu popolano i
giardini e le chiome degli alberi, i cornicioni e i marciapiedi. Fa
uno strano effetto vedere decine di uccelli alti un metro e mezzo che
passeggiano per la città.
Ci
fermiamo a dormire al Backpackers, uno di quei posti dove si
incontrano viaggiatori zaino in spalla (Backpackers appunto), persone
che hanno sempre cose da raccontare. Qui si incontra anche tanta
gente che viaggia per lavoro, per lo più gente che non vuole
chiudersi in un albergo del centro ma vuole passare qualche ora in
compagnia.
Ci
fermiamo qualche giorno qui, ci accampiamo nel prato che ospita le
tende. Dobbiamo effettuare alcune riparazioni alle macchine. Le
strade del Congo hanno compiuto la loro missione distruttiva. Abbiamo
le tende mezze scassate, le bagagliere hanno bisogno di alcuni punti
di saldatura e dobbiamo riassestare tutto ciò che stà all’interno.
Dobbiamo lavare tutto: vestiti, attrezzi ed interni delle macchine,
dobbiamo levare chili di terra dagli abitacoli.
Dobbiamo
riposare, dobbiamo far mente locale per affrontare il Kenia e poi
l’Etiopia ed il Sudan. Dobbiamo sentire il console italiano in
Sudan, dobbiamo cambiare i soldi e fare tre o quattro docce. Dobbiamo
mangiare carne e bere birra, insomma, dobbiamo fare un sacco di cose.
Dopo
diverse ore dal nostro arrivo, abbiamo messo su un vero accampamento
da nomadi: corde da stendere tirate in tutte le direzioni, vestiti
stesi ad asciugare, attrezzi sparsi ovunque, carte geografiche e
guide ammonticchiate vicino al barbecue, tavolo e sedie pieghevoli
ingombri di attrezzature fotografiche e scarpe impolverate. Un
paziente lavoro di pulizia con pennelli e stracci umidi ci impegnerà
almeno due giorni.
Qui
si stà bene, molto bene, ma Diego ed io siamo insofferenti, vogliamo
ripartire il prima possibile, ancora troppa strada ci aspetta per
poterci fermare adesso.
La
sera beviamo birre fino a stordirci seduti al bancone del Backpacker
ascoltando le storie che gli altri hanno da raccontare, poi andiamo
alle tende e ci addormentiamo al suono dei tamburi che battono il
loro incessante ritmo nei recessi di Kampala.
Flamingo
road.
Dobbiamo coprire un migliaio di chilometri in una giornata.
Guardando la carta della Michelin sembra fattibile, se non perdiamo
troppo tempo in frontiera ci possiamo riuscire.
La Michelin riporta tutta la strada da Kampala a Nairobi come
percorso principale è asfaltato.
Fidarsi al cento per cento di guide e carte geografiche è spesso
sbagliato. In Africa, farlo, è addirittura roba da ingenui.
La strada è asfaltata solo fino a Jinja, ottanta chilometri in
tutto.
Da qui in poi i lavori di costruzione di una nuova strada languono da
anni, così ci si muove su percorsi alternativi fatti di ghiaia,
sassi, terra battuta e fango. Di quando in quando si utilizza il
vecchio tracciato coperto dalle croste dell’antico asfalto. In
questi tratti non esiste un senso di marcia, si passa dove capita, si
supera quando si può e bisogna sempre stare attenti a non prendersi
un tir in faccia o un fuoristrada nel sedere.
Attraversiamo il Nilo Vittoria, superiamo Jinja dove io carico una
grassa signora che chiede un passaggio fino a Tororo.
La signora è pulita, fasciata in un tailleur di lana e porta sulla
testa un foulard sul quale è dipinto il colosseo di Roma. Si chiama
Denise, tiene in borsa dieci biscotti fasciati in un pezzo di carta
di giornale e porta un paio di occhiali spessi come fondi di
bottiglia.
Passo mezza giornata a chiacchierare con Denise. Suo marito ormai è
morto, lavorava per conto dell’esercito e fu proprio lui a portarle
il foulard da un viaggio a Roma.
“Mio marito una volta ha visto il Papa sai?” mi dice guardandomi
in faccia, “ e tu lo vedi spesso il Papa?” mi chiede.
“No, non l’ho mai visto di persona” le rispondo, Denise ci
rimane malissimo: “ma non sei mai andato a San Pietro a vedere la
messa?”
“No, mai andato.”
“Molto male caro Luca, molto male. Se il Papa vivesse qui in Uganda
io andrei a sentire la sua messa tutte le volte che posso.”
Non so che dirle allora le racconto che siamo in Africa per aiutare
una missione di suore cattoliche in Congo, che raccogliamo fondi, che
portiamo giù aiuti ecc. ecc.
Denise pare rinfrancata da questo mio contatto con la religione, si
sistema meglio sul sedile e guarda avanti soddisfatta.
Qui in Africa la religione è una cosa molto molto importante. Spesso
quando incontri qualcuno la seconda domanda che ti viene fatta è di
che religione sei, spesso sapere di che religione è una persona è
più importante di sapere di che nazionalità è. E perché no poi?
Quando scarico Denise alla periferia di Tororo lei prende un consunto
borsellino e mi chiede quanto deve pagarmi per il passaggio.
“Niente Denise, è stato un piacere e buona fortuna:”
Denise non ci può credere, piange, poi mi abbraccia quasi fino a
soffocarmi, mi benedice in mille modi e poi mi bacia ancora.
“Lo sai che Dio ti renderà grazie per il tuo gesto?” mi dice, “
è un gesto importante, io con i soldi che tu oggi non hai voluto
potrò tornare a Jinja una volta ancora prima della fine dell’anno
e vedere ancora una volta mio figlio, grazie, che Dio ti benedica,
grazie, grazie mille…”
Se la lasciassi continuare andrebbe avanti mezz’ora, così la
saluto un po’ bruscamente e lei si allontana lungo un sentiero di
terra rossa ondeggiando il suo enorme sederone africano.
Ripartiamo ed in pochi chilometri siamo alla frontiera con il Kenia.
Ormai è quasi sera, di arrivare a Nairobi neanche a parlarne.
Espletiamo le formalità doganali, lente e macchinose ma
economicissime. Usciamo dall’Uganda ed entriamo in Kenia spendendo
meno di trenta dollari a testa.
La sera tardi ci fermiamo a Eldoret dove un portinaio di albergo ci
fa dormire per pochi spiccioli nel cortile invaso dai topi. Eldoret è
una città grande e viva, piena di gente e locali ma noi siamo troppo
stanchi e domani ci aspetta ancora tanta strada.
Se da Eldoret vai a Nairobi attraversi la Rift Valley.
Qui il grande Rift prende le meravigliose forme del lago Nakuru.
La strada è tutta fossi e buche, macchine livellatrici e ruspe che
alzano polveroni infernali.
I chilometri non passano mai, si guida male, siamo coperti di polvere
e le macchine continuano a soffrire a causa degli scrolloni.
Quando però ci appare la visione del lago Nakuru tutto passa e, come
al solito, capisci il perché di tutti questi chilometri.
Decine di migliaia di fenicotteri rosa vivono nel lago. Le acque, in
molti punti si tingono del rosa riflesso dagli uccelli, dando vita ad
uno spettacolo che lascia senza fiato. Costeggiamo il lago per
diversi chilometri.
Giriamo decisamente a sud e ci buttiamo a capofitto sul trafficato ed
accidentato percorso che porta a Nairobi.
Arriviamo alla periferia di Nairobi che ormai si sta facendo buio.
Attraversiamo baraccopoli, slam e township, nomi diversi per indicare
i sobborghi più degradati.
Troviamo una superstrada che corre veloce verso il centro cittadino.
Due corsie per senso di marcia, asfalto buono e guard-rail a bordo
strada, sembra tutto ok, ci lanciamo a centoventi all’ora. Ma
bisogna sempre ricordare che qui non siamo in Europa ma in Africa.
In cinque minuti le medie scendono sotto ai cinquanta chilometri
orari. Persone e carretti attraversano la strada, cani e galline
passeggiano a un centimetro dalle corsie e greggi di caprette, di
quando in quando, sgambettano veloci da un lato all’altro della
strada.
Quando arriviamo in centro vediamo la Nairobi città, fatta di grandi
edifici in stile coloniale e grattacieli, giardini e sottopassaggi.
Una città vera, quasi europea, dal gusto, ovviamente, molto inglese.
Con l’aiuto di una mappa troviamo l’”Upper Hill camp site”,
situato su una collina proprio in centro alla città.
Un posto tanto bello quanto strano. Una piccola abitazione colonica
in stile assolutamente inglese, circondata da un giardino e da un
piazzale in terra battuta. Fin qui tutto normale, solo che tutto
attorno sono sorti e stanno sorgendo grattacieli alti venti piani.
Montiamo le tende, facciamo una doccia e ci sediamo di fronte a due
birre veramente ghiacciate.
Passiamo una notte serena protetti dalle fronde dei grandi alberi che
costellano l’Upper Hill.
Il giorno successivo lo passiamo all’ambasciata sudanese. Code,
sale d’attesa, pausa pranzo e colazione e merenda e poi tre fogli
scritti fitti fitti e da compilare.
Mille domande esigono mille risposte, altrimenti il visto non ce lo
danno.
La terza domanda è di che religione siamo.
Io non scrivo ateo.
Tutto a posto, tutto compilato, solo i fogli sono un po’ umidi di
sudore e stropicciati.
La segretaria prende i fogli, le fototessere e le fotocopie dei
passaporti e controlla che tutto sia in regola.
Legge, legge e poi alza gli occhi “Ma qui c’è scritto che vi
spostate in macchina!”
“Si esattamente” risponde Diego, “abbiamo due Land Rover,
abbiamo allegato alla documentazione anche le copie dei due
libretti…”
“Allora niente da fare” lo interrompe quella restituendoci tutta
la documentazione, “Se proseguite da qui via terra il visto lo
dovete fare all’ambasciata ad Addis Abeba. Buona giornata e buon
viaggio.”
Finito!
Non una parola di più, ci hanno fatto stare qui tutto il giorno a
fare che cosa? Niente, niente come sempre viene fatto in metà uffici
del mondo, niente di niente.
Cecilia e Federica intanto sono passate da Bukavu a NkaNka in Rwanda
e dopo dieci giorni alla missione di suor Angela sono risalite fino a
Kigali, lì hanno cercato un volo per Nairobi dove possono trovare un
volo per l’Italia.
Il caso le fa arrivare nei giorni in cui noi siamo in città.
Per la verità non è proprio il caso.
Diego ed io riusciamo a sentire le ragazze per telefono e visto che
arriverebbero proprio l’indomani decidiamo di fermarci a Nairobi
qualche giorno in più.
Buona scelta, passiamo quattro giorni in città piuttosto felici e
spensierati, compresa una “lussuosa” cena al ristorante “Le
Carnivore” dove la carne di coccodrillo viene servita con quella di
tacchino e la zebra si accompagna all’insalata di cetrioli.
L’inferno dei vegetariani è ovviamente un luogo di culto per i
“carnivori” di tutto il Kenia.
Un lunedì mattina Josef, quello che è ormai diventato la nostra
guida di fiducia attraverso la ragnatela di vie di Nairobi, ci
accompagna tutti al mercato da dove parte un pullman per Mombasa.
Le ragazze andranno sulla costa per un po’ di giorni in attesa
della partenza del volo low coast per l’Italia.
Baci e abbracci si sprecano, chissà quando ci rivedremo. Cecilia è
di nuovo commossa e preoccupata, preoccupata per tutta la strada che
Diego ed io dobbiamo ancora fare, preoccupata a causa delle guerre e
dei banditi, insomma, preoccupata per la nostra incolumità.
Un ultimo saluto strappalacrime ed il bus, scassato e zoppicante
parte verso sud. Noi ci voltiamo pronti ad affrontare il nord.
Sciacalli,
iene ed avvoltoi.
Sciacallo:
lo sciacallo è uno dei carnivori che popolano in maggior numero la
savana aperta, può essere molto attivo sia di giorno che di notte.
Le coppie sono stabili e difendono piccoli territori. Gli sciacalli
si cibano molto spesso degli avanzi lasciati da altri animali ma
possono essere anch’essi eccellenti predatori.
Lo sciacallo può essere alto dai 38 ai 50 cm., lungo dai 95 ai 120
cm. di cui 25-40 cm. di coda e pesare fino a 15 chili.
Iena macchiata:
solitamente considerata un necrofago, la iena macchiata è in realtà
un predatore altamente efficiente con una socialità affascinante. Le
femmine sono dominanti e più grandi dei maschi, hanno
caratteristiche fisiche maschili, compreso un clitoride erettile che
rende praticamente impossibile distinguere i due sessi, guidano
branchi che possono essere formati da decine di individui. La iena
macchiata ha una struttura massiccia ed un aspetto distintamente
canino, nonostante sia imparentata più con i gatti che con i cani.
Può correre alla velocità di 60 chilometri orari ed un branco può
facilmente avere ragione di gnu e zebre. Il loro richiamo, “uuu-uup”,
è un suono caratteristico delle notti africane.
La iena macchiata può essere alta fino ad 85 cm., lunga 180 cm. e
pesare fino ad 80 chilogrammi.
Avvoltoio:
il grifone dorsobianco, detto anche avvoltoio dorsobianco, deve il
suo nome al candido collare di piume alla base del collo in contrasto
con il resto del piumaggio superiore che è grigio scuro. Il capo ed
il resto del corpo sono nudi, coperti solo da una fine peluria bianca
che permette all’avvoltoio di introdurre totalmente la testa
all’interno delle carcasse senza sporcare la livrea. È lungo circa
un metro e può arrivare a pesare 7 chilogrammi. Il becco è possente
e nero, le zampe sono dotate di grandi artigli e può vivere fino a
diciannove anni.
Il grosso corpo della iena è riverso al suolo, la pancia squarciata,
la gola aperta e la testa tirata indietro come a non voler vedere
quello che le succede. Gli occhi le sono stati strappati da ore, la
polvere ha già coperto in parte la pozza di sangue che la circonda.
Sette otto avvoltoi banchettano freneticamente, sbattendo le ali e
saltellando attorno al cadavere. Il rumore di un motore li disturba,
li infastidisce ed infine, fattosi più vicino, li allontana dal loro
pasto. Quasi all’unisono tutti gli avvoltoi prendono il volo
sollevando polvere attorno alla iena morta.
Venti secondi dopo un Toyota verde passa rombando a pochi metri dal
cadavere. Alla guida un vecchio nero quasi centenario che ha per
passeggeri due occidentali, sporchi e visibilmente stanchi.
Il fuoristrada transita lentamente e gli occhi dei due bianchi si
fissano sullo spettacolo di sangue e morte, guardano allibiti senza
capire che quello che vedono è vita, vita che si rigenera. Qui la
morte di un animale è sempre utile alla vita di qualcun altro,
spesso indispensabile. Qui la morte non è mai gratuita.
Il Toyota passa, il nero accelera, i bianchi dimenticano e sudano e
gli avvoltoi scendono di nuovo accanto al loro piatto di carne.
Dietro un cespuglio uno sciacallo osserva nervoso la scena, pare che
tenga il conto di quanti avvoltoi ci sono attorno alla carcassa;
sempre troppi per andare a dare un morso.
Il rombo del Toyota si perde in lontananza e tutto ciò che resta è
un leggero soffio di vento che sposta sottili lame di polvere.
Partiamo da Nairobi nella tarda mattinata.
Ci aspetta una lunga strada.
Nairobi-Moyale via Nanyuki-Isiolo-Marsabit.
La strada è buona, scassata di quando in quando ma tutta asfaltata.
Percorriamo zone densamente popolate, dove villaggi si susseguono a
campi coltivati.
Passiamo sotto alla vetta innevata del monte Kenia. Fa strano vedere
della neve, se pur lontana, qui dove si muore dal caldo.
Attraversiamo una zona collinare coperta di praterie dove milioni di
farfalle bianche riempiono l’aria ed assomigliano ad una strana
nevicata estiva.
Dal finestrino, la visione di una donna in attesa vicino ad una
cunetta. Addosso un abito rosso come il fuoco, attorno migliaia di
farfalle la circondano scambiandola per un fiore coloratissimo. La
prateria verde ed il cielo blù si incontrano all’orizzonte
formando una linea perfettamente retta che divide in due il mio
sogno.
Ma anche questo passa veloce.
Un’ultima collina e davanti a noi appare il deserto di Marsabit.
La strada comincia a scendere e in lontananza si scorgono le dune
gialle ed i coni dei vulcani immersi nel caldo accecante della
desolazione.
Passiamo una notte ad Isiolo, cittadina che fa da confine tra una
terra fertile ed abitata ed un’enorme desolazione fatta di rocce
vulcaniche, polvere gialla e strade piatte.
Pochi minuti dopo il nostro arrivo veniamo contattati dalla polizia
del luogo. Un ragazzo di nome Alì ci conduce al comando, qui una
donna grossa come la cabina di un camion e sudata come un cavallo ci
da il benvenuto a Isiolo.
“Buongiorno stranieri, benvenuti. Dove siete diretti?” Ci chiede
asciugandosi la fronte ed il collo con un asciugamano vecchio di un
secolo.
“In Europa” le rispondo io.
“Come?” chiede lei senza capire.
“A Moyale e poi Addis Abeba” spiega Diego, “A nord, In Etiopia,
verso il Sudan”.
“Bene, bene, lo sapete che da qui non si può proseguire senza
essere scortati dai militari?”
No, ovviamente non lo sappiamo.
“I banditi che scendono dall’Etiopia, i pastori ribelli ed altre
situazioni hanno reso questa zona poco sicura, le auto di passaggio
vengono attaccate molto spesso, se poi a passare sono due bianchi
l’attacco è sicuro.” Si asciuga di nuovo il collo e tira un
rutto che mi coglie alla sprovvista.
Nessuno dice niente.
“Bene, allora come si fa? Ci date una scorta?”
Certo, ci daranno una scorta armata. Ma bisogna pagare.
L’enorme signora manda a chiamare due militari che arrivano poco
dopo. Uno è una specie di gigante alto due metri e l’altro un
ragazzo magro e giovanissimo.
Prendiamo accordi per la mattina dopo. Partiremo all’alba.
Paghiamo il prezzo frutto di una lunga contrattazione e andiamo a
dormire.
La mattina partiamo dal nostro campo che ancora non ha fatto giorno.
Passiamo alla stazione di polizia e carichiamo i due militari.
Sono in mimetica e basco viola, coltello alla cintura e fucile
semiautomatico appeso alla spalla.
Ripartiamo, di nuovo ho delle armi in macchina e la cosa non mi
piace.
La sbarra che segna il confine della cittadina viene alzata da un
assonnato poliziotto che guarda nelle macchine con una pila, saluta i
militari e ci lascia andare.
La sensazione è quella di entrare in una zona pericolosa.
Costeggiamo basse montagne dai fianchi scoscesi ed i militari ci
dicono che sicuramente i banditi sono lassù che ci spiano con il
cannocchiale. Passano le montagne e passa anche la notte.
Adesso viaggiamo in pieno deserto oppressi da un caldo allucinante.
Il militare che mi porto accanto fuma come un disperato, una
sigaretta dietro l’altra. Le mie sigarette!
Alla stazione di polizia ci hanno detto che la strada
Isiolo-Marsabit-Moyale si può fare solo in non meno di due giorni.
Noi abbiamo fretta ed i militari ci assicurano che se non smettiamo
mai di guidare, in quindici sedici ore dovremmo riuscire ad arrivare
a Moyale.
Lo facciamo. Guidiamo quattordici ore attraversando un deserto
allucinante. Lasciata Marsabit la strada peggiora e la temperatura si
alza. Il militare che ho di fianco si copre con un passamontagna nero
per ripararsi la bocca e gli occhi dalla polvere.
La strada all’apparenza non sembra terribile, corre piuttosto
piatta dritta davanti a noi. In realtà è la strada peggiore che
abbiamo mai percorso. Il fondo è costituito da detriti vulcanici di
lava nera solidificata da millenni. Le vibrazioni sono estenuanti e
le macchine soffrono come non hanno mai fatto. Toule ondulèe si
susseguono a tratti di ghiaia nera alta un metro. Spesso ci spostiamo
muovendoci sulla roccia viva, dove ogni asperità trasmette alle auto
dei colpi forti e secchi.
Cinquecento chilometri in queste condizioni farebbero a pezzi anche
un carro armato. I Land Rover resistono. Le vibrazioni storcono e
contorcono le macchine, le lamiere della carrozzeria si muovono come
fossero di cartone, i rivetti cedono e schizzano via come proiettili.
Arriviamo a Moyale stanchi morti, sporchi e sudati come poche volte
ci è capitato. Le macchine sono un unico grumo di polvere. Dentro e
fuori.
La polizia del posto ci fa dormire nel piazzale di fronte alla
caserma, ci dice che è il posto più sicuro.
Compriamo una tanica d’acqua e ci laviamo con i piedi nella
polvere.
Apriamo le tende. Sono piene di terra e la mia si è spaccata e la
devo tenere assieme legandola con delle cinghie.
Mangiamo ugali e sombe con i militari stanchi e mezzi ubriachi.
La mattina dopo salutiamo la nostra scorta e ci dirigiamo alla
frontiera.
Passiamo la dogana, la polizia e l’immigrazione. Tutto in regola,
superiamo la sbarra, il solito ponte e ci parcheggiamo di fronte agli
uffici di dogana etiopi.
Da qui una strada ben asfaltata parte in direzione Addis Abeba.
Gli uffici sono ancora chiusi. Dovremo aspettare tre ore, anche a
causa della differenza di fuso tra Kenia ed Etiopia.
Un ragazzo ci avvicina e ci spiega che se volessimo fare colazione
lui ci può accompagnare e può cambiarci i soldi.
Accettiamo. Un ottimo caffè e due uova strapazzate ci danno il
benvenuto in Etiopia.
Mentre chiacchieriamo con il nostro nuovo amico questo ci chiede se
abbiamo i Carnet de Passage.
Noi rispondiamo di no e lui si rabbuia.
“Senza i Carnet non vi faranno passare, lo sapete?”
“Sì, sì lo sappiamo” gli rispondiamo con aria superiore.
Senza i Carnet non si passa da nessuna parte, ma noi fino ad ora,
senza Carnet abbiamo attraversato la bellezza di 22 stati, dal
Marocco al Sud Africa, dal Botswana al Kenia.
Finiamo di mangiare e ci dirigiamo agli uffici di dogana.
Dopo due ore di liti ed insulti due poliziotti ci accompagnano alle
macchine, ci pregano di salire ed andarcene. Noi eseguiamo, giriamo
le macchine in direzione Kenia e ripartiamo.
Non ci fanno passare. In Etiopia non si entra.
C’è la guerra.
Il governo di Addis Abeba ha chiuso quasi tutte le frontiere e le due
rimaste aperte sono state private dell’autorità di rilasciare
visti di ingresso. Per sicurezza, per non correre il rischio che
qualche funzionario di dogana accetti denaro in cambio di un visto,
tutti i timbri ed i moduli sono stati ritirati. Gli uffici sono in
realtà vuoti di tutto.
Se vogliamo il visto l’unico modo è andare all’ambasciata etiope
a Nairobi, mille chilometri più giù, mille chilometri indietro,
mille chilometri di deserto.
Le nostre sfuriate prima e le preghiere poi non servono a niente.
Nemmeno la promessa di forti somme serve a qualcosa.
Tornare a Nairobi e poi nuovamente qui in macchina, tra gasolio,
campeggi, cibo e scorta armata ci verrà a costare qualcosa come
settecento euro.
Cerchiamo di corrompere il capo della dogana. Arriviamo ad offrirgli
cinquecento euro, una cifra assolutamente spropositata, enorme,
mostruosa. Una cifra che per quanto ci riguarda metterà in crisi
l’economia del nostro viaggio. Una cifra che per un doganiere
etiope corrisponde a qualcosa come due anni di stipendio.
L’idea di dover tornare indietro ci fa impazzire dalla rabbia. Le
macchine sono troppo provate, la strada troppo brutta.
Tiriamo fuori i cinquecento euro e li mostriamo al capo, a questo
brillano gli occhi, gli viene quasi da piangere: “pensate che, se
potessi, non li accetterei? Proprio non si può fare niente.”
Rientriamo in Kenia con la sconfitta che ci pesa addosso.
Facciamo un nuovo visto e ci sediamo sul cemento bollente del
marciapiede a pensare come risolvere la situazione.
Tornare a Nairobi con due macchine è una follia, spenderemmo troppi
soldi. Andarci con una macchina è un rischio e comunque, visto
quanta strada ci aspetta prima di arrivare in Italia è una fatica
che vorremmo risparmiare ai mezzi.
La soluzione che ci sembra la migliore è di trovare un passaggio ed
andare a Nairobi senza macchine, fare i visti e ritornare su.
Ma trovare un passaggio qui non è così semplice. In più abbiamo
fretta, una fretta non di minuti o di ore, ma una fretta che ormai
dobbiamo misurare in giorni.
Domandando di quà e di là conosciamo un certo Alì che, dietro
forte compenso ci può procurare un passaggio. Suo padre ci può
portare a Nairobi e poi riportare qui, basta pagarlo.
La mattina dopo, all’alba partiamo.
Siamo seduti in tre sul sedile anteriore di un Toyota Pick Up. Alla
guida un uomo di ottantatrè anni, il padre di Alì. Nurr ha
ottantatrè anni, è vestito con una mimetica ed un cappellaccio da
cow boy, è coperto da migliaia di rughe e non parla una parola di
inglese.
Le nostre macchine sono chiuse ed al sicuro nel cortile di Nurr.
Il Toyota è stato caricato di un mucchio di roba, già che un
familiare va a Nairobi, amici e parenti gli lasciano le liste della
spesa e lo riempiono di cose da far avere a qualcuno lungo il
percorso.
I nostri zaini sono fasciati in un telo militare e buttati sul
cassone posteriore alla mercè della polvere.
Nurr conosce bene la strada e quindi guida pianissimo, lento come una
lumaca, per non spaccare la macchina.
In più per dividere la spesa della scorta ci accodiamo ad un
convoglio di camion che trasportano farina.
Impiegheremo quasi venti ore solo per arrivare a Isiolo.
La strada ci sembra ancora più lunga ed il deserto più desolato e
caldo. Due giorni fa non avrei mai immaginato che nella vita sarei
ripassato in questi posti ed oggi eccomi qui, nelle mani di un
vecchietto che ripercorro la stessa strada e, se tutto va bene, tra
una settimana passerò ancora di qui.
Venti ore, seduti in tre sul sedile di un Toyota, è un’esperienza
quasi traumatica. Diego stà in mezzo, una gamba stesa verso di me ed
una appoggiata alla base del cambio, la schiena dritta ed irrigidita
nel tentativo di non crollare addosso al vecchio Nurr ad ogni
sobbalzo.
Io aggrappato alla portiera ed al cruscotto per non scivolare in
basso a causa delle vibrazioni. Crampi, mal di schiena e negli occhi
quel maledetto ed infernale deserto piatto.
Nurr conosce i posti. È armato di pistola, il pianale del suo pick
up è chiuso in una gabbia di ferro con tanto di porta e lucchetti.
Il Toyota, vecchio e asfittico ha due serbatoi, così non saremo
obbligati a fermarci a fare gasolio.
Non ci fermiamo mai. Solo ogni tre-quattro ore Nurr si ferma, indica
il suo inguine e poi indica noi. Traduzione “Volete fare pipì?”
E così ci troviamo lì. In mezzo al deserto, dove l’unico rumore è
il vento, Nurr, ottantatrè anni, Diego trentatrè ed io
trentaquattro, piazzati in riga e sottovento che facciamo la pipì
osservando la pianura che si perde lontana.
Nel tardo pomeriggio Nurr, con il dito, indica di fronte a noi, in
alto sulla strada. Più avanti ci dev’essere una carogna perché
gli avvoltoi compiono i loro giri sempre più stretti e sempre nello
stesso punto.
Lontano vediamo qualcosa a terra con una decina di figure nere che si
danno da fare li attorno.
Superiamo il corpo di una iena, mezzo dilaniato spolpato.
Al nostro arrivo gli avvoltoi infastiditi si alzano in volo
sollevando nuvole di polvere, ma non vanno lontano, restano su nel
cielo ad aspettare che noi si passi oltre.
Gli avvoltoi stanno facendo alla iena quello che lei di solito fa
agli altri animali, ne stanno mangiando i resti morti, ne stanno
facendo a pezzi il cadavere steso al sole.
Mentre passiamo guardo il corpo della bestia, il pelo bello, maculato
e lucido e coperto di polvere e la pozza di sangue piena delle
impronte degli avvoltoi. Passiamo oltre, lentamente come in una scena
al rallentatore. Un minuto dopo mi volto e vedo gli avvoltoi che
scendono a finire la loro cena.
Questa notte dormiremo a Isiolo, solo poche ore. Domani in mattinata
dobbiamo essere all’ambasciata dell’Etiopia a Nairobi a
richiedere i visti.
Dover tornare indietro mi ha fiaccato l’anima ed il corpo.
Anche Diego appare più stanco e meno motivato.
La notte scende ed io, pur stanchissimo non riesco a dormire.
Non sono più così sicuro che riusciremo ad arrivare in Europa con
le macchine. Sono stanco, sono addolorato dalla mia stanchezza. Prego
per avere le forze di continuare questo assurdo ed allucinante
viaggio. Ma, anche se il fisico regge, è la mente che perde colpi,
che si allenta, che non è più forte ed elastica come dovrebbe.
Dopo giorni di polvere e deserto, di cibo freddo e birra bollente,
dopo giorni passati in mezzo a persone disperate ed in continua lotta
con l’ambiente in cui vivono, dopo giorni passati a vedere persone
armate che cercano di difendersi da altre persone armate, che cercano
di difendere con la vita un camion di farina ed una lingua di terra
arida e polverosa, dopo notti sudate di zanzare, mi addormento
sognando di sedermi in un ristorante fresco, vestito di abiti puliti
e pronto a buttare giù una birra ghiacciata.
Nairobi aspettami che ti mangio e ti bevo, come quegli avvoltoi
facevano con quella iena…
Don’t kill your trip!
Siamo nella lussuosissima villa di Mohamed Osman. Ce ne stiamo seduti
a bordo piscina a guardare le acque della cascata che precipitano
dalle rocce che sovrastano la casa. Un inserviente ci porta caffè
turco e biscotti somali.
Mohamed è molto molto ricco, è nipote di Nurr e come lui è di
origini somale ed è migrato a Nairobi nei primissimi anni ottanta.
Come lui stesso ci racconta è arrivato in città da Moyale con una
mano davanti ed una dietro, vestito di stracci. Ha lavorato e
commerciato, si è inserito nei giri giusti, è entrato nel progetto
Food for Oil, è volato in Iraq e ne è tornato carico di soldi, di
quadri e pure con una moglie, giovane e dolce. Mohamed è molto fiero
di farci visitare la sua lussuosissima villa, ci mostra le foto dei
suoi viaggi e dice di invidiarci molto poiché un viaggio come il
nostro è il suo sogno. Il lavoro lo occupa troppo ma sta già
allestendo un mezzo per tentare una transafricana con moglie e
figlio. Tutte le sue conoscenze non sono bastate a trovare una
soluzione al nostro problema. L’ambasciata etiope non ci rilascia i
visti perché non abbiamo il carnet de passage.
Mohamed continua a ripeterci “Don’t kill your
trip! Please. Don’t kill your trip”. Nei due giorni che
passiamo assieme tra conoscenze di vario tipo, uffici consolari ed
ambasciate, non fa altro che ripeterci di non mollare, di fare in
modo che il nostro viaggio non finisca qui. Ma alla fine nemmeno lui
ha una soluzione. L’unica via che porta a nord passa per Moyale,
per l’Etiopia. Abbiamo studiato percorsi alternativi ma tutti sono
poi risultati impossibili. Nemmeno le sfuriate di Diego in ambasciata
sono servite a niente, gli impiegati hanno chiamato la polizia per
calmarci e siamo stati educatamente accompagnati fuori, tutto qui.
Niente visto e niente carnet.
Mohamed ci scarrozza in giro per Nairobi a bordo del suo chilometrico
Mercedes, andiamo da uno e dall’altro ma alla fine nessuno ci può
aiutare. Nemmeno lui ci può credere.
Mohamed ci saluta dal cancello della sua villa tenendo in braccio il
suo piccolo figlio. Abbracciamo la moglie e ci scambiamo una stretta
di mano, forte e generosa, roba da uomini e ci facciamo la promessa
reciproca di rincontrarci, al nostro prossimo viaggio o quando
finalmente lui con tutta la famiglia riusciranno ad arrivare in
Europa via terra. Noi partiamo ed il cancello elettrico si chiude.
Non rivedremo mai più Mohamed, morirà tre mesi dopo in un incidente
stradale senza essere riuscito a coronare il suo sogno
transcontinentale.
La mattina all’alba ci incontriamo con Nurr e saltiamo sul suo
Toyota pronti a ripercorrere l’infernale strada che porta a Moyale.
L’uscita dal centro cittadino di Nairobi comporta decine di soste
dove Nurr riempie il Toyota all’inverosimile. Sacchi di riso e
farina, un forno, un televisore, decine di scope e patate e taniche
di acqua.
Arriviamo a Isiolo all’imbrunire. Nurr fa una “sosta pipì”.
Scendiamo a fare pipì e a sgranchirci le gambe. Sono ormai dodici
ore che, tra una sosta e un carico, non scendiamo dalla macchina.
Nurr ci guarda, noi pensiamo che sia stanco morto e che voglia
trovare un posto dove dormire.
“We go ok?” ci dice in inglese stentato ma con decisione.
“Ok” rispondiamo all’unisono io e Diego. Senza pensarci.
Ripartiamo, arriviamo alla sbarra che chiude la strada e che separa
la città dal deserto. I militari di guardia non vogliono farci
passare senza la scorta armata e soprattutto non vogliono che si esca
dalla città con il buio.
Nurr contratta per dieci minuti e poi, con pochi spiccioli compra il
consenso dei militari a lasciarci andare.
Partiamo nella notte lungo la pista polverosa.
Il vecchio arresta il Toyota in mezzo alle tenebre, scende, prende
dal cruscotto una pistola, la carica e se la infila alla cintola,
“For the bandits” dice senza accennare ad un sorriso.
Ecco qua. Adesso non riesco a dormire, non sono abituato a dover
andare in giro armato per difesa. In più il Toyota è carico di ogni
ben di Dio e quindi un bersaglio appetibile per i banditi.
Più volte nella notte qualcuno esce dalla savana e ci fa segno di
fermarci. Nurr non si volta nemmeno e tira dritto.
I fari illuminano quel po’ di strada che basta a scansare le buche
più brutte. Ci muoviamo alla velocità di una tartaruga. Nurr guida
piano per preservare le balestre schiacciate dal folle carico.
In piena notte facciamo sosta in un villaggio dove il vecchio
contratta e acquista cinquanta scopette.
Io non ce la faccio più. Sono almeno diciotto ore che viaggiamo,
schiacciati e scomodi. Vado nel retro del Toyota, ingabbiato come una
cocorita mi sdraio sui sacchi di riso e mi copro con sacchi di farina
e scopette.
Fa freddo, la polvere mi si deposita addosso in strati sempre più
spessi. Le parti del mio corpo che non sono coperte dai sacchi mi si
intirizziscono per il freddo. È buio e la gabbia che chiude il
cassone produce un rumore infernale. Nonostante tutto mi addormento
cullato dalle dolci scomodità del viaggiare.
Sdraiato in modo scomposto in quel cassone, mentre guardo la bassa
vegetazione illuminata dai fari che scorre lentamente al mio fianco,
mi sento bene. È una sensazione piacevole, essere trasportati tra i
pericoli, verso l’ignoto in una terra straniera e lontana. Stiamo
viaggiando. Questo conta, quella malattia che ci perseguita ha solo
una cura e la cura è questa. Questa notte la cura è costituita da
un Toyota scassato ed il dottore che ce la somministra si chiama Nurr
ed ha ottantatrè anni.
Dormo un sonno lungo un’ora, ricco di sogni fatti di polvere e di
assalti da parte dei banditi.
Diego e Nurr, chiusi nella cabina davanti non se ne accorgono ma
spesso, al nostro passaggio qualcuno salta fuori dai cespugli e corre
nel buio di fianco alla nostra macchina, si aggrappa alle inferiate e
cerca di dare una sbirciata dentro. Ogni tanto qualcuno si appende
alla gabbia, forse per cercare di entrare. Io ho la mia Mag Lite, la
accendo un secondo e la spengo, questo serve a far desistere i poveri
ed improvvisati banditi.
Il mio sonno viene interrotto più volte da questi deboli assalti ed
alla fine mi sveglio del tutto quando, in mezzo al nulla più
assoluto la macchina si ferma ed anche quel misero fascio di luce
prodotto dai fari viene meno, inghiottito dalle tenebre.
Non riesco a vedere cosa succede, sento che qualcuno si avvicina al
furgone, qualcuno cerca di guardare dentro. Io stò fermo ed immobile
con la barra della mia Mag Lite pronta all’uso.
Poi sento Nurr che parla, discute, scende dalla macchina ed alla
fine, viene nel retro, apre la porticina della gabbia e carica un
altro centinaio di scopette.
Ripartiamo nell’oscurità.
Adesso per coprirmi posso usare anche la paglia delle scope, qualcuna
la uso da cuscino e mi godo un’altra ora di sonno.
Manca ancora un’ora all’alba quando veniamo fermati ad un posto
di blocco.
Qui il perentorio ordine che non possiamo proseguire senza la scorta
armata di almeno due militari.
Nurr, malvolentieri accetta a bordo i due soldati armati di fucile,
mitra e lanciagranate.
Io passo davanti con Diego ed i due militari si appostano sul retro
piazzati in modo da poter far fuoco in caso di bisogno. Si mettono
bene in vista così da essere ben visibili agli eventuali banditi.
Normalmente la sola presenza dei militari basta ad evitare di essere
attaccati.
Ma questa pare essere una notte speciale, ci sono stati parecchi
scontri a fuoco tra banditi, pastori e bande di ribelli, ci sono
stati dei morti ed uno di questi proprio poche centinaia di metri più
avanti, era l’autista di un camion che è stato assaltato.
Viaggiamo scomodi e tesi.
All’alba, dopo ventidue ore di guida ininterrotta ci fermiamo di
fronte ad una cadente costruzione. Scendiamo tutti e cinque ed
entriamo.
Il posto ha l’aspetto di una costruzione abbandonata dopo un
terremoto, in realtà è una specie di locanda.
Nurr ordina per noi.
Poco dopo ci arriva una bibita gasata così dolce e zuccherata da far
cariare i denti all’istante.
Un ragazzo giovane apparecchia la tavola: una ciotola di sale, un
tagliere di legno ed un coltellaccio di trenta centimetri. Un enorme
blocco di capra bollita viene depositato sul tagliere. Nurr lo riduce
a piccoli pezzetti e poi, finalmente si mangia.
Ragazzi che colazione, sono più di venti ore che non tocchiamo cibo.
I pezzetti di capra si mangiano con le mani, ne prendi uno alla volta
e lo tocchi nel sale, unico e prelibato condimento a disposizione.
In cinque minuti ci pappiamo tutto, pelle, grasso e nervi compresi.
Prima di andare via Diego succhia e spolpa le ossa che restano sul
tagliere. Noto che questo gesto è molto apprezzato dai commensali
che felici vanno a lavarsi le mani in una tinozza. L’acqua del
secchio si è ormai trasformata in una brodaglia, comunque anche noi
ci sciacquiamo mani e bocca.
Si riparte, il sole è già alto e, nel primo pomeriggio siamo a
Moyale, sani e salvi.
Nurr, ottantatrè anni, asciugato e incartapecorito da un’esistenza
passata nel deserto, ha guidato trentuno ore senza fermarsi, armato e
con il fuoristrada carico. Ha scansato migliaia di buche e
schiacciato decine di bestie, schivato massi e caricato scopette.
Dice di essere un tantino stanco, dice che prima di cena andrà a
fare un riposino.
Noi non abbiamo tempo di fare niente. Siamo morti, dobbiamo
riorganizzare le macchine, andare al comando di polizia e procurarci
una scorta per l’indomani.
Passiamo la serata nel caotico e polveroso cortile di Nurr. Siamo
rimasti soli, nessuno ci ha invitato a cena. Mangiamo una scatoletta
di tonno e vediamo che intanto i servi della famiglia del vecchio
passano su e giù con la cena per i padroni.
Una bimba, di si e no dieci anni, esce dalla cucina e ci porta
qualche focaccetta di mais. Lei, più povera di chiunque ci vede
affamati e ci porta da mangiare. Ci porge la ciotola di focaccette
con un sorriso e poi corre via, dietro ad un muro a spiarci. Andrò a
dormire con le lacrime agli occhi.
Passiamo una notte disturbata dal continuo canto dei muezzin.
La mattina saliamo sui nostri Defender e ripartiamo, ancora una volta
in direzione Nairobi. Questa follia non finisce mai.
A bordo con noi due militari, uno per macchina,armati di tutto punto
e nervosi. Durante la notte le tensioni lungo il percorso sono state
alte, pare che gli scontri abbiano imperversato tutti e due i giorni
precedenti.
Di nuovo alla guida su queste folli strade che fanno a pezzi la
schiena e le macchine.
Guidiamo un’ora e poi, ad un posto di blocco veniamo fermati.
Gli uomini che ci scortano prendono accordi: non possiamo proseguire
da soli, più avanti si stà sparando, bande di banditi imperversano
innervosite dai casini successi nella notte.
Si riparte dopo due ore di attesa. Ci muoviamo assieme ad un
fuoristrada pieno di militari che apre la strada, in mezzo noi, due
camion carichi di farina e dietro a chiudere altri mezzi militari.
In realtà poi si viaggia da soli, ognuno va alla sua velocità,
l’importante é che qualcuno apra e qualcuno chiuda la colonna.
Siamo a metà strada, in mezzo al deserto quando il Defender
dell’esercito che viaggia qualche chilometro davanti a noi si ferma
d’improvviso.
Lo raggiungiamo.
Un colpo di fucile ha sfondato il parabrezza, proprio all’altezza
della fronte dell’autista. Il proiettile ha continuato la sua corsa
e si è conficcato nella lamiera della carrozzeria.
I militari se la ridono, ridono del fatto che l’autista sia ancora
vivo solo perché di statura molto piccola e quindi il proiettile gli
è passato sopra senza colpirlo. Ride anche lui.
Io non rido, sono nervoso e spaventato. Qui ci sparano.
Ripartiamo e adesso, dopo l’attacco i militari di scorta hanno
adottato una nuova strategia: ogni mezz’ora ci fermiamo, scendiamo
dalle macchine e loro sparano un intero caricatore nel vuoto, “Per
farci sentire, per tenerli alla larga, per far capire che non
scherziamo, che i proiettili li abbiamo in abbondanza.”
Bene, la giornata passa attraverso questa follia. Un deserto caldo,
piatto, asfissiante. Militari che sparano nel vuoto ogni mezz’ora e
noi che li stiamo a guardare allibiti.
Qui la gente si spara, si odia e si uccide per il predominio su una
striscia di terra arsa dal sole, spietata e desolata. Come al solito
i poveracci si uccidono per una manciata di niente e qualche sporca
idea messa loro nelle teste dai governanti che preferiscono che i
confini siano insicuri ed i collegamenti tra le città quasi
impossibili.
“Dividi et impera” come diceva il buon Giulio.
Qui hanno imparato la lezione alla perfezione.
Se sei di Moyale stattene a Moyale e non rompere!
Mentre procediamo a sud incrociamo decine di mezzi blindati,
fuoristrada e carri armati dell’esercito che ci chiedono
informazioni sulla situazione. Vanno al nord, “a calmare le acque”
dicono.
Bene, noi andiamo verso sud e, mi sa che di qui per un bel po’ non
ci passeremo più.
I camion militari sono pieni di ragazzi in assetto da guerra, hanno
le facce rassegnate e stanche, sono un esercito mal pagato, pronto ad
intervenire in un deserto del quale non frega niente a nessuno.
A notte inoltrata arriviamo alla sbarra di accesso ad Isiolo.
I militari corrono ad aprirci.
Passiamo la notte in paese ed il pomeriggio seguente siamo di nuovo a
Nairobi, all’Upper Hill Camp Site che, seduti su un divano, ci
beviamo una Coca Cola rigenerante.
Domani andremo ancora in ambasciata a giocarci l’ultima carta per
tentare di entrare in Etiopia. Un ultimo tentativo, abbiamo
appuntamento con il resposabile dei carnet.
Ma lo sento, lo sente anche Diego, non so perché ma ormai ne siamo
convinti. Il nostro viaggio è finito. È morto definitivamente
quando, nella notte, i militari ci hanno lasciato entrare ad Isiolo
strappandoci al deserto, al suo calore ed alle sue miserie.
Un lento
rientro.
Nairobi,
Mombasa, Il Cairo.
“Mi dispiace ma le regole sono regole”
“Ma un mese fa le regole erano diverse”
“Possibile ma non necessario, comunque in questo momento le regole
sono queste ed io sono qui per farle rispettare.”
“Ma guardi che per noi è un grossissimo problema non poter
transitare per l’Etiopia”
“Mi dispiace ma il problema è vostro e non mio. Se voi aveste i
Carnet potremmo anche discutere, sono qui per questo.”
“Discutere di cosa? Se avessimo i carnet non saremmo nemmeno qui,
avremmo fatto tutto allo sportello.”
“Non è vero neanche questo, magari anche con i Carnet non sareste
potuti entrare.”
“E le regole? Dove le mettiamo?”
“Le regole sono molte, molti i modi di interpretarle ed usarle e
poi ci sono tanti fattori da considerare, capite che in Etiopia c’è
la guerra, durante la guerra le regole cambiano, come gli uomini del
resto.”
“Guardi che non siamo qui a fare della filosofia.”
“Per quanto mi riguarda siete qui a far niente. Se volete potete
pure accomodarvi fuori dall’uffici.”
“Senta, siamo qui per ragionare, noi abbiamo assoluto bisogno di
transitare per l’Etiopia, anche un permesso di soli tre giorni ci
basterebbe”
“A parte che ve ne occorrerebbero almeno dieci per fare tutta
quella strada e per procurarvi i documenti per il Sudan e, d’altra
parte, comunque sia, vi assicuro e vi ripeto che in questo ufficio
state solo perdendo il vostro tempo. Diciamo che mi dispiace e
arrivederci.”
Il funzionario in completo blu si alza, va alla porta, la apre ed
attende che noi usciamo.
E noi usciamo; bruscamente e lamentandoci ad alta voce, io
addirittura cerco di sfiorare l’uomo alla porta nella folle
speranza di scontrarlo.
Poco dopo siamo di nuovo in strada, alle nostre spalle il cancello in
ferro dell’ambasciata viene chiuso a chiave.
Il quartiere delle ambasciate è triste ed anonimo. Edifici chiusi da
alte recinzioni e sbarrati da pesanti cancelli.
Piccole aiuole d’erba costeggiano i bordi della strada, una strada
peraltro asfaltata all’africana, ovvero piena di pezze, buchi,
rattoppi e dossi.
Camminiamo sotto al sole in cerca di un taxi.
“Guarda Diego, io non ne posso davvero più, mi sono rotto, sono
stanco. Sono almeno venti giorni che ci scorniamo per entrare in
questa cavolo di Etiopia.
Su e giù per quel maledetto deserto, dentro e fuori dalle ambasciate
a farci trattare male se non addirittura a farci arrestare.
Non parliamo poi dei soldi che stiamo spendendo in questa follia.
Ormai è tardi, dobbiamo desistere, andare o a Mombasa o a Dar
Es-Salaam in Tanzania ed imbarcare le macchine.
Ormai è andata.
Non abbiamo né tempo né denaro per continuare.”
“Lo so, lo so benissimo, hai ragione, solo che io non volevo dirlo,
veramente non volevo nemmeno pensarci al fatto di mollare tutto e
rientrare. Se non possiamo fare altrimenti amen. Torneremo,
raggiungeremo quella maledetta Moyale arrivando dal Mediterraneo, lo
faremo tra un anno o due ma chiuderemo il cerchio.
Comunque sia la cosa più importante è stata fatta, abbiamo
raggiunto la missione, abbiamo incontrato suor Franca e consegnato i
soldi, abbiamo preso informazioni e scattato fotografie ad Irambo. Da
solo, l’arrivo ad Irambo è valso due anni di viaggi.
Torneremo, torneremo ad Irambo arrivando da nord, ci organizzeremo
ancora una volta, troveremo i fondi. Niente deve essere perduto.”
Prima di trovare un taxi che ci riporti all’Upper Hill camminiamo
almeno mezz’ora, a testa bassa ed in silenzio. La stanchezza degli
ultimi due anni, fatti di preparativi e di sette mesi di viaggiare
ininterrotto, ci piomba addosso tutta assieme. È come allentare la
tensione, lasciarsi andare ad un riposo tranquillo e rilassato.
La decisione ormai è presa, si rientra in Italia, dopo tre mesi
dobbiamo metterci in mente che la questione è chiusa.
E comunque non è così semplice. Bisogna sentire la Messina Lines se
e quando hanno delle navi disponibili, dobbiamo incontrare i
funzionari della compagnia navale, probabilmente a Mombasa, bisognerà
imbarcare le auto; container, documenti e tutto il resto.
Trovarci un volo, far coincidere le date, insomma, non è per niente
facile ed in più richiederà un sacco di tempo, non meno di quindici
giorni.
Domani arriveranno di nuovo le ragazze in città, dove si fermeranno
un giorno per prendere il volo per l’Italia. Meno male, almeno
passeremo ancora una bella giornata, poi sarà il solito guazzabuglio
di documenti e spostamenti e controlli e liti con funzionari che
chiedono mancette.
La mattina dopo andiamo a prendere le ragazze e ne approfittiamo per
fare un giro in una specie di piccolo parco fuori Nairobi, dove si
vedono le giraffe libere con sfondo di grattacieli ed i bufali che
brucano con contorno di township. Sembra di essere in uno zoo ed i
parchi del Botswana paiono sbiaditi nel ricordo e lontani mille anni
luce.
Neri travestiti da Masai vendono souvenir all’entrata e Masai
travestiti da neri fanno i guardiani. Strade in cemento e belvedere
in legno. Tutto è finto, tutto è a misura di turista.
Meglio tagliare la corda.
Salutiamo le ragazze per la terza volta, le accompagniamo in
aeroporto la mattina presto e lo stesso giorno partiamo anche noi,
per Mombasa.
Questa volta sono loro a partire per il nord e noi verso sud.
Il resto è storia senza storia.
Passiamo vari giorni a Mombasa e dintorni mentre espletiamo le
pratiche per l’imbarco delle auto.
Tra un permesso e l’altro riusciamo a passare anche qualche giorno
al mare.
Messe le macchine nel container torniamo a Nairobi in autobus.
Il giorno dopo siamo già in volo ma, visto che l’aereo fa tappa al
Cairo, decidiamo di farci un bello stop over di qualche giorno.
Passiamo dieci giorni al Cairo, tra fumate di tabacco aromatico e
visite al museo egizio. Andiamo a visitare le piramidi e a
fotografare la sfinge. Tutto a posto, tutto tranquillo.
La millenaria cultura dei faraoni riesce ancora ad impressionare la
mente e lo spirito. Tanto profonde e lontane nel tempo sono le
fondamenta delle piramidi, quanto sozzi e confusionari i vicoli della
città moderna.
La prima volta che vedo le piramidi le vedo dal cielo, quelle della
piana di Giza, confine tra valle del Nilo e deserto, sono un disegno
divino messo in pratica dall’uomo, sono il simbolo eterno del
nostro passaggio sulla terra.
Quando le vedo da vicino e ci entro dentro non riesco più a capire
se la nostra tecnologia sia andata avanti o si sia fermata tremila
anni fa. Niente di così grande e perfetto nel tempo è mai stato
fatto e mai più sarà fatto. Attorno a me Il Cairo mi riporta alla
realtà, fatta di catapecchie e di palazzi dai finti splendori.
Il Cairo, come tutta l’Africa del nord è una buona tappa
intermedia dove sostare durante il rientro dall’Africa Nera, una
zona di acclimatamento, non ancora Europa ma nemmeno Africa.
L’Egitto, la nostra camera di decompressione. Il rischio al rientro
in Italia è lo stesso che corrono i pesci che vengono pescati ad
enormi profondità, quando arrivano in superficie esplodono a causa
delle loro tensioni interne.
Dopo mesi passati a viaggiare in una terra così ricca di sensazioni
ed emozioni, il rientro può essere molto pericoloso, la depressione
arriverà puntuale come il famoso “orologio svizzero”.
L’occhio si abitua a guardare spazi quasi infiniti, comunque sempre
immensi.
Il corpo si abitua a muoversi libero in ogni sua forma e direzione.
I sensi si abituano a nuotare immersi in un caleidoscopio di colori,
suoni ed odori talmente variegato da far girare la testa.
L’anima si abitua a vivere situazioni di estrema disperazione e
dolore che in pochi minuti si trasformano in meraviglia e gioia.
Il giorno che rientriamo alla Malpensa piove.
I panorami si rimpiccioliscono immensamente, in ogni direzione in cui
l’occhio possa guardare, nuovi, vecchi ed antichi ostacoli ne
impediscono la libertà, ne castrano la profondità.
Il corpo si trova costretto in abiti pesanti e belli, in vetture
quasi pressurizzate ed in una continua lontananza dagli altri corpi,
separati da esso da un mare di storia e discutibile eleganza.
Gli odori si uniformano in un unico grande vortice che vive solo
delle mille sfumature della chimica moderna. Svaniscono le vette dei
profumi da paradiso terrestre e le profonde gole delle puzze
infernali, per lasciare spazio ad una regione olfattiva piatta ed
inconsistente come la pianura che stiamo attraversando.
L’anima perde velocemente la tonicità raggiunta in mesi di duro
lavoro e di soave riposo, si affloscia mollemente in un’
occupazione fatta di piccole speranze e di vani tentativi di
resurrezione, tanto lontana dalla morte quanto dalla vita. L’anima
torna ad essere un apparato malfunzionante, che morte e disgrazie
riusciranno a cogliere sempre impreparata ed impaurita, atterrita ed
incapace di risollevare il capo dopo la tempesta.
Da Milano a casa ci sono due ore, circa duecento chilometri, li
percorriamo come razzi a bordo di una BMW nuova.
Tutto fila liscio, tutto funziona, la strada è perfetta, le case
pulite. Guard-rail luccicanti come gioielli, corsie di emergenza,
colonnine dell’sos, solo vetture nuove e brillanti che sfrecciano
da tutte le parti. L’aria che respiro mi punge il naso e mi dà
fastidio alla gola come se fosse troppo sottile e misera per essere
respirata, è come bere acqua distillata da un bicchiere d’acciaio.
È un’aria grigia che sa di malattia e di medicinale messi assieme.
Macchine nuovissime, camion perfettamente puliti, migliaia di
occhiali da sole.
Ci sentiamo fuori posto più che mai.
Io mi guardo le mani e vedo che sotto le unghie ho ancora un filo di
terra rossa, guardo il grigio fuori dal finestrino e penso al primo
elefante che ho visto nella mia vita, mi si bagnano gli occhi, era
milioni di chilometri prima di adesso.
Ora che sono di nuovo a casa gli elefanti torneranno ad essere i
protagonisti di una favola o di un incubo notturno, torneranno ad
essere impossibili sogni di bambino.
Testi e immagini di Luca Oddera
Disegni di Filip Stancu
Grafiche di Diego Assandri
Foto di copertina gentilmente concessa dalle suore Rossello di Bukavu
- Copertina flessibile: 160 pagine
- Editore: Ass. Amici del Sassello (31 dicembre 2007)
- Collana: Narrativa
- Lingua: Italiano
- ISBN-10: 8890078030
- ISBN-13: 978-8890078033